Traduciamo e pubblichiamo un articolo della prestigiosa rivista statunitense dedicata alle relazioni internazionali Foreign Affairs.
Scritto in prospettiva di commento del XX Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese che si svolge in questi giorni (lo abbiamo presentato qui), l’articolo si propone di inquadrare la visione del mondo del presidente Xi Jinping, che inizierà il suo terzo mandato proprio in questa occasione.
La rivista naturalmente si pone dal punto di vista dell’establishment della politica estera USA, quindi bisogna fare una accurata tara alle analisi espresse. In pratica, volendo fare un ragionamento rozzo, ogni critica e ogni accusa andrebbe letta come un complimento involontario.
Così come risulta tipicamente yankee la confusione sistematica tra teoria (analisi scientifica della realtà per individuarne le leggi di movimento e stabilire quindi il come agire) e ideologia (“narrazione” pregiudiziale della realtà per imporre i propri interessi o visioni).
A maggior ragione risulta perciò interessante l’attenzione data a quella che viene individuata come la corrente ideologica più influente nell’azione di Xi, il marxismo-leninismo.
Tale impianto teorico viene infatti sistematicamente ignorato dagli analisti occidentali, che, nonostante sia ancora l’ideologia ufficiale del PCC e della Cina, lo derubricano ad un pensiero morto senza influenza nel reale. L’influenza del pensiero marxista-leninista ha indubbiamente un peso nelle decisioni dei quadri del partito, che lo studiano approfonditamente.
Tuttavia la situazione è più complessa e, come qualsiasi cosa quando si parla di Cina, non può essere liquidata con semplicità da bianco/nero (abbiamo cercato di raccogliere contributi significativi per capire la Cina oggi all’interno di un Dossier Cina e in un numero dedicato di Contropiano).
Se da un lato infatti sarebbe un errore accettare acriticamente i comunicati del PCC sul ‘Socialismo con Caratteristiche Cinesi’ e individuare necessariamente la Cina come il Sol dell’Avvenire della rivoluzione globale, altrettanto sbagliato sarebbe considerare il paese come completamente rientrato nell’ovile capitalista a partire dal periodo di “riforme e aperture” sotto la guida di Deng.
Entrambe queste posizioni sono presenti nella sinistra di classe occidentale ed italiana, ed entrambe non tengono sufficientemente conto del processo che la Repubblica Popolare Cinese sta attraversando dalla sua fondazione.
E tale processo è quello di un conflitto di classe che non si è mai sopito, il cui esito non è scontato, e che vede molteplici attori in campo in ogni periodo storico. Un conflitto di classe che non può che collocarsi all’interno della fase generale che il Modo di Produzione Capitalistico sta attraversando.
Particolarmente interessante infatti è l’individuazione da parte dell’autore della possibile principale fonte di preoccupazioni per la leadership di Xi nei prossimi anni: la rallentata crescita economica.
Tuttavia questo rallentamento della crescita economica viene ideologicamente individuato nell’aumento dell’interventismo statale che il PCC ha portato avanti negli ultimi anni.
Il controllo del pubblico sul privato e la redistribuzione della ricchezza vengono identificati come ostacoli alla prosperità da una “scienza” economica borghese che ancora identifica nel libero mercato l’unico strumento per l’allocazione efficiente delle risorse, nonostante i disastri che le deregolamentazioni e le privatizzazioni hanno generato negli ultimi decenni.
Il segreto della crescita cinese è stato al contrario il solido controllo sulle forze del mercato da parte dello stato, in un contesto di pianificazione di lungo periodo.
Una riduzione della crescita nei prossimi anni è prevedibile, ma sarebbe da ricondursi alla crisi sistemica che il Modo di Produzione Capitalista sta attraversando a livello globale.
Le sempre più pesanti difficoltà di valorizzazione del capitale ormai non portano più solamente instabilità finanziaria, ma un inasprimento della competizione internazionale che va sempre più verso un conflitto militare esteso e che sta portando ad una vera e propria rottura della mondializzazione capitalista.
È in questo contesto di crisi sistemica del capitalismo che la leadership della Repubblica Popolare Cinese dovrà decidere come garantire il benessere per un miliardo e mezzo di suoi cittadini, ma non sembra che il modello del capitalismo occidentale si candidi ad essere particolarmente appetibile.
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Il mondo secondo Xi Jinping: cosa crede davvero l’ideologo in capo della Cina
Nell’era post-Guerra Fredda, il mondo occidentale non ha sofferto la mancanza di grandi teorie della storia e delle relazioni internazionali. Le ambientazioni e gli attori possono cambiare, ma il dramma geopolitico globale continua: varianti del realismo e del liberalismo competono per spiegare e prevedere il comportamento degli Stati, gli studiosi discutono se il mondo stia assistendo alla fine della storia, a uno scontro di civiltà o a qualcosa di completamente diverso.
E non sorprende che la questione che oggi attira l’attenzione analitica più di ogni altra sia l’ascesa della Cina sotto il presidente Xi Jinping e la sfida che rappresenta per il potere americano.
Nel periodo precedente al 20° Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese (PCC), mentre Xi ha manovrato per consolidare il suo potere e assicurarsi un terzo mandato senza precedenti, gli analisti occidentali hanno cercato di decodificare la visione del mondo che lo guida e le sue ambizioni per la Cina.
Tuttavia, un’importante corrente di pensiero è stata largamente assente da questa ricerca di comprensione: Il marxismo-leninismo. È strano perché il marxismo-leninismo è l’ideologia ufficiale della Cina dal 1949.
Ma l’omissione è anche comprensibile, dal momento che la maggior parte dei pensatori occidentali è arrivata da tempo a considerare l’ideologia comunista come effettivamente morta – anche in Cina, dove, alla fine degli anni ‘70, il leader del PCC Deng Xiaoping mise da parte l’ortodossia marxista-leninista del suo predecessore, Mao Zedong, in favore di qualcosa di più simile al capitalismo di stato.
Deng riassunse il suo pensiero in merito con la caratteristica schiettezza: “Bu zhenglun”, “Facciamo a meno della teoria”, disse ai partecipanti di un’importante conferenza del PCC nel 1981.
I suoi successori Jiang Zemin e Hu Jintao seguirono il suo esempio, espandendo rapidamente il ruolo del mercato nell’economia interna cinese e abbracciando una politica estera che massimizzava la partecipazione della Cina a un ordine economico globale guidato dagli Stati Uniti.
Xi ha messo fine a quell’era di governo pragmatico e non ideologico. Al suo posto, ha sviluppato una nuova forma di nazionalismo marxista che ora modella la presentazione e la sostanza della politica, dell’economia e della politica estera della Cina.
In questo modo, Xi non sta costruendo castelli teorici in aria per razionalizzare decisioni che il PCC ha preso per altre ragioni più pratiche. Sotto Xi, l’ideologia guida la politica più spesso del contrario.
Xi ha spinto la politica verso la sinistra leninista, l’economia verso la sinistra marxista e la politica estera verso la destra nazionalista. Ha riaffermato l’influenza e il controllo che il PCC esercita su tutti i settori della politica pubblica e della vita privata, ha rinvigorito le imprese statali e ha posto nuove restrizioni al settore privato.
Nel frattempo, ha alimentato il nazionalismo perseguendo una politica estera sempre più assertiva, spinta dalla convinzione di ispirazione marxista che la storia sia irreversibilmente dalla parte della Cina e che un mondo ancorato al potere cinese produrrebbe un ordine internazionale più giusto. In breve, l’ascesa di Xi ha significato niente meno che il ritorno dell’Uomo Ideologico.
Queste tendenze ideologiche non sono un semplice ritorno all’epoca di Mao. La visione del mondo di Xi è più complessa di quella di Mao e mescola purezza ideologica e pragmatismo tecnocratico. Le dichiarazioni di Xi sulla storia, il potere e la giustizia potrebbero sembrare impenetrabili o irrilevanti al pubblico occidentale.
Ma l’Occidente ignora il messaggio ideologico di Xi a suo rischio e pericolo. Per quanto astratte e poco familiari possano essere le sue idee, esse stanno avendo effetti profondi sul contenuto reale della politica cinese e della politica estera – e quindi, con la continua ascesa della Cina, sul resto del mondo.
Uomo di Partito
Come tutti i marxisti-leninisti, Xi basa il suo pensiero sul materialismo storico (un approccio alla storia incentrato sull’inevitabilità del progresso attraverso la continua lotta di classe) e sul materialismo dialettico (un approccio alla politica che si concentra sul modo in cui il cambiamento avviene quando forze contraddittorie si scontrano e si risolvono).
Nei suoi scritti pubblicati, Xi utilizza il materialismo storico per posizionare la rivoluzione cinese nella storia mondiale in un contesto in cui il passaggio della Cina a uno stadio più avanzato del socialismo accompagna necessariamente il declino dei sistemi capitalistici.
Attraverso la lente del materialismo dialettico, ritrae il suo programma come un passo avanti in una competizione sempre più intensa tra il PCC e le forze reazionarie in patria (un settore privato arrogante, organizzazioni non governative influenzate dall’Occidente, movimenti religiosi) e all’estero (gli Stati Uniti e i suoi alleati).
Questi concetti possono sembrare astrusi e arcani a chi non è in Cina. Ma sono presi sul serio dalle élite del PCC, dagli alti funzionari cinesi e da molti studiosi di relazioni internazionali che consigliano il governo. Gli scritti teorici pubblicati da Xi sono molto più ampi di quelli di qualsiasi altro leader cinese dai tempi di Mao.
Il PCC si avvale anche dei tipi di consulenza economica e strategica che solitamente guidano i sistemi politici occidentali.
Ma all’interno del sistema cinese, il marxismo-leninismo funge ancora da sorgente ideologica di una visione del mondo che pone la Cina dalla parte giusta della Storia e dipinge gli Stati Uniti come in preda a un inevitabile declino capitalistico, consumati dalle proprie contraddizioni politiche interne e destinati a soccombere. Secondo Xi, questa sarà la vera fine della Storia.
Nel 2013, appena cinque mesi dopo la sua nomina a segretario generale del partito, Xi tenne un discorso alla Conferenza Centrale sull’Ideologia e la Propaganda, una riunione dei massimi dirigenti del partito a Pechino. Il contenuto del discorso non è stato riportato all’epoca, ma è trapelato tre mesi dopo ed è stato pubblicato da China Digital Times.
Il discorso offre un ritratto senza filtri delle più profonde convinzioni politiche di Xi. In esso si sofferma sui rischi del decadimento ideologico che ha portato al crollo del comunismo sovietico, sul ruolo dell’Occidente nel fomentare la divisione ideologica all’interno della Cina e sulla necessità di reprimere ogni forma di dissenso.
“La disintegrazione di un regime spesso parte dall’area ideologica”, ha detto Xi. “I disordini politici e il cambio di regime possono avvenire da un giorno all’altro, ma l’evoluzione ideologica è un processo a lungo termine”, ha continuato, avvertendo che una volta che “le difese ideologiche vengono violate, le altre difese diventano molto difficili da mantenere”.
Ma il PCC “ha la giustizia dalla nostra parte”, ha assicurato al suo pubblico, incoraggiandolo a non essere “evasivo, timido o a usare mezzi termini” nei confronti dei paesi occidentali, il cui obiettivo è “contenderci i campi di battaglia del cuore della gente e delle masse, e alla fine rovesciare la leadership del PCC e il sistema socialista cinese”.
Questo significava dare un giro di vite a chiunque “covasse dissenso e discordia” ed esigere che i membri del PCC dimostrassero fedeltà non solo al partito ma anche a Xi personalmente. Ne seguì una “pulizia” interna del PCC, compiuta epurando qualsiasi opposizione politica o istituzionale percepita, in gran parte attraverso una decennale campagna anticorruzione iniziata ancor prima del discorso.
Una “campagna di rettifica” ha portato un’altra serie di epurazioni nell’apparato politico e legale del partito. Xi ha anche riaffermato il controllo del partito sull’Esercito Popolare di Liberazione e sulla Polizia Armata del Popolo e ha centralizzato la sicurezza informatica e i sistemi di sorveglianza della Cina.
Infine, nel 2019, Xi ha introdotto una campagna educativa a livello di partito intitolata “Non dimenticare lo scopo originale del partito, tieni a mente la missione”.
Secondo un documento ufficiale che annunciava l’iniziativa, l’obiettivo era che i membri del partito “acquisissero un apprendimento teorico e fossero battezzati nell’ideologia e nella politica”. Verso la fine del suo primo mandato, era ormai chiaro che Xi non desiderava altro che trasformare il PCC nell’alta chiesa di una fede secolare e rivitalizzata.
A tutto Marx
A differenza di questi passi immediati verso una disciplina più leninista nella politica interna, il passaggio all’ortodossia marxista nella politica economica sotto Xi è stato più graduale.
La gestione economica è stata a lungo appannaggio dei tecnocrati che fanno parte del Consiglio di Stato, il gabinetto amministrativo cinese. Inoltre, gli interessi personali di Xi erano più legati alla storia del partito, all’ideologia politica e alla grande strategia che ai dettagli della gestione economica e finanziaria.
Tuttavia, man mano che l’apparato di partito affermava il controllo dei dipartimenti economici dello Stato, i dibattiti politici cinesi sul ruolo relativo dello Stato e del mercato diventavano sempre più ideologici.
Xi ha anche perso progressivamente fiducia nell’economia di mercato in seguito alla crisi finanziaria globale del 2008 e alla crisi finanziaria interna della Cina del 2015, che è stata innescata dallo scoppio di una bolla del mercato azionario e ha portato a un crollo di quasi il 50% del valore delle azioni cinesi prima che i mercati si stabilizzassero nel 2016.
La traiettoria della politica economica cinese sotto Xi – da un consenso a sostegno delle riforme di mercato a un maggiore intervento del partito e dello Stato – è stata quindi irregolare, contestata e a volte contraddittoria.
Infatti, alla fine del 2013, meno di sei mesi dopo il sermone revivalista di Xi sull’ideologia e la propaganda, il Comitato Centrale del PCC (le diverse centinaia di leader del partito) ha adottato un documento notevolmente riformista sull’economia, intitolato “La decisione”.
Il documento delineava una serie di misure politiche che avrebbero permesso al mercato di svolgere “il ruolo decisivo” nell’allocazione delle risorse nell’economia. Ma l’attuazione di queste politiche ha subito un rallentamento nel 2015, mentre le imprese statali hanno ricevuto trilioni di dollari di investimenti dai “fondi di orientamento industriale” tra il 2015 e il 2021: una massiccia infusione di sostegno governativo che ha riportato lo Stato cinese al centro della politica economica.
Al 19° Congresso del Partito Comunista, nel 2017, Xi annunciò che in futuro la sfida ideologica centrale del partito sarebbe stata quella di correggere lo “sviluppo squilibrato e inadeguato” emerso durante il periodo di “riforma e apertura”, caratterizzato da cambiamenti politici basati sul mercato, inaugurato da Deng alla fine degli anni ‘70.
In un discorso poco noto pubblicato sulla rivista ideologica del partito nel 2021, Xi ha in effetti contestato la definizione di Deng di “fase primaria del Socialismo” e la convinzione di Deng che la Cina avrebbe dovuto sopportare la disuguaglianza per centinaia di anni prima di raggiungere la prosperità per tutti.
Al contrario, Xi ha salutato una transizione più rapida verso una fase superiore del socialismo, dichiarando che “grazie a molti decenni di duro lavoro, [questo] è un periodo che segna un nuovo punto di partenza per noi”.
Xi ha rifiutato il gradualismo di Deng e l’idea che la Cina fosse condannata a un futuro indefinito di imperfezione nello sviluppo e disuguaglianza di classe. Grazie a un’adesione più rigorosa ai principi marxisti, ha promesso, la Cina potrebbe raggiungere la grandezza nazionale e una maggiore uguaglianza economica in un futuro non troppo lontano.
Un tale risultato si baserebbe sull’aumento dell’influenza dei comitati di partito sulle aziende private, con un ruolo maggiore nella selezione dei dirigenti e nelle decisioni critiche dei consigli di amministrazione.
Inoltre, man mano che lo Stato cinese inizierà ad assicurarsi il capitale delle imprese private, incoraggerà anche gli imprenditori di successo a investire nelle imprese statali, mescolando sempre di più il mercato e lo Stato.
Nel frattempo, i pianificatori economici del PCC sarebbero stati incaricati di progettare una “economia a doppia circolazione”, il che significava che la Cina sarebbe diventata sempre più autosufficiente in tutti i settori dell’economia mentre le economie mondiali sarebbero diventate sempre più dipendenti dalla Cina.
Alla fine del 2020, Xi definì un approccio alla redistribuzione del reddito noto come “agenda della prosperità comune”, in base al quale i ricchi avrebbero dovuto ridistribuire “volontariamente” i fondi a favore di programmi statali per ridurre la disuguaglianza di reddito.
Alla fine del 2021, era chiaro che l’era della “riforma e dell’apertura” di Deng stava volgendo al termine. Al suo posto c’era una nuova ortodossia economica statalista.
“La Storia è il miglior libro di testo”
La spinta di Xi verso una politica leninista e un’economia marxista è stata accompagnata dall’adozione di una forma di nazionalismo sempre più forte, alimentando un’assertività all’estero che ha sostituito la tradizionale cautela e l’avversione al rischio che caratterizzavano la politica estera cinese durante l’era di Deng.
Il riconoscimento da parte di Xi dell’importanza del nazionalismo è stato evidente sin dall’inizio del suo mandato. “In Occidente ci sono persone che dicono che la Cina dovrebbe cambiare l’angolazione della sua propaganda storica, non dovrebbe più fare propaganda sulla sua storia di umiliazione”, ha detto nel suo discorso del 2013.
“Ma a mio avviso, non possiamo dargli retta: dimenticare la storia significa tradirla. La storia esiste oggettivamente. La storia è il miglior libro di testo. Una nazione senza memoria storica non ha un futuro”.
Subito dopo l’insediamento come segretario generale del PCC nel 2012, Xi guidò il Comitato Permanente del Politburo appena nominato in un tour di una mostra al Museo Nazionale Cinese di Pechino intitolata “La strada del ringiovanimento”, che raccontava la perfidia delle potenze imperiali occidentali e del Giappone e la risposta eroica del partito durante i “100 anni di umiliazione nazionale” della Cina.
Negli anni successivi, il concetto di “grande ringiovanimento della nazione cinese” è diventato il fulcro della visione nazionalista di Xi. Il suo obiettivo è che la Cina diventi la potenza asiatica e globale preminente entro il 2049.
Nel 2017, Xi ha identificato una serie di parametri quantitativi che il Paese deve raggiungere entro il 2035, tra cui diventare un’“economia sviluppata di medio livello” e aver “sostanzialmente completato la modernizzazione della difesa nazionale cinese e delle sue forze armate”.
Per catturare e codificare la sua visione, Xi ha introdotto o evidenziato una serie di concetti ideologici che autorizzano collettivamente il nuovo approccio più assertivo della Cina. Il primo di questi è il “potere nazionale globale” (zonghe guoli), che il PCC utilizza per quantificare il potere militare, economico e tecnologico combinato della Cina e la sua influenza sulla politica estera.
Sebbene questo concetto sia stato utilizzato dai predecessori di Xi, solo quest’ultimo ha avuto il coraggio di affermare che il potere della Cina è cresciuto così rapidamente che il Paese è già “entrato nei ranghi principali del mondo”.
Xi ha anche enfatizzato i rapidi cambiamenti nell’“equilibrio internazionale delle forze” (guoji liliang duibi), che si riferisce ai confronti ufficiali che il partito utilizza per misurare i progressi della Cina nel raggiungere gli Stati Uniti e i suoi alleati.
La retorica ufficiale del PCC contiene anche riferimenti alla crescente “multipolarità” (duojihua) del sistema internazionale e all’aumento irreversibile del potere della Cina.
Xi ha anche riabilitato un aforisma maoista che salutava “l’ascesa dell’Oriente e il declino dell’Occidente” (dongsheng xijiang) come eufemismo per il superamento degli Stati Uniti da parte della Cina.
L’elogio pubblico di Xi alla crescente potenza nazionale della Cina è stato molto più netto ed esteso di quello dei suoi predecessori. Nel 2013, il PCC ha formalmente abbandonato la tradizionale “guida diplomatica” di Deng, risalente al 1992, secondo cui la Cina avrebbe dovuto “nascondere la sua forza, aspettare il momento giusto e non prendere mai il comando”.
Xi ha utilizzato il Rapporto del Congresso del Partito del 2017 per descrivere come la Cina abbia promosso il suo “potere economico, scientifico, tecnologico, militare e nazionale globale” al punto da “entrare nei ranghi principali del mondo” e che, grazie a un aumento senza precedenti della posizione internazionale della Cina, “la nazione cinese, con una postura completamente nuova, ora si erge alta e salda in Oriente”.
Teoria e pratica
Ciò che più interessa a coloro che guardano con timore all’ascesa della Cina è il modo in cui queste mutevoli formulazioni ideologiche sono state messe in pratica. Le dichiarazioni dottrinali di Xi non sono solo teoriche: sono anche operative.
Hanno gettato le basi per un’ampia gamma di passi di politica estera che sarebbero stati inimmaginabili con i leader precedenti. La Cina ha intrapreso una serie di recuperi di isole nel Mar Cinese Meridionale e le ha trasformate in presidi, ignorando le precedenti garanzie formali che non lo avrebbero fatto.
Sotto Xi, il Paese ha effettuato attacchi missilistici su larga scala e a fuoco vivo intorno alla costa di Taiwan, simulando un blocco marittimo e aereo dell’isola, cosa che i precedenti regimi cinesi si erano astenuti dal fare pur avendone la capacità.
Xi ha intensificato il conflitto al confine con l’India attraverso ripetuti scontri di frontiera e la costruzione di nuove strade, campi d’aviazione e altre infrastrutture militari vicino al confine. La Cina ha inoltre adottato una nuova politica di coercizione economica e commerciale nei confronti degli Stati le cui politiche offendono Pechino e che sono vulnerabili alle pressioni cinesi.
La Cina è anche diventata molto più aggressiva nel perseguire i critici all’estero. Nel luglio 2021, Pechino ha annunciato per la prima volta sanzioni contro individui e istituzioni occidentali che hanno avuto l’ardire di criticare la Cina.
Le sanzioni sono in armonia con la nuova etica della diplomazia “Wolf Warrior”, che incoraggia i diplomatici cinesi ad attaccare regolarmente e pubblicamente i governi che li ospitano: una svolta radicale rispetto alla prassi diplomatica cinese degli ultimi 35 anni.
Le convinzioni ideologiche di Xi hanno impegnato la Cina nell’obiettivo di costruire quello che Xi descrive come un sistema internazionale “più equo e giusto”, ancorato al potere cinese piuttosto che a quello americano e che rifletta norme più coerenti con i valori marxisti-leninisti.
Per questo motivo, la Cina ha spinto per eliminare dalle risoluzioni dell’ONU tutti i riferimenti ai diritti umani universali e ha costruito una nuova serie di istituzioni internazionali incentrate sulla Cina, come la Belt and Road Initiative, la Asian Infrastructure Investment Bank e la Shanghai Cooperation Organization, per rivaleggiare e infine sostituire quelle dominate dall’Occidente.
La ricerca marxista-leninista di un mondo “più giusto” è anche alla base della promozione cinese del proprio modello di sviluppo nazionale nel Sud del mondo come alternativa al Washington Consensus dei mercati liberi e della governance democratica.
Inoltre, Pechino ha offerto una pronta fornitura di tecnologie di sorveglianza, addestramento delle forze di polizia e collaborazione con l’intelligence a paesi di tutto il mondo, come l’Ecuador, l’Uzbekistan e lo Zimbabwe, che hanno rifiutato il classico modello liberal-democratico occidentale.
Questi cambiamenti nella politica estera e di sicurezza cinese sono stati segnalati con largo anticipo dai precedenti cambiamenti nella linea ideologica di Xi. Utilizzando ciò che il pubblico occidentale potrebbe vedere come oscuro “mumbo jumbo teorico”, Xi ha comunicato al partito un messaggio cristallino: la Cina è molto più potente di quanto non sia mai stata e intende usare questo potere per cambiare il corso della storia.
Per vincere
Xi ha 69 anni e sembra improbabile che si ritiri; da sempre studente e praticante della politica cinese, sa bene che se lasciasse la carica, lui e la sua famiglia sarebbero vulnerabili alle punizioni dei suoi successori. È quindi probabile che Xi guidi il Paese per il resto della sua vita, anche se le sue denominazioni formali potrebbero cambiare nel tempo.
Sua madre ha 96 anni e suo padre ha vissuto fino a 89 anni. Se la loro longevità è indicativa della sua, Xi è destinato a rimanere il leader principale della Cina almeno fino alla fine degli anni ‘30 del XX secolo.
Xi ha pochi punti deboli dal punto di vista politico. Alcuni elementi della società cinese potrebbero iniziare a non sopportare l’apparato sempre più repressivo che ha costruito. Ma le moderne tecnologie di sorveglianza gli permettono di controllare il dissenso in modi che Mao e Joseph Stalin difficilmente avrebbero potuto immaginare.
Xi mostra una crescente fiducia nella nascente “generazione nazionalista” cinese, soprattutto nelle élite che sono state educate in patria piuttosto che all’estero, che sono diventate maggiorenni sotto la sua guida piuttosto che durante i regimi più liberali dei suoi predecessori e che si considerano l’avanguardia della rivoluzione politica di Xi.
Sarebbe sciocco pensare che la visione marxista-leninista di Xi imploda sotto il peso delle sue stesse contraddizioni interne nel breve e medio termine. Se il cambiamento politico avverrà, è più probabile che arrivi dopo la morte di Xi che prima.
Ma Xi non è del tutto al sicuro. Il suo tallone d’Achille è l’economia. La visione marxista di Xi, che prevede un maggiore controllo del partito sul settore privato, l’espansione del ruolo delle imprese statali e della politica industriale e la ricerca di una “prosperità comune” attraverso la redistribuzione, probabilmente ridurrà la crescita economica nel tempo.
Questo perché il calo della fiducia delle imprese ridurrà gli investimenti privati in capitale fisso in risposta alla crescente percezione del rischio politico e normativo; dopo tutto, ciò che lo Stato dà, lo Stato può anche togliere. Questo vale in particolare per i settori tecnologico, finanziario e immobiliare, che sono stati i principali motori di crescita interna della Cina negli ultimi due decenni.
L’attrattiva della Cina per gli investitori stranieri è diminuita anche a causa dell’incertezza della catena di approvvigionamento e dell’impatto delle nuove dottrine di autosufficienza economica nazionale.
In patria, le élite imprenditoriali cinesi sono state spaventate dalla campagna anticorruzione, dalla natura arbitraria del sistema giudiziario controllato dal partito e dal crescente numero di titani tecnologici di alto profilo che non godono del favore della politica.
Inoltre, la Cina non ha ancora capito come lasciarsi alle spalle la sua strategia “zero covid”, che ha aggravato il rallentamento economico del paese.
A queste debolezze si aggiungono una serie di tendenze strutturali di lungo periodo: il rapido invecchiamento della popolazione, la contrazione della forza lavoro, la bassa crescita della produttività e gli alti livelli di debito condivisi tra istituzioni finanziarie statali e private.
Mentre un tempo il PCC prevedeva che la crescita media annua si sarebbe mantenuta intorno al 6% per il resto degli anni 2020 prima di rallentare a circa il 4% nel 2030, alcuni analisti temono che, in assenza di una radicale correzione di rotta, l’economia inizierà presto a ristagnare, raggiungendo un massimo di circa il 3% nel 2020 prima di scendere a circa il 2% nel 2030.
Di conseguenza, la Cina potrebbe entrare nel 2030 ancora bloccata nella cosiddetta trappola del reddito medio, con un’economia più piccola o solo marginalmente più grande di quella degli Stati Uniti.
Per la leadership cinese, questo risultato avrebbe profonde conseguenze. Se la crescita dell’occupazione e del reddito dovesse vacillare, il bilancio cinese sarebbe sotto pressione, costringendo il PCC a scegliere tra l’assistenza sanitaria, l’assistenza agli anziani e i diritti pensionistici da un lato e il perseguimento degli obiettivi di sicurezza nazionale, della politica industriale e dell’Iniziativa Belt and Road dall’altro.
Nel frattempo, l’attrazione gravitazionale della Cina sul resto dell’economia globale verrebbe messa in discussione. Il dibattito sul fatto che il mondo abbia già assistito al “picco della Cina” è solo all’inizio e per quanto riguarda la crescita a lungo termine della Cina, la giuria non ha ancora deciso.
Pertanto, la domanda cruciale per la Cina nel 2020 è se Xi sia in grado di organizzare una correzione di rotta per riprendersi dal significativo rallentamento della crescita economica. Questo, tuttavia, comporterebbe per lui una notevole perdita di faccia.
È più probabile che cercherà di cavarsela, apportando il minor numero possibile di modifiche ideologiche e retoriche e mettendo in campo una nuova squadra di responsabili della politica economica, sperando che riescano a trovare un modo per ripristinare magicamente la crescita.
Il nazionalismo marxista di Xi è un progetto ideologico per il futuro; è la verità sulla Cina che si nasconde in bella vista. Sotto Xi, il PCC valuterà le mutevoli circostanze internazionali attraverso il prisma dell’analisi dialettica – e non necessariamente in modi che abbiano senso per gli esterni.
Ad esempio, Xi considererà le nuove istituzioni occidentali destinate a contrastare la Cina, come il Quad (il Dialogo Quadrilaterale sulla Sicurezza, un accordo di cooperazione strategica tra Australia, India, Giappone e Stati Uniti) e l’AUKUS (un accordo di difesa tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti), come strategicamente ostili e ideologicamente prevedibili, che richiedono nuove forme di “lotta” politica, ideologica e militare.
Nella sua visione marxista-leninista, la vittoria finale della Cina è garantita perché le forze profonde del determinismo storico sono dalla parte del PCC e l’Occidente è in declino strutturale.
Questa visione influenzerà la probabilità di conflitti in Asia. Dal 2002, il linguaggio in codice del PCC per indicare l’improbabilità di una guerra è la frase ufficiale “La Cina continua a godere di un periodo di opportunità strategica”. Con questa frase si intende dire che la Cina dovrà affrontare un basso rischio di conflitto nel prossimo futuro e potrà quindi cercare di ottenere vantaggi economici e di politica estera mentre gli Stati Uniti sono impantanati altrove, soprattutto in Medio Oriente.
Ma sulla scia dell’etichettatura ufficiale della Cina come “concorrente strategico” da parte di Washington nel 2017, della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina in corso, delle reciproche (anche se selettive) forme di disaccoppiamento economico e dell’irrigidimento delle alleanze statunitensi con Australia, Giappone, Corea del Sud e NATO, è probabile che il PCC cambi le sue conclusioni analitiche formali sull’ambiente strategico.
Il pericolo è che le metodologie dialettiche e le conclusioni binarie che producono possono portare a conclusioni spettacolarmente errate quando vengono applicate al mondo reale della sicurezza internazionale.
Negli anni ‘50, Mao considerava dialetticamente inevitabile che gli Stati Uniti attaccassero la Cina per soffocare la rivoluzione cinese a nome delle forze del capitalismo e dell’imperialismo. Nonostante la guerra di Corea e le due crisi nello stretto di Taiwan in quel decennio, non si concretizzò alcun attacco.
Se Mao non avesse avuto una visione ideologica di questo tipo, il disgelo delle relazioni tra la Cina e gli Stati Uniti sarebbe potuto iniziare un decennio prima di quanto non sia avvenuto, soprattutto se si considera la realtà della scissione sino-sovietica iniziata dopo il 1959.
Allo stesso modo, Xi vede minacce su ogni fronte e ha avviato la securizzazione di quasi tutti gli aspetti della politica pubblica e della vita privata cinese. Una volta che queste percezioni di minaccia diventano conclusioni analitiche formali e vengono tradotte nelle burocrazie del PCC, il sistema cinese potrebbe iniziare a funzionare come se il conflitto armato fosse inevitabile.
I pronunciamenti ideologici di Xi modellano il modo in cui il PCC e i suoi quasi 100 milioni di membri intendono il loro Paese e il suo ruolo nel mondo. Loro prendono sul serio questi testi e anche il resto del mondo dovrebbe farlo.
Come minimo, l’abbraccio di Xi all’ortodossia marxista-leninista dovrebbe mettere a tacere ogni velleità di liberalizzazione pacifica della politica e dell’economia della Cina di Xi. Inoltre, dovrebbe chiarire che l’approccio della Cina alla politica estera è guidato non solo da un calcolo di rischi e opportunità strategiche, ma anche dalla convinzione che le forze del cambiamento storico stiano inesorabilmente portando avanti il Paese.
Questo dovrebbe indurre Washington e i suoi partner a valutare attentamente le loro attuali strategie per la Cina. Gli Stati Uniti dovrebbero rendersi conto che la Cina rappresenta lo sfidante politicamente e ideologicamente più disciplinato che abbia mai affrontato durante il suo secolo di dominio geopolitico.
Gli strateghi statunitensi dovrebbero evitare di “specchiarsi” e non dare per scontato che Pechino agisca in modi che Washington interpreterebbe come razionali o al servizio degli interessi personali della Cina.
L’Occidente ha vinto una gara ideologica nel ventesimo secolo. Ma la Cina non è l’Unione Sovietica, anche perché oggi la Cina ha la seconda economia del mondo. E sebbene Xi non sia Stalin, di certo non è nemmeno Mikhail Gorbaciov.
L’adesione di Xi all’ortodossia marxista-leninista lo ha aiutato a consolidare il suo potere personale. Ma questa stessa posizione ideologica ha anche creato dei dilemmi che il PCC avrà difficoltà a risolvere, soprattutto perché il rallentamento della crescita economica mette in dubbio il contratto sociale che il partito ha stipulato da tempo con il popolo.
Qualunque cosa accada, Xi non abbandonerà la sua ideologia. È un vero credente. E questo rappresenta un’ulteriore prova per gli Stati Uniti e i loro alleati.
Per prevalere nella guerra ideologica che si prospetta davanti a loro sarà necessario una radicale riappropriazione dei principi che contraddistinguono i sistemi politici liberal-democratici. I leader occidentali devono difendere questi ideali con le parole e con i fatti. Anche loro devono diventare dei veri credenti.
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