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Autonomia differenziata o secessione reale?

Tra le molteplici definizioni del capitalismo quelle che sembrano più efficacemente definirne la natura, nell’attuale fase storica del suo dominio, attengono alla funzione di estensione, moltiplicazione ed approfondimento sistematico delle diseguaglianze. Un accrescimento delle contraddizioni connaturato all’incessante movimento di valorizzazione capitalistica in nuovi ambiti -territoriali, produttivi, settoriali, – che concorre alla definizione di nuovi e funzionali sistemi di relazioni anche di natura politica e istituzionale.

Il trentennio che segue la fine dell’esperienza sovietica e del sistema dei paesi socialisti dell’Est-Europa è all’origine dell’attuale fase del modello di accumulazione, che attraverso una impetuosa crescita della dimensione economico- finanziaria, la cosiddetta globalizzazione, con un processo di centralizzazione dei capitali in poli geo-economici, ha innescato una nuova fase della competizione capitalistica. Alle nostre latitudini, la costruzione della Unione Europea, sulle spoglie della Comunità Economica Europea espressione del sistema di relazioni post-bellico del blocco occidentale, congegnato in un sistema di trattati di matrice ordo-liberista a sostegno del baricentro finanziario, economico e produttivo collocato nell’area  Nord-Europea, Germania in testa, si pone come portato della riorganizzazione dell’intero sistema di relazioni dell’Europa  Occidentale, strutturato come polo competitivo sovranazionale compreso nello sviluppo delle forze produttive e nelle filiere della valorizzazione.

I vincoli esterni, la perdita di margini crescenti di autonomia economica e sovranità nazionale, imposti dall’appartenenza alla Unione Europea e dall’ingresso nell’Euro sono la base interpretativa delle trasformazioni sociali, economiche, politiche ed istituzionali che hanno investito il nostro paese, con l’apporto di un acceleratore delle dinamiche rappresentato dalla crisi sistemica e di sovrapproduzione di capitali che con la sua esplosione del 2008 ha direttamente investito l’emisfero geo-economico della U.E. sotto le spoglie di crisi del debito sovrano. Il porre al centro della dinamica economica e finanziaria, secondo quanto previsto dal sistema dei trattati alla base della costruzione della U.E., la “sostenibilità” del debito pubblico è stata la chiave di volta per approfondire le gerarchie interne all’Eurozona, a partire dalla distinzione tra paesi core del processo di costruzione della U.E., Francia e Germania, e paesi periferici progressivamente ridotti al ruolo di mercato interno dei paesi esportatori di merci e capitali.

La lettura delle vicende interne al nostro paese non possono prescindere, dunque, dal processo di integrazione nel polo Europeo. Ciò a cui abbiamo fondamentalmente assistito nell’ultimo trentennio è stato una imponente riconversione di un intero apparato economico produttivo alla nuove condizioni del processo di accumulazione, trainate dalle produzioni ad alta composizione organica di capitale, tecnologicamente avanzate, collocate nei paesi dominanti della U.E. e funzionali al modello mercantilista teutonico. Un modello che ha attraversato incontrastato l’intera formazione economico-sociale dei paesi U.E., fino all’attuale recrudescenza della competizione imperialistica tra poli innescata dalle politiche di recupero della egemonia economica e politica dell’imperialismo U.S.A. e foriera di nuove fibrillazioni economiche e politiche nei paesi del polo europeo.

Naturalmente un simile processo di portata storica, di cui abbiamo solo evidenziato alcuni tratti, è organico al processo di rimodulazione del dominio di classe, all’affermarsi nel nostro paese di una borghesia trans-nazionale che nel sistema di relazioni del polo europeo trova ed apporta linfa  alla competizione, sia interna, tra le componenti nazionali, territoriali e produttive, che esterna nella competizione inter-imperialistica; oltre a definire, nel quadro di queste relazioni, il proprio peso specifico nella gerarchia  dei paesi U.E..

L’integrazione dell’Italia nel processo di costruzione della U.E. sembra riproporre per intero il portato storico della borghesia nostrana, ossia, classe dominante priva di visione strategica nazionale.  Le politiche di gestione del debito pubblico poste a presidio della costruzione della U.E., si rivelano il grimaldello per una destrutturazione economica e produttiva, minando le condizioni imprescindibile per una politica industriale nazionale. Le privatizzazioni considerate il volano della modernizzazione neoliberista del nostro sistema industriale, pur assecondando la formazione di una borghesia organica ai processi di costruzione del polo europeo, attraverso l’alienazione di asset industriali strategici, spesso cannibalizzati dalle aziende acquirenti con sede nei paesi core della U.E. per liberarsi di pericolosi competitori, si è tradotta in un progressivo deterioramento delle capacità competitive nella gamma delle produzioni ad alta composizione organica. La dismissione di settori quali, ad esempio, l’informatica e le telecomunicazioni hanno privato il nostro paese della base produttiva di riferimento per i processi industriali legati allo sviluppo delle tecnologie ad alto contenuto di conoscenza , alla base della nuova frontiera tecnologico-produttiva digitale.

Insomma, le politiche di privatizzazione e di gestione del debito hanno rappresentato il combinato disposto di una progressiva ed inesorabile colonizzazione della struttura economica – produttiva del nostro paese. L’impossibilità di impostare politiche industriali in una visione di sistema-paese, per l’evidente sottrazione dei primari assets, base produttiva e sistema di finanziamento pubblico, sono dunque aspetto portante del declino del sistema di relazioni unitario che ha caratterizzato, sia pure in un contesto di profonde diseguaglianze territoriali tra Nord e Sud funzionali al modello dominante di accumulazione, un’intera fase storica della vita del paese.

 

Dallo stato centrale alla centralità dei territori

L’onda del processo di costruzione della U.E. si pone, dunque, alla base della ridefinizione dell’intero sistema di relazioni economiche, politiche ed istituzionali, con una convulsa dialettica interna, che si protrae  orami da decenni, che vede protagonista il blocco economico-finanziario della nostra borghesia  organica la processo di costruzione della U.E. ed i suoi trasversali riferimenti politici, impegnati in una incessante richiesta di “riforme”, che ha travolto e tende sempre più a sovvertire le relazioni pubblico-privato, centro-periferia.

L’azione combinata delle politiche di privatizzazione e della gestione del debito costituiscono l’epicentro di una destabilizzazione delle relazioni politiche ed istituzionali in cui ruolo e funzioni dello stato centrale “arretrano” a fronte dell’imporsi del nuovo centro del sistema di relazioni ordo-liberiste della U.E. e dalla strutturazione  economico – produttiva di aree territoriali svincolate  dalla logica di sistema- paese ed a pieno titolo inserite nella competizione interna al polo geo-economico politico della  U.E.

La crisi del sistema di rappresentanza politico e istituzionale della prima repubblica , dalla vicenda giudiziaria  di tangentopoli, alle istanze autonomiste e secessioniste della prima ora delle varie leghe del Nord – Est, hanno rappresentato l’originario “brodo di coltura”, con una inestricabile relazione di causa ed effetto con le dinamiche sociali ed economiche, di un perdurante processo di transizione istituzionale caratterizzato da elevata instabilità politica , avviatosi negli anni ’90 e tuttora in corso, contraddistinto dalle manomissioni dei fondamentali pilastri dell’architettura costituzionale funzionali alla coesione sociale e nazionale.

L’impossibilità imposta dall’adesione ai trattati costitutivi della U.E. di concepire attraverso i canali del sistema di finanziamento pubblico piani di politica industriale in una organica visione di sistema- paese, con conseguente drastico ridimensionamento dei trasferimenti alla pubblica amministrazione e blocco del pagamento dei crediti per i servizi forniti alla stessa da aziende territoriali , hanno determinato, al pari di altri aspetti connessi alle funzioni di redistribuzione di ricchezza e mediazione sociale propri al sistema di Welfare ante U.E., il sostrato di due fenomeni intimamente correlati: la contrazione del mercato interno di beni e servizi sostenuto proprio dai trasferimenti della P.A., lo svuotamento delle funzioni di tenuta nazionale e coesione sociale garantita dall’azione statuale. Un sostanziale “svuotamento” del ruolo e delle funzioni dello stato a livello centrale che sul versante politico ha dato corpo ad una prima fase delle tensioni autonomiste e federaliste incentrate proprio sulla richiesta dei territori più ricchi sotto il profilo economico e produttivo del Nord-Est di gestione in proprio delle risorse fiscali, propalate come indebitamente espropriate dallo stato centrale per finalità clientelari e comunque poste a sostegno del parassitismo del meridione.

La subalternità al modello di relazioni economiche imposto dalla piattaforma economico-produttiva  della U.E. fondato sul primato delle esportazioni, ha modellato il nuovo triangolo industriale -lombardo, veneto, emiliano- facendo leva su strutture produttive rappresentanti filoni e fasi diverse della storia industriale e del capitalismo nostrano,  ma con un originario elemento comune: una radicata tradizione produttiva elevata a sistema di valori condiviso, egemonizzata  culturalmente dalle classi dominanti. La tradizione industriale meneghina, il capitalismo diffuso Veneto e la tradizione cooperativistica dell’Emilia-Romagna, non sono ovviamente le uniche culture industriali del nostro paese, basta considerare la storia dei vari distretti industriali sparsi in più punti della nostra penisola, ma la pluralità di esperienze industriali sedimentate nei loro territori, lontano dai limiti delle monoculture, hanno rappresentato la base per la trasformazione del territorio in sistema integrato elevato a fattore strutturale per le necessità della valorizzazione/competizione.

Il rapporto pubblico-privato, che ha contraddistinto l’intera  fase storica post bellica in cui, all’interno di uno scontro di classe per la redistribuzione della ricchezza sociale ad alta intensità, la funzione dell’intervento pubblico si è affermata come garante degli interessi generali,  si è completamente sovvertito con l’assunzione del primato della razionalità gestionale del privato. Un processo parallelo all’esautoramento delle funzioni di indirizzo economico dello stato centrale e all’affermazione delle aree industriali territoriali come i nuovi centri dello sviluppo economico, la cui relazione con il centro economico-finanziario della U.E. abbisogna di spazi di autonomia amministrativa e gestionale, con una diversa funzione dell’intervento dello stato centrale da garante dell’interesse generale nazionale a strumento della competizione intra U.E.

 

Le riforme costituzionali : il titolo V della Costituzione ed art.81

Nel quadro di queste trasformazioni dell’intero sistema di relazioni trasfigurate da decenni di incessanti richieste di mistificanti riforme sociali, economiche, legislative, ed altro ancora,  tutte indistintamente contrassegnate dai contenuti regressivi  di spogliazione di diritti economici e sociali per le classe subalterne, si colloca no altrettanto fondamentali riforme dell’assetto politico-costituzionale in una relazione di perniciosa reciprocità con quanto si afferma nella sfera economica e politica.  Se come abbiamo cercato di argomentare il combinato disposto delle politiche di rientro dal debito e la campagna di privatizzazioni hanno dato forma alla morsa che ha destrutturato il sistema di relazioni secondo i parametri  ordo-liberisti imposti dall’atto costitutivo del processo di costruzione della U.E., il trattato di Maastricht(1992), il loro recepimento nell’ordinamento Costituzione ha innescato una ulteriore implementazione alle tendenze disgregatrici, con un approfondimento delle diseguaglianze e degli squilibri storiche nelle aree del paese ma anche all’interno delle stesse.

L’assunzione piena della gestione politica e sociale da parte dei governi di centro-sinistra della marcia forzata per l’ingresso nella U.E., interno al suo riposizionamento politico ed ideologico nello scenario post-guerra fredda e alla crisi della socialdemocrazia, porta allo scoperto il rapporto organico tra  il centro-sinistra e le componenti della borghesia finanziaria ed industriale a traino della U.E., e che si afferma, nella instabilità politica permanente di questo processo di trasformazione/transizione, come costante e strutturato riferimento di relazioni e di indirizzo, de facto, della vicenda politica.

Con la riforma del Titolo V della Costituzione (2001) si apre la strada, sotto le spoglie del decentramento legislativo e amministrativo, ad una spregiudicata riattribuzione di competenze agli organi locali, che se sul piano politico raccoglie le esigenze dei territori e delle economie del Nord-Est, sotto l’apparenza di una comune condizione ed opportunità segna la fine del contenimento delle diseguagliane Nord-Sud del paese. Il gap strutturale esistente tra il Nord e il Sud del paese con la riforma del Titolo V, come dimostrato dagli andamenti economici e dagli indicatori sociali fino ad oggi, viene assunto come irriducibile ed ampliato all’interno del quadro normativo esistente.

La questione meridionale sembra trovare finalmente la sua risposta: l’impossibilità  del suo superamento. La riforma del Titolo V, forse oltre le intenzioni degli autori, è il vaso di Pandora al cui interno sono inseriti gli strumenti per portare a compimento la “secessione reale”, una divaricazione di prospettive economiche e sociali tra le aree del paese. La mai superata questione meridionale, per la sua funzionalità al modello di accumulazione sostanzialmente basato sulla centralità nazionale delle forze produttive, si inasprisce delle odierne conseguenze delle asimmetrie del polo geo-economico europeo e delle sue gerarchie, sprofondando le aree più deboli nella diffusa richiesta  di Zone Economiche Speciali, bassi salari e decontribuzione alle imprese, destinate, qualora realizzate, ad accrescere le diseguaglianze.

Se la riforma del Titolo V della Costituzione differisce i suoi frutti avvelenati, quanto realizzato con la modifica dell’art.81 (2012) è l’incardinamento diretto nell’ordinamento Costituzionale dei dettami della cosiddetta disciplina di Bilancio sanciti nel patto di Stabilità e Crescita e nel Fiscal Compact.  Le politiche del debito essenziali per qualsiasi progetto di politica industriale nazionale vengono direzionate esclusivamente al suo contenimento a garanzia della sostenibilità e funzionalità finanziaria, ossia, alla garanzia della rendita speculativa attraverso il pagamento degli interessi.

Il trasferimento della norma dell’obbligo del pareggio di bilancio a tutti i livelli di spesa  tradisce il paradosso di una supposta forma di equilibrio finanziaria che rende permanenti gli squilibri geografici e sociali, obbliga i territori più dissestati alla riconversione privatistica  per l’urgenza di capitali l’intera  formazione economico-sociale, rende disponibile il territorio all’appropriazione privatistica delle risorse ed al suo ulteriore impoverimento, insomma la scientifica predisposizione all’espropriazione di risorse e forze produttive verso i nuovi centri dell’accumulazione.

 

Autonomia differenziata: una minaccia per il Meridione ma anche per i settori popolari al Nord

Ciò che viene delineandosi è, dunque, una nuova configurazione economico-produttiva delle aree territoriali in relazione alle incessanti sollecitazioni della competizione, vitali per la propria sopravvivenza e riproduzione sociale. La costruzione del polo economico-finanziario della E.U., come abbiamo provato ad illustrare, è un processo interno alla competizione inter-capitalistica, che riversa le sue urgenze competitive sugli stati membri ed in particolare sulle arre territoriali direttamente coinvolte nella sua piattaforma economico, produttiva, finanziaria. In questa spirale competitiva diffusa in ogni livello del polo della U.E., che la richiesta di autonomia   gestionale-amministrativa ed economica- finanziaria   delle aree territoriali del Nord-Est trova alimento.

Le possibilità offerte dalla riforma del Titolo V della Costituzione all’estensione delle competenze regionali a temi cruciali per la competitività territoriale – tutela e sicurezza del lavoro, commercio con l’estero, istruzione, ricerca scientifica e tecnologica, governo del territorio, infrastrutture, previdenza, immigrazione ecc. – con l’attribuzione di trasferimenti crescenti per miliardi di euro, possono definitivamente sancire sul piano istituzionale i rapporti tra Stato ed Enti territoriali. La tanto sollecitata rivoluzione copernicana nei rapporti tra centro e periferia sembra adombrarsi, mettendo in evidenza il ruolo delle componenti della borghesia dominante, interne al triangolo territoriale – Lombardia, Veneto, Emilia Romagna – fornendo, altresì, un “punto di attracco” alla transizione indeterminata del nostro sistema politico-istituzionale sempre più impastato di tecnica della governance rispetto al governo politico.

Aspetto poco considerato nel quadro di questa trasformazione del sistema di relazioni istituzionali è la relazione tra il procedere di forme di autonomia, che ormai nelle proposte in campo ben poco hanno a che fare con il decentramento amministrativo e il federalismo fiscale, e la tendenza alla regolazione autoritaria dei processi sociali, come sembra dimostrare da ultimo la riforma Costituzionale rivolta alla riduzione dei componenti le assemblee elettive di camera e senato, e la crescita delle richieste di elementi di presidenzialismo, possibile prossimo passaggio, nell’ordinamento repubblicano.

E’evidente che il magma di contraddizioni che accompagna ogni fase storica di transizione come quella che stiamo attraversando, in cui la sfera politica ed istituzionale, riadegua i propri rapporti con un modello di valorizzazione/accumulazione divenuto sovranazionale non è un’operazione neutra, ma definisce i propri contenuti di classe, espressi dal blocco sociale dominante con una modificazione dei rapporti sociali e politici. La rivoluzione passiva esposta da Gramsci nell’analisi delle trasformazioni dell’Italia post I guerra mondiale, con l’affermarsi del blocco agrario-industriale e l’elaborazione della questione meridionale come condizione imposta per la funzionalità del modello di sfruttamento, si ripropone il tutta la sua vitalità metodologica per l’indagine del blocco sociale dominante nell’attuale fase della competizione tra poli imperialisti.

La “riforma” del Titolo V della Costituzione è, a ben vedere, una assunzione in ambito istituzionale dei rapporti di forza tra le classi e all’interno della stessa classe dominante, con l’affermazione delle condizioni giuridico-formali per una nuova fase del suo dominio. L’assunzione della Unione Europea come orizzonte di riferimento dell’apparato industriale e finanziario equivale ad una ulteriore marginalizzazione del meridione dai territori a diretto traino delle piattaforme economico produttive collocate nei paesi core della U.E. Il nuovo passaggio rappresentato dall’autonomia differenziata, che non a caso, vede come attore protagonista la stessa componente politica, la sinistra europeista, già responsabile della riforma del Titolo V, è obiettivamente la fine della questione meridionale come tema nazionale. Il processo di disarticolazione del sistema paese in aree territoriali regionali e città metropolitane, attraverso un processo di autonomizzazione delle loro relazioni, pur nella formalità di pari condizioni di accesso tra regioni alle funzioni previste per dall’autonomia, le dispone su un piano inclinato in cui l’accelerazione delle prerogative proprie di ogni territorio rende problematico un comune riferimento al sistema paese.

Ancora una volta la lezione di Gramsci sul piano del metodo si afferma con prepotente cogenza: l’alleanza operai e contadini non solo rappresentava il blocco sociale della nuova soggettività di classe, ma l’affermazione della questione meridionale come elemento strutturale del processo di emancipazione nazionale: non una questione tra le altre ma la rappresentazione delle diseguaglianze, certo sociali, ma anche territoriali prodotte dal capitalismo. La collocazione del nostro paese nelle gerarchie della U.E., al pari degli altri paesi mediterranei Grecia, Spagna e anche Portogallo, è chiaramente subalterna ai paesi dominanti il processo di integrazione. La pretesa delle componenti del blocco dominante delle regioni del Nord-Est di un ruolo di rilievo nel contesto della U.E., deve fare i conti con il paradosso di uno stato centrale reso più debole proprio dalle spinte centrifughe provocate dal processo di costruzione della U.E..

Allora, in un quadro di inevitabile confusione in cui il dato strutturale della costruzione della U.E., al di là di tutte le evidenti contraddizioni, continua a farsi largo, con la sempre più netta fisionomia imperialista, individuare nelle filiere della valorizzazione che attraversano i paesi del Sud-Europa e del Mediterraneo le alleanze per un nuovo blocco sociale è un processo politico indispensabile per dare corpo ad una ipotesi di rottura con il sistema di diseguaglianze sociali , fondamento di ogni processo capitalista.

Anche qui la lezione di Gramsci: l’impossibilità “della via capitalistica” per la soluzione della questione meridionale, si riafferma nella necessità della rottura delle relazioni del polo imperialistico europeo.

* Rete dei Comunisti

 

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