In ricordo di Angelo Baracca e Roberto Sassi
Dopo i continui sospetti di nuove bolle finanziarie, la competizione tra capitali si è intensificata, estendendosi a tutte le attività produttive, con sempre più determinante contraddizione capitale-ambiente come specifica caratterizzazione del centrale e paradigmatico conflitto capitale-lavoro. Nonostante ciò, o forse proprio a causa della concorrenza imperialista, le singole oligarchie nazionali non si sono accordate sulla futura divisione internazionale del lavoro, cioè non hanno deciso dove, cosa, come e per chi ogni paese o agglomerato produrrà multistatalità di dominio. Pertanto il terreno di confronto e conflitto rimane la guerra nelle sue diverse confgurazioni.
In questa competizione interimperialista, il capitale finanziario (dato dall’unione di capitale industriale e bancario), che rappresenta la componente più forte del capitale transnazionale contemporaneo, segue una strategia contraddittoria rispetto agli Stati: in nome della “libertà economica” necessita per toglierli di mezzo ma, dall’altro, ne ha bisogno come interfaccia con società civili sempre più degradate e globalizzate, e per estrarre denaro e “pace sociale” dai lavoratori, occupati e non e per far ciò è indispensabile la guerra sociale, la guerra economico-monetaria e la guerra militare con il rafforzamento degli apparati industriali-militari anche a uso civile.
Il rapporto di reciprocità che esiste tra il modello produttivo dominante e la società dei subalterni pende ancora più chiaramente verso la destrutturazione globale considerando il rapporto tra scienza e militarismo. Il primo elemento di chiarezza al riguardo è il contributo quantitativo che la scienza riserva all’apparato produttivo militare e tecnologico mondiale: secondo i dati forniti negli studi della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, riportato da Angelo Baracca. “Fino a 49 università degli Stati Uniti sono complici del Nuclear WeaponsComplex, in vario modo, diretto o indiretto: dalla gestione diretta, alle collaborazioni istituzionali, all’associazione con programmi di ricerca o con personale in programmi di sviluppo” (BARACCA A. (2019), Scienza e Guerra).
Un’attenzione assolutamente ricambiata in virtù di quanto reso pubblico dagli Scientists for Global Responsibility in un altro dossier che documentava “Come le società di combustibili fossili e armi finanziano le organizzazioni professionali di scienziati e ingegneri” (Baracca).
In questa rappresentazione contano non solo i numeri del rapporto, ma anche la qualità del rapporto.
Lo scienziato è in tutti i sensi un uomo (o una donna) del suo tempo, condivide ambienti culturali e obiettivi sociali. Nella maggior parte dei casi fa parte della classe dirigente, e i fenomeni di cui si occupa sono solitamente quelli rilevanti per lo sviluppo sociale (capitalista)” (BARACCA A. (2019), Scienza e Guerra. Prosegue la discussione).
Nell’Unione Europea, ad esempio, il neoliberismo militarista più agguerrito è insito nella stessa legge fondamentale, il Trattato di Lisbona, che vieta l’adozione di misure contrarie alla circolazione dei capitali. Invece, nei discorsi ufficiali, l’”Europa sociale” riempie la bocca ad agenti che si muovono solo nell’interesse della compatibilità delle leggi di guerra del capitale.
Nelle lungimiranti riflessioni gramsciane, ritroviamo tratti di estrema attualità nella tendenza attuale che è stata definita “mezzogiornificazione” di una vasta area mediterranea, quella dei PIGS fondamentalmente, attraverso il processo di integrazione economica e monetaria europea della “Fortezza Europa”.
Questo status di blocco guerrafondaio indotto, perpetrato attraverso l’ordoliberismo, che impregna i Trattati fondamentali della UE, alimenta un sistema di dominazione neocoloniale tra Paesi del Centro-Nord Europa e area mediterranea. Una realtà che collega il Vecchio Continente a dinamiche tanto attuali quanto risalenti a decenni passati, con le specificità proprie del contesto europeo (ad es. compressione strutturale della sovranità degli Stati, squilibri commerciali, deflazione salariale).
In questa prospettiva, a partire dalle teorizzazioni sviluppate dalla nostra scuola di critica marxista per una economia antropologica a determinanti decoloniali, quindi antimperialiste per il pluripolarismo, nelle prospettive delle transizioni socialiste ( da ora direttamente e solo Economia decoloniale socialista) nel solco di un nuovo meridionalismo su basi marxiste, si pone centralmente la questione di un delinking, di un semi-distacco che riguardi anche l’Europa, superando ogni premessa eurocentrica e le tradizionali categorie storiche, politiche, economiche, culturali imposte dall’egemonia neoliberista e del postmodernismo, attraverso la costruzione di un’ALBA euro-afro-mediterranea.
Oggi per tutti noi socialisti rivoluzionari si tratta di indicare chiaramente una delle basi teoriche più profonde del pensiero antimperialista e delle prospettive socialiste, con le declinazioni oggi in costruzione sulla economia decoloniale, la visione e la realtà del pluripolarismo nell’ampia dimensione teorica e di processi in divenire del pluriverso.
“L’idea di un universo plurale di alternative al capitalismo è qualcosa di relativamente recente, la cui presenza resta ancora marginale nel dibattito politico, nonostante sia il risultato naturale dell’affermazione dei recenti movimenti antisistemici, delle lotte per il superamento dell’eredità coloniale e del patriarcato, della rielaborazione del pensiero marxista, di quello socialista e di quello libertario.
Negli ultimi decenni, in particolare, la critica allo sviluppo si è rivelata l’ambito principale in cui si è potuto pensare un’alternativa ai grandi progetti sociali della modernità, incluse le grandi esperienze di gestione collettivista dell’economia. Ciò ha comportato anche una diversa lettura della storia più recente e il ripensamento delle principali utopie sulle società liberate. In questo quadro l’irruzione delle visioni non-coloniali nella costruzione delle alternative sociali ha giocato un ruolo centrale, sebbene essa non abbia ancora pienamente dimostrato tutta la sua capacità di trasformare le categorie rivoluzionarie e la visione del nostro futuro.
La critica decoloniale si è imposta soprattutto come lotta per il superamento dell’idea di un progetto civilizzatore portato avanti dall’Occidente.
Decolonizzare le categorie significa tuttavia anche poter definire i processi di mutamento in modo differente, situando l’analisi al di fuori del determinismo storico della civiltà occidentale, al di là delle gerarchie che l’hanno sostenuta e che ancora sostengono l’architettura della società globale. Le diverse iniziative tese a pensare, progettare e sperimentare l’idea di una società plurale e realizzabile in cui possano coesistere principi differenti di costruzione della realtà fanno parte di tale processo. Queste esperienze si sono affermate in un momento storico marcato da grandi trasformazioni che coinvolgono a un livello profondo tutte le forme di vita del pianeta e che porteranno in ogni caso a una grande metamorfosi della società globale.
Il progetto di Pluriverso nasce quindi in un momento cruciale della storia del capitalismo, ma anche dei suoi movimenti di opposizione. Rispetto a ciò, la sua traduzione italiana esce tuttavia in una fase molto distinta rispetto a quella della prima edizione del testo, nonostante sia passato solo un anno. Il pianeta affronta una crisi sanitaria globale, ennesima dimostrazione tangibile della contraddizione ecologica in cui si muove lo sviluppo capitalistico; al contempo accelera il processo di crisi economica intorno a cui ruoterà la politica globale nei prossimi anni. La differenza però non coinvolge solo la particolare condizione in cui versa il capitalismo globale, ma è anche definita dalle novità interne al pensiero critico.”
( Il tempo di Pluriverso di ORTHOTES,https://www.orthotes.com/il-tempo-di-pluriverso/)
Un riferimento che riesce ad andare oltre la particolarità e la contingenza per affermarsi come fondamento di tutte le rivoluzioni antimperialiste che hanno la capacità e la forza di proporre saperi critici della cultura dei popoli nelle cosmovisioni indigene, inserendole, come ci ha insegnato Mariátegui, in un progetto di integrazione internazionale che è alla base della transizione rivoluzionaria.
“La prossima rivolta dei popoli d’Europa, il loro prossimo movimento per la libertà repubblicana e l’economia di governo, può dipendere – ha scritto Marx – più probabilmente da ciò che accade nel Celeste Impero – al polo opposto dell’Europa – che da qualsiasi altra causa politica esistente” (MARX K. (1853), La dominazione britannica in India, New York Daily Tribune, 25 giugno 1853, in MARX K. e ENGELS F. (2008), India Cina Russia, di MAFFI B. , Il Saggiatore, Milano, pagina 43.)
“Si può tranquillamente prevedere che la rivoluzione in Cina getterà una scintilla nella polveriera sovraccarica dell’attuale sistema economico e farà esplodere la crisi generale” (ibidem).
“Nel periodo che va dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 al 1976, anno in cui muoiono Zhou Enlai e Mao Zedong e la Cina cambia profondamente, esulando dai dati meramente macroeconomici, l’aspettativa di vita è passata da 40 a 65 anni (in India, nello stesso periodo, è passata da 38 a 54); la popolazione cinese è cresciuta da circa 550 milioni a circa 900 milioni di abitanti; il tasso di alfabetizzazione è passato dal 20% ad oltre il 65%; l’emancipazione della donna ha raggiunto grandi traguardi. In questi anni, il governo è stato saldamente in mano al Partito Comunista Cinese, che pure ha sviluppato al suo interno e riversato nella società un ampio e spesso aspro confronto sui temi dell’edificazione della società socialista, così come ampio ed aspro fu spesso il confronto durante il precedente sviluppo della guerra di popolo”. (La linea di Mao, Roberto Sassi (in Contropiano anno 30 n°1 – maggio 2021).
Ciò che Marx non poteva certo prevedere era una dinamica rivoluzionaria che mettesse in discussione il primato e il predominio dell’Occidente, ma con un processo di transizione lungo, tortuoso e aperto. L’intuizione fondamentale che, tuttavia, emerge prepotentemente dalla sua analisi è la carica rivoluzionaria contenuta nelle società del suo tempo collocate in una condizione di sfruttamento coloniale e la prospettiva universale del mercato internazionale e le contraddizioni capitaliste che alberga.
“Studiando Lenin e Marx, Mao riesce a cogliere, grazie al retroterra costituito dalla dialettica classica cinese, l’essenza del metodo che Marx applica con particolare evidenza nel primo capitolo del primo libro del Capitale (cf. Il’enkov, 1961), e che Lenin ritrova nei Quaderni Filosofici (cf. Kouvélakis, 2016) mentre in URSS ed in Occidente, in quel periodo ed anche in anni molto successivi, l’importanza di questi testi verrà sottovalutata. Basti pensare che i Quaderni Filosofici, per i teorici del Dia-Mat sovietico erano “Appunti di Lenin su Hegel che riflettono il pensiero di Hegel e non quello di Lenin” mentre ancora negli anni ‘70 in Italia Lucio Colletti ne liquidava la portata teorica. Allo stesso modo, dal revisionismo della Seconda Internazionale allo strutturalismo di Althusser, il metodo dialettico utilizzato da Marx, in primo luogo nel Capitale, viene considerato superato.
Il nodo è quello della centralità della contraddizione: Mao radicalizza la dialettica, ridotta ad una “somma di esempi” (Lenin, 1914) dall’interpretazione dogmatica delle “tre leggi” di Engels, e applica il capovolgimento della prassi (l’Umwälzung der praxis dell’XI tesi su Feuerbach di Marx) alla dialettica classica cinese.
Il pensiero di Mao si colloca fra Oriente ed Occidente, ottenendo il duplice risultato di radicare il marxismo-leninismo in Cina e di arricchirlo della dialettica classica cinese. Come questo metodo operi, lo possiamo vedere concretamente in alcuni caratteri costitutivi della prassi/ teoria/prassi maoista”. (R. Sassi, ibidem).
La Russia, a differenza dell’India, ha conosciuto la propria essenziale rivoluzione concreta negli eventi storici della Rivoluzione Socialista d’Ottobre. Nella seconda metà del XIX secolo, Engels metteva in guardia contro le facili illusioni sullo sviluppo automatico di una rivoluzione socialista dalle miserie della società feudale: Ribadendo i presupposti del necessario e massimo sviluppo delle forze produttive, storicamente rappresentate dal sistema produttivo capitalistico e dal dominio della borghesia, Engels ha indicato l’assenza di condizioni oggettive rivoluzionarie nel suo tempo per un improvviso passaggio al socialismo nell’”ultimo grande contrafforte”. della reazione nell’Est Europa»( ENGELS F. (1875), Le condizioni sociali in Russia, Volksstaat, 16, 18 e 21 aprile 1875, in MARX K., ENGELS F. (2008), India Cina Russia, di MAFFI B., Il Saggiatore, Milano, p. 224).
Il contesto in cui si è trovata la Russia zarista, scritta da Engels, è quello di uno stato che si era dedicato alla produzione agricola, con insufficiente terra per i contadini, carenza di manodopera per la proprietà terriera, usura straripante, interessi sui debiti pubblici “livellati” con altri debiti pubblici, e un governo dispotico stretto tra concessioni liberali e ritiro immediato. Agli occhi del fraterno collaboratore di Marx, tutti questi elementi erano la polveriera di una rivoluzione, ma “avviata dalle classi alte del capitale”, elementi per un “1789 russo”, come scrisse lo stesso Marx.
L’incapacità di una piena conversione in una rivoluzione borghese, della borghesia esige di rispondere alle richieste delle masse proletarie russe, in particolare di fronte alle miserie e alle conseguenze del primo conflitto mondiale, alle atroci disuguaglianze sociali e produttive nella Russia del 1917 crearono le basi e le condizioni materiali per la gestazione di una rivoluzione completa, una rivoluzione socialista basata sull’alleanza tra operai e contadini.
La rivoluzione fu il primo esperimento di costruzione della transizione socialista, che fin da subito dovette contare sullo sviluppo delle forze produttive, come questione vitale sia per la sopravvivenza interna del sistema socialista, sia per la sua sopravvivenza alla luce del contesto internazionale : quello dell’accerchiamento su più fronti dell’URSS e, infine, quello della seconda guerra mondiale.
Oggi diversi tra i Paesi ex coloniali animano in relazione alle impostazioni e politiche internazionali della Cina la prospettiva del multicentrismo e, alcuni fra questi, perseguono anche quella della transizione economico-politico e di tipo socialista. Il contributo teorico e di riflessione proveniente dalla Cina popolare e dall’Asia coniuga un’originale prospettiva di universalizzazione non euro-atlantica dei rapporti internazionali, sul rapporto Stato-mercato e ruolo strategico della soggettività per la transizione.
“Nei rapporti internazionali, sempre saldamente gestiti da Zhou Enlai, troviamo una caratteristica di fondo che giunge fino ad oggi, e che è stata così efficacemente sintetizzata: “La maggior preoccupazione dei comunisti cinesi fu all’inizio la fragilità della nazione e la sostenibilità del processo rivoluzionario in un paese sterminato e arretrato, per di più in assenza di una classe operaia degna di questo nome. Il PCC ritenne che in quelle condizioni, non si poteva chiedere al comunismo cinese di occuparsi della palingenesi proletaria universale. E tale attitudine nazionalista è tuttora la stella polare del Partito.” (da una intervista ad Alberto Bradanini, già consigliere commerciale e poi ambasciatore a Pechino, Contropiano.com, 11/04/2019).
Accanto a questo orientamento, dagli esiti a volte sconcertanti (come la politica di distensione con gli USA in piena guerra del Vietnam o il riconoscimento diplomatico del regime di Pinochet, solo per citare alcuni esempi) deve essere ricordata la grande abilità diplomatica di Zhou Enlai nel tessere, a partire dalla conferenza di Bandung (1955) il Movimento dei Non-Allineati, rompendo l’assedio in cui la Cina si trovava e dando vita ad un organismo che per decenni contribuì alla pace mondiale ed allo sviluppo dell’indipendenza nazionale dei paesi del terzo mondo”.
(R. Sassi, Ibidem).
La teorizzazione gramsciana sulla Questione meridionale, il portato della tradizione del terzomondismo e di Bandung e dei processi in atto di delinking innervano oggi la riflessione critica sul prodotto ultimato delle contraddizioni della UE.
La rottura dell’Europolo si presenta, essenzialmente, come sganciamento da un sistema di dominazione, per i popoli europei come primo terreno fondamentale di emancipazione, in senso generale, in sintonia con un vasto fronte di popoli e Paesi, alternativo alla mondializzazione. Questa via pone centralmente il tema dell’alternativa di sistema, dell’emancipazione e della ricomposizione del lavoro salariato, tanto operaio, quanto contadino (nel solco della lezione gramsciana e dell’implementazione teorica latino americana), a partire dal riferimento concreto all’esperienze di semi-distacco operate nel mondo, alla relazione rinnovata tra costruzione e democraticizzazione dello Stato e processi di autorganizzazione sociale, con una ricca produzione a riguardo proveniente dall’America Latina e da processi reali come l’ALBA, quale atto concreto di semi-distacco in essere, analizzata da Garcia Linera, Mignolo, e molti altri studiosi del processo rivoluzionario in America latina.
Su questa realtà concreta poggia la prospettiva dell’unità del Sud, ad iniziare da quello europeo, per un’ALBA euro-afro-mediterranea che, oltre a fermare il suo processo di “mezzogiornificazione” del Sud Europa, si proponga di archiviare la polarizzazione mondiale, in primo luogo, per l’affermazione di un contesto mondiale multicentrico.
Si va così sottolineando la dimensione di unità dei produttori e dei soggetti del lavoro e del lavoro negato, nella possibilità delle attuali possibili vie verso transizioni post-capitaliste e antimperialiste.
Un’ alternativa che parte dal Sud globale. È questo il filo conduttore della vicenda storica di semi-distacco, di deoccidentalizzazione e decolonizzazione in risposta alla mondializzazione capitalista e imperialista, caratterizzata da un rapporto di dominanza tra blocchi egemoni e blocchi egemonizzati. A ben vedere, sono percorsi storici attraversati copiosamente da una teorizzazione risalente, come quella Questione meridionale gramsciana come problema della caratterizzazione del Mezzogiorno inteso come disgregazione sociale del Sud globale, del blocco dello sviluppo come processo indotto e del confinamento ai margini della storia delle masse popolari.
Discorrere e realizzare processi di transizione al socialismo e pianificazione vuol dire ovviamente ragionare in termini internazionalisti. Va per questo valorizzato il ruolo delle alleanze internazionali come strumento di rilancio di una lotta su scala globale, che può ampliarsi in maniera diversificata a partire dagli importanti processi di cambiamento nei vari paesi del pluripolarismo e in testa a quelli dell’ALBA a partire dalla grande tenuta eroica della rivoluzione socialista cubana.
L’analisi si dovrà ancora sviluppare seguendo sempre la linea tracciata dalla visione della reale vigenza dei percorsi teorici e di realizzazione pratica attraverso il metodo del materialismo storico e nella e per la egemonia culturale dei subalterni, come prospettiva internazionalista e attraverso l’interpretazione pluripolare, e in particolare nella declinazione gramsciana. Molto importante sarebbe giungere a una ridefinizione e riqualificazione nella pratica dei movimenti sindacali e politici dei termini teorici e attuativi della filosofia della prassi e la individuazione con le potenzialità di azione delle nuove soggettualità degli operai, dei contadini, degli impiegati, dei commercianti, dei piccoli imprenditori e quindi dei nuovi soggetti del lavoro e del lavoro negato, del non lavoro, con l’idea del governo politico ed economico in una nuova prospettiva di potenziale realizzazione di modelli di transizione post-capitalista, e in tendenza di rottura socialista rivoluzionaria.
E allora teoria e prassi , filosofia della storia e filosofia della prassi con cui bisogna riportare questo pensiero e agire nelle mille difficoltà della rivoluzione socialista cubana , a quello che oggi sta avvenendo per esempio a Cuba, in Venezuela, Cina, Vietnam che con le loro differenze sono comunque vive transizioni al Socialismo che camminano in una diversa modalità applicativa e con culture diverse da quella di noi comunisti occidentali, ma alle quali siamo uniti nella speranza di poter trasformare non solo il nostro Paese ma di costruire una nuova umanità ricca di forza di rottura e amore rivoluzionario .
E oggi, in questa fase di crisi sistemica economica aggravata dalla crisi sociale della pandemia, e della guerra ,il respiro di chi vuole una diversa umanità deve essere più ampio.
Le stesse forme, la stessa raffinatezza delle armi e dei sistemi di distruzione di massa, dalle armi di disturbo a quelle batteriologiche, le conseguenze disastrose del loro utilizzo, non più decisamente condizionate dalla sola volontà, ma anche dall’irrazionalità del capitalismo stesso (A. Baracca).
I risultati degli studi mostrano un ulteriore passo nella subordinazione dello sviluppo scientifico alla logica del beneficio del settore militare, a cominciare dalla liberalizzazione della sperimentazione biogenetica e dall’impossibilità di “distinguere tra usi offensivi e difensivi della ricerca biotecnologica […] ](Ibidem), tra ricerca per la produzione di vaccini e applicazioni militari specifiche.
Tornando a una citazione di Karl Marx: “Qualsiasi scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica coincidessero direttamente”,
«Se, inoltre, una parte crescente di scienziati -continuainfatti Baracca- si è dedicata allo studio e alla produzione di armi ogni volta più letali, è una scelta fatta da questi scienziati, non vedo come si possa pensare che non abbiano la responsabilità» (Ibidem)
Dobbiamo ricominciare a ragionare sulle fasi storiche della politica di trasformazione, sui cicli rivoluzionari come ha fatto Cuba modificando spesso i suoi modi di vivere la pianificazione e la transizione socialista. Bisogna mettere in relazione la strategia del cambiamento con dei passaggi tattici.
Non ci si può opporre senza partito con una capacità rivoluzionaria.
Idea fondamentale anche per tutti quei giovani occidentali che vogliono mettere in discussione lo stato presente delle cose. Per questo devono rivolgere lo sguardo al pensiero di Marti , Bolívar, di Lenin, di Gramsci, di Mao, di Guevara , Fidel Castro e di Chavez al fine di studiare concretamente dei percorsi di emancipazione.
In conclusione, bisogna sempre analizzare con la chiave dell’economia decoloniale socialista, partendo dalla ricerca propositiva di modelli alternativi sociali, economici, produttivi e ambientali di sostenibilità, complementarietà, contro gli apparati e industrie della guerra. Sulla falsa riga di questo proposito, sarà sostenuta la necessità della costruzione di un diverso modello pluripolare , multicentrico e di transizione anticapitalista di relazioni tra Paesi e popoli, partendo dalle transizioni al socialismo di Cuba, Venezuela, Cina, Vietnam, ecc. accompagnate da un diverso modello produttivo e sociale, reso urgente e imprescindibile dalle contraddizioni acute del presente.
“Rivoluzione ininterrotta. Le nostre rivoluzioni si susseguono una dopo l’altra (…) Le nostre rivoluzioni sono come battaglie. Dopo una vittoria, dobbiamo subito proporre un nuovo obiettivo. In questo modo, i quadri e le masse saranno sempre pieni di fervore rivoluzionario anziché di presunzione. In verità, non avranno tempo per la presunzione, anche se a loro piacerebbe (…)
Rosso ed esperto, politica ed attività professionale, il rapporto tra questi elementi costituisce l’unità delle contraddizioni. Dobbiamo criticare l’atteggiamento apolitico. Dobbiamo opporci da un lato ai “politici” dalla testa vuota, dall’altro ai “pratici” privi di orientamento (…) Ignorare l’ideologia e la politica, preoccuparsi esclusivamente di problemi economici: il risultato sarà un economista o un tecnico disorientato, e questo è un disastro (…)
Lo squilibrio è una regola generale, oggettiva. Il ciclo, che è senza fine passa dallo squilibrio all’equilibrio, e quindi di nuovo allo squilibrio. Ogni ciclo, peraltro, ci porta a un livello superiore di sviluppo. Lo squilibrio è normale e assolutamente l’equilibrio è temporaneo e relativo. I cambiamenti verso l’equilibrio e lo squilibrio nella nostra economia nazionale di oggi sono un parziale mutamento quantitativo nel generale processo di mutamento qualitativo”. (Tratto dal Piano in 60 punti del 19 febbraio 1958, redatto da Liu Shaoqi e Mao Zedong, ai punti 21-22, attribuiti a Mao).
Anche qui è utile risalire al periodo della guerra popolare per comprendere come Mao risolva la contraddizione fra politica e tecnica, nello specifico fra l’uomo e le armi. Anzitutto “il partito comanda sempre sul fucile”: la forza è subordinata alla ragione, non si concede nessuno spazio al militarismo, né nei rapporti fra i combattenti, né nei rapporti fra i combattenti ed il popolo. La tattica è subordinata alla strategia come la tecnica è subordinata alla politica.
Se Gramsci diceva che la rivoluzione russa era una rivoluzione contro il Capitale, inteso proprio come Il Capitale di Marx, perché violava quel “modello della ditta” della Seconda Internazionale, tratto astrattamente dagli studi economici di Marx sui paesi maggiormente industrializzati, la rivoluzione cinese lo fu ancora di più, e fu vittoriosa perché invertì il rapporto tradizionale fra l’uomo e le armi (“con il miglio e con i fucili batteremo i cannoni ed i carri armati di Chiang Kai-shek”), dando all’uomo la centralità. Non è la tecnica a decidere la vittoria ma la coscienza politica dei combattenti, come si è visto poi anche in Vietnam e in altri casi”. (R. Sassi, Ibidem).
L’asse portante della nostra ricerca-inchiesta marxista in itinere sarà quello di proporre temi di ricerca e casi studio locali, settoriali e di sistema paese come, per esempio, la trattazione critica, e dell’oggi, della validità nell’attualizzazione dei temi forti gramsciani e delle teorie anticolonialiste del delinking, nella declinazione della questione delle alleanze per l’egemonia e la sua composizione e prospettiva politico-sociale per il superamento della fase attuale della globalizzazione neoliberista, ponendosi nella transizione dall’unipolarismo al multicentrismo nelle relazioni internazionali, partendo da casi studio di realtà dei sud del mondo. Divenire storico ed egemonia culturale dei Sud nel mondo contemporaneo: si tratta cioè di declinare una attualizzazione di contesti localizzativi anche di categorie di un pensiero -azione per una filosofia della prassi, provenienti dagli studi e pratiche di grandi rivoluzionari di riferimento come Marti, Bolivar, Lenin, Stalin, Gramsci, Mariatequi, Mao, Guevara, Fidel, Chavez, sia attraverso i contributi di studiosi europei e dell’America Latina e che spaziano anche su altre aree dei sud del mondo di oggi, in particolare dell’Africa e del vicino Oriente.
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