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Sahel: un punto di caduta dell’imperialismo euro-atlantico

«Ogni generazione deve, in una relativa opacità, scoprire la sua missione, compierla o tradirla»
Franz Fanon

La fuga dal Niger

Domenica 24 settembre Emmanuel Macron, ha annunciato che nelle «prossime ore» l’ambasciatore francese a Niamey sarebbe stato rimpatriato e che le truppe francesi sarebbero state ritirate entro la fine dell’anno.

«Noi mettiamo fine alla nostra cooperazione militare con in Niger» ha annunciato al telegiornale delle 20 di France 2 e di TF1.

Si è concluso così il braccio di ferro che l’Eliseo aveva ingaggiato con le autorità installatesi in Niger dopo il colpo di Stato militare che – il 26 luglio – aveva destituito il presidente Mohamed Bazoum.

La giunta militare del Consiglio Nazionale della Salvaguardia della Patria (CNSP) aveva – dall’inizio d’Agosto – ripudiato i 5 accordi di cooperazione militare stipulati dal 1977 ad oggi con Parigi e dava un mese di preavviso per lasciare il paese. Il CNSP aveva anche dichiarato l’ambasciatore persona non grata, togliendoli le credenziali diplomatiche, ed ordinando l’espulsione di Sylvain Itté a fine agosto. Si erano svolte a più riprese oceaniche manifestazioni di fronte alle basi militari francesi – in particolare quella della capitale – , e non solo, promosse da organizzazioni che durante la presidenza di Bazoum, erano state duramente represse.

Lo stesso Macron ha dovuto ammettere che saranno costretti a concordare con gli autori del golpe, affinché il ritiro sia svolto in tranquillità, ammettendo implicitamente quale sia la vera autorità che controlla il paese.

La base 101, nella capitale, ospita per la maggior parte aviatori e tecnici che si occupano dei 3 Mirage 2000 e dei 6 droni Reaper, mentre circa 200 soldati sono di stanza, in turni di 4 mesi nella base di Oullam (Liptako), e saranno probabilmente presto spostati a Niamey per essere poi evacuati.

La reazioni dei militari e dei movimenti patriottici – M62 e MPCR – non si è fatta attendere.

«Questa domenica noi celebriamo una nuova tappa verso la sovranità del Niger. Le truppe francesi così come l’ambasciatore della Francia lasceranno il suolo nigeriano da qui alla fine dell’anno. É un momento storico che testimonia la determinazione e la volontà del popolo» annuncia un comunicato del CNSP alla televisione nigerina.

Il coordinatore del M62, Adoulaye Seydou, una coalizione di organizzazioni della società civile ostile alla presenza militare francese in Niger e che anela alla fine delle relazioni diplomatiche ed economiche con la Francia, afferma: «è una vittoria di tappa, ma non grideremo alla vittoria finché l’ultimo soldato francese non avrà lasciato il nostro paese. La Francia si è messa in una situazione in cui è vittima della propria politica. Sfortunatamente, Macron ha deteriorato l’immagine della Francia. Noi apprezziamo i valori che incarna il popolo francese. Noi non abbiamo alcun problema con il popolo francese. Noi dobbiamo mettere fine alle relazioni diplomatiche fino a quando si saranno delle autorità capaci di ascoltare gli altri paesi e di trattarci alla pari».

Ibrahim Namaywa, membro del Movimento per la promozione della cittadinanza responsabile (MPCR), esprime anch’esso la sua «soddisfazione». «Non è Macron che deve dire chi può essere legittimamente alla testa del nostro paese, fino a rifiutare di ottemperare alle decisioni delle nostre autorità» ha detto Namaywa che aggiunge: «Noi siamo mobilitati e continueremo a raddoppiare gli sforzi».

Interrogati separatamente da Rfi Afrique il giorno successivo alle dichiarazioni di Macron, due esperti della materia esprimono un giudizio è unanime: «è una vittoria su tutta la linea» della giunta sostiene Seidik Abba del Centre International de Reflexions et d’études Sur le Sahel che riceve una «certa legittimità», e per cui viene premiata la determinazione «a non cedere» di fronte alla postura bellicista di Parigi.

Thierry Vircoulon dell’IFRI – l’Istituto francese per lo studio delle relazioni internazionali – è abbastanza lapidario, e dopo avere elencato gli Stati africani (Ciad, Gibbuti, Dakar, Libreville-Congo, Gabon, Costa d’Avorio) che vedono una presenza francese, dichiara: «fino ad ora non ci sono dei luoghi in cui ci sono rischi particolari. Ma si percepisce chiaramente che adesso la legittimità della presenza militare francese in Africa è quasi nulla».

Da un giudizio molto netto anche Paul-Simon Handy – direttore regionale Africa dell’Est all’Istituto di studi sulla sicurezza – intervistato da Le Monde: «In ogni caso è un ritiro umiliante. La postura intransigente d’Emmanuel Macron, fautore di una linea dura contro gli autore del golpe dall’inizio della crisi, presupponeva due alternative: lo scontro ( usa l’espressione inglese clash )con i militari nigerini o la partenza forzata».

Nell’anno dell’indipendenza delle colonie, nel 1960, le truppe francesi in Africa ammontavano a 60 mila contro le 6mila di oggi. Già all’inizio dell’anno era previsto una ulteriore contrazione, ma è chiaro che la propria debacle in Niger scompagina ulteriormente i piani francesi.

E la fine della presenza militare sembra andare a braccetto con il crepuscolo del dominio economico.

L’M62, ha chiesto infatti al CNSP di ritirare alla francese Orano (ex-Areva) il permesso di sfruttamento del sito di Imouraren, un giacimento d’uranio della regione d’Arlit, nel nord-ovest del paese. L’organizzazione ritiene che la concessione sia detenuta «in maniera illegale» da Orano. I diritti sono stati ottenuti nel 2009 e successivamente rinnovati il maggio scorso con quello che era il Ministero per le attività minerarie del governo deposto, di cui il ministro è in stato d’arresto.

Secondo il coordinatore del M62 Abdoulaye Seydou, il popolo nigerino non gode abbastanza dello sfruttamento dell’Uranio del Niger.

Almoustpha Alhacen che presiede una ONG per la tutela ambientale ad Arlit, non chiede il ritiro della concessione ma dei cambiamenti che possano comprendere un paternariato reciprocamente vantaggioso, e l’adozione di una politica nazionale per le attività minerarie.

Il riscatto africano all’Onu

Mamady Doumbouya, il 21 settembre ha fatto un discorso storico alle Nazioni Unite. É il primo capo di Stato degli Stati africani che hanno visto dei colpi di Stato per mano di militari patriottici a potere parlare alle Nazioni Unite ed esprimere un punto di vista generale che da il senso di questa nuova stagione di riscatto politico africano.

Mamady Doumbouya, il 5 settembre 2021, ha rovesciato il presidente Alpha Condé, ed è stato nominato presidente per il periodo di transizione.

Il militare invita ad andare oltre un giudizio superficiale riguardo a ciò che sta succedendo nel continente africano, non fermandosi alle conseguenze ma a guardare alle cause dei colpi di Stato che l’hanno costellato.

Secondo il Capo di Stato della Guinea che ha come capitale Conakry i veri “golpisti” non sarebbero i militari che prendendosi le proprie responsabilità rovesciano regimi che non fanno gli interessi delle popolazioni, ma coloro i quali fanno di tutto per mantenersi al potere perpetuando un sistema che avvantaggia le élite – e le potenze che li sostengono in maniera interessata – a discapito delle popolazioni.

Dice espressamente: «L’autore di un Putsch non è solo chi prende le armi, chi rovescia un regime (…) I veri autori di un Putsch, i più numerosi, e che non divengono oggetto di alcuna condanna, sono coloro che maneggiano, che utilizzano la furbizia, che si adoperano per cambiare i testi della Costituzione per mantenere il potere in eterno».

Doumbouya afferma che l’«Africa soffre di un modello di governance che ci è stato imposto (…) questo modello ha soprattutto contribuito a perpetuare un sistema di sfruttamento e di saccheggio delle nostre risorse a favore degli altri, ed una corruzione assai presente nelle nostre élite».

Un modello politico – la democrazia o meglio il suo “simulacro” – che ha mantenuto un sistema economico, insomma.

Ma le cose sono cambiate: «La vecchia Africa è morta».

É giunto il momento del cambiamento, dice, per un continente con una gioventù emancipata, afferma Doumbouya.

Conclude: «é il momento di rivendicare i nostri diritti, di trovare il nostro posto. Ma è soprattutto il momento di smettere di farci delle lezioni, di guardarci dall’alto al basso, di finirla di trattarci come dei bambini».

Quello che sta emergendo, cristallizzato dalle parole di Doumbouya (che è il più “moderato” tra i golpisti patriottico in Sahel), è un cambiamento di assetti politici nella fascia che del continente Africano sub-sahariano si estende da Est (Sudan) ad Ovest (Guinea).

Dopo qualche giorno dal discorso all’ONU del leader guineano Macron, la sera di domenica 24 settembre, come abbiamo visto, annuncia in un intervista televisiva a France 2 e TF1 il ritiro dal contingente francese dal Niger – composto da 1500 soldati – entro la fine dell’anno ed il rimpatrio dell’ambasciatore Sylvain Itté, nelle ore seguenti.

Completano, in queste settimane, la “rappresentazione plastica” di questo cambiamento in corso le massicce manifestazioni contro il caro vita in Ghana, la dichiarazione congiunta delle due maggiori confederazioni sindacali nigeriane che chiamano allo sciopero generale ad oltranza in Nigeria dal 3 ottobre contro le politiche di austerità imposte dal nuovo presidente Tinubu, e la “sonkorizzazione” della strategia di resistenza in Senegal, in cui la gioventù senegalese utilizza ogni spazio pubblico per osannare il leader dell’opposizione in carcere.

Da un lato il vecchio mondo che muore, dall’altro il nuovo che tra mille e una peripezia sta nascendo con i «colpi di Stato popolari»come li ha giustamente definiti l’intellettuale franco-algerino Said Boumama, le mobilitazioni contro le conseguenze della crisi del morente ordine neo-liberista, e l’indomita opposizione alle democradure neo-coloniali.

2019-2023: cronologia dei colpi di Stato africani

Iniziamo a fare una panoramica, premettendo che tali cambiamenti riguardano contesti diversi ed hanno avuto, e potrebbero avere, sviluppi differenti. In alcuni casi, come nei casi dei colpi di Stato in Ciad e Gabon si è trattato di “rivoluzioni di palazzo” che hanno portato al potere uomini non invisi all’Occidente e gli garantiscono una certa continuità – ma che potrebbero riservare notevoli sorprese – , tenendo conto che le classi dirigenti africane anche quelle storicamente più filo-occidentali possano iniziare a guardare ad altri punti di riferimento come Cina, Russia e Turchia.

In altri casi si tratta di vere e proprie transizioni mancate dai tragici sviluppi bellici, come in Sudan, in altri ancora, l’inizio di processi di sganciamento dal dominio neo-coloniale euro-atlantico con un notevole consenso popolare: Mali, Guinea, Burkina Faso e Niger. Nei corsi e ricorsi storici si tratta di una specie di “ritorno alle origini” di quelle, purtroppo, transitorie esperienze avvenute all’indomani dell’indipendenza, od in fasi successive: Thomas Sankara in Burkina Faso (1983-1987), Modibo Keïta in Mali (1960-1968), Ahmed Sékou Touré in Guinea-Conakry (1958-1984).

Il Sahel è divenuto compiutamente uno dei principali punti di caduta dell’imperialismo euro-atlantico e la fucina della “quarta generazione” di rivoluzionari Africani, nonché la culla di un nuovo pan-africanismo presente in loco così come nella diaspora.

La prima breccia negli assetti politici precedenti è stata la caduta in Sudan del regime trentennale di Omar Al-Bashir l’11 aprile del 2019, deposto dall’esercito sudanese dopo mesi di mobilitazioni con un carattere sempre più insurrezionale. Un cambiamento “gattopardesco” dove i militari che erano un pilastro del regime islamico di Al-Bashir sono risultati essere, insieme alle potenze che a loro si sono affidati, un elemento di freno e non di spinta per il cambiamento, fino a diventare nella loro attuale lotta fratricida culminata nell’escalation bellica i becchini della rivoluzione sudanese.

Il 18 agosto 2020, in Mali, il presidente maliamo Ibrahim Boubacar Keita “IBK” è arrestato insieme al suo primo ministro, Boubou Cissé, da dei militari, ed annuncia le sue dimissioni in un messaggio in televisione. A capo della giunta che lo rovescia vi è Assimi Goita. Da mesi l’opposizione, che teneva regolarmente manifestazioni a Bamako, represse nel sangue, ne chiedeva le dimissioni.

É il primo “anello” debole della catena a saltare in Sahel, particolarmente importante perché dopo la destabilizzazione della Libia, l’operazione Serval del 2013 – sotto la presidenza Hollande – è il primo passo per un dispiegamento militare francese che conterà più di 5 mila soldati in tutta l’area. Ci vorranno poi 6 mesi affinché i 4.500 militari che si trovavano in Mali fossero evacuati e le merci via container prendessero la strada dei porti di Cotounou in Benin ed di Abidjan in Costa d’Avorio. Insieme a “Barkhane” e a “Takouba”, se ne andranno anche i contingenti della missione MINUSMA delle Nazioni Unite, su richiesta della nuova autorità.

Il 20 aprile 2021, in Ciad, l’esercito annuncia la morte in combattimento di Idriss Daby, dopo la sua rielezione per il suo sesto mandato (sesto!) che lo vedeva alla testa dello Stato dal golpe del 1990.

Il figlio, Mahamat Idriss Déby Itno, prende il potere e scioglie l’assemblea nazionale, il tutto con la benedizione francese. Il generale di 39 anni, nell’ottobre del 2022, viene nominato ufficialmente presidente della transizione per altri due anni, riservandosi di presentarsi alle elezioni dopo avere restituito il potere ed indetto le elezioni. Come il padre, Mahamat Idriss Déby Itno, e il suo predecessore Hissène Habré (1982-1990) è un alleato strategico per la Francia e la sua presenza militare in Sahel.

La permanenza al potere di Habré e di Déby padre allo stesso tempo era assicurata dalla manu militare dell’Esagono che nel 2019 ha bombardato le colonne di ribelli che minacciavano di giungere nella capitale.

In Ciad sono presenti 1000 militari francesi, una base aerea, uno Stato Maggiore a Ndjamena, ed un campo d’osservazione del Sahel. Il regime di Déby ha visto moltiplicarsi i fattori di criticità interna ed esterna, ed ha duramente represso nel sangue qualsiasi tipo di opposizione.

Il 20 ottobre del 2022 una violenta repressione si è abbattuta sui manifestanti che chiedevano la partenza della giunta militare: le ONG in difesa dei diritti dell’uomo hanno contato più di 200 morti, mentre il governo che parla di un «tentativo di insurrezione» riconosce solo 73 vittime. Comunque un massacro compiuto nel quasi totale silenzio dei media e delle cancellerie occidentali.

Quel giorno dai quartieri bastione dell’opposizione della capitale (Walia, Chagoua, Abena e Moursal) hanno risposto all’appello alla mobilitazione lanciato da Wakit Tama – una coalizione di organizzazioni della società civile – e da diversi partiti. Anche numerose province sono scese in strada (Moundou, Abéche, Bongor, Koumra) per raggiungere la protesta.

Il Ciad non fa parte della CEDEAO, ma solo dell’ormai defunto G5 del Sahel, ed aveva ripetuto che non avrebbe appogiato un intervento armato in Niger da parte della CEDEAO.

Il 24 maggio 2021, in Mali, a nove mesi appena dopo il colpo di Stato, il colonnello e vice-presidente della transizione Assimi Goita, guida un secondo Putsch, fa arrestare e poi dimettere il presidente della transizione Bah N’Daw, ed il suo primo ministro Moctar Ouane. Quattro giorni più tardi è nominato presidente della transizione del Mali. Nel gennaio del 2023 IBK muore di una crisi cardiaca.

Il 5 settembre del 2021, in Guinea, Alpha Condé, eletto nel 2010, viene deposto dopo che nel 2020 aveva fatto cambiare la Costituzione, permettendogli di essere eletto per un terzo mandato, nonostante una ondata di proteste duramente repressa.

Il 24 gennaio del 2022, in Burkina Faso, i militari arrestano il presidente Roch Marc Christian Kaboré, al potere dal 2015 e rieletto nel 2020. Era da tempo contestato dall’opposizione a causa della degradazione della situazione della sicurezza rispetto alla minaccia jihadista. L’autore del Putsch è il Luogotenente Colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba.

La giunta guidata da Damiba è rovesciata 8 mesi dopo, il 30 settembre 2022 dal capitano Ibrahim Traoré, con il suo arresto e le sue dimissioni e va in esilio in Togo.

Il 26 luglio del 2023, in Niger, Mohamed Bazoum, eletto presidente nel 2021 in continuità con il suo mentore Mahamadou Issoufou, viene deposto dal generale Abdourahamane Tiani, che lo prende in ostaggio e decreta la “fine del regime”.

É bene ricordare che la vittoria di Bazoum al secondo turno delle elezioni presidenziali del febbraio del 2021 era stata “di misura” (55,7%) nei confronti dello sfidante Mahamadou Issoufou che reclamava la vittoria con il 50,7%, e violentemente contestata dall’opposizione sin dall’annuncio dei risultati della Commissione elettorale nazionale indipendente (CENI).

Nel febbraio di quell’anno era scoppiata una vera e propria rivolta a Niamey ed in altre città che aveva portato alla morte di due persone e all’arresto di 468.

Il governo aveva accusato il principale capo dell’opposizione, Amadou Hama, di essere il motore dei disordini.

Hama, fondatore del Movimento democratico nigerino per una federazione africana (Modem Fa Lumana) era stato arrestato dopo le manifestazioni post-elettorali e costretto all’esilio per due anni e mezzo, dopo avere ricevuto il permesso di recarsi nell’Esagono per curarsi, ed è rientrato il 12 settembre.

Il primo ministro nominato dal CNSP, Ali Mahaman Lamine, aveva così commentato l’arrivo di questo ex prigioniero politico che aveva ricoperto differenti ruoli istituzionali: «Hama è uno dei più grandi uomini politici nigerini, è assolutamente normale che rivenga nel suo paese (…) Parteciperà allo sforzo di mobilitazione di tutte le energie per lo sviluppo del nostro paese».

All’inizio di settembre, l’opposizione prima del presidente Issoufou e poi di Bazoum, si era espresso pubblicamente nei confronti del golpe giudicando che con il Colpo di Stato: «la situazione (a Niamey) si è evoluta in un senso che da maggiori prospettive all’opposizione» ed aveva criticato la Cedeao per la sua postura bellicista nei confronti del Niger.

Come in altri casi, dopo il golpe, vengono imposte dure sanzioni da parte della Cedeao, che sta volta però paventa l’ipotesi di un intervento militare per ripristinare l’ “l’ordine democratico”. Ad un certo punto addirittura viene fatto trapelare, dagli stessi leader della Cedeao, che sarebbe stato stabilita il giorno X per la sua attuazione. Ci sarà un duro scontro dentro l’Unione Africana tra i favorevoli a questa ipotesi ed i contrari, trovando in un comunicato “cerchiobottista” un compromesso piuttosto difficile per far quadrare il cerchio. La minaccia di un intervento militare, rafforza la popolarità del CNSP in Niger in un clima di mobilitazione permanente, e approfondisce le contraddizioni tra la leadership dei vari Stati della Cedeao – tranne il Togo – e la popolazione specie in Nigeria, Senegal e Costa d’Avorio che sembrano i più strenui sostenitori dell’ipotesi bellica.

Il 30 agosto del 2023, in Gabon, il successore di suo padre, Omar Bongo morto nel 2009, Ali Bongo Ondimba è deposto da un colpo militare dal capo della guardia repubblicana Brice Oligui Nguema, in una “rivoluzione di palazzo” poco dopo l’annuncio di una poco trasparente vittoria elettorale di Ali con il 64,27% dei voti. La famiglia Bongo da sempre pivot degli interessi occidentali, e non solo francesi, in Africa viene estromessa dal potere.

Addio Francafrique

Se il colpo di Stato a Bamako era stato il primo “campanello d’allarme” per il neo-colonialismo europeo – a trazione prevalentemente francese – il Putsch a Niamey è vissuto come la goccia che ha fatto traboccare il vaso a Parigi e ha messo in allerta Washington che ha in Niger basi e mezzi, e uomini, piuttosto importanti. La base di Agadez degli USA è il secondo dislocamento militare nel continente, ospita un migliaio di soldati e soprattutto i droni con i quali controlla una parte importante dell’Africa.

Per inciso, con l’amministrazione Biden gli Stati Uniti stanno cercando di riacquistare un ruolo in Africa, specie dallo sviluppo dell’escalation Ucraina nel febbraio del 2022. Per ciò che riguarda il Sahel, dobbiamo ricordare il Comando Statunitense che ha sede a Stoccarda (L’Africom appunto) e l’operazione congiunta «Flintlock» che si svolge dal 2005, ed a cui quest’anno hanno partecipato 1300 soldati, di 23 paesi, tra cui un contingente italiano.

Le prossime pedine di questo domino contro il neo-colonialismo della UE potrebbero essere N’Djanema o Dakar, gli ultimi pilastri (insieme alla Costa d’Avorio) nella regione di quello che era il pré-carré di Parigi dove i vecchi colonizzatori non sono da tempo i benvenuti. La Françafrique che ha preso il posto della dominazione coloniale con l’indipendenza formale delle ex colonie dal 1960 è al crepuscolo. La presenza militare francese – estesasi ad incominciare dall’operazione militare «Serval» in Mali nel gennaio 2013 trasformata in «Barkhane» nell’agosto del 2014 – è inesorabilmente destinata a ridimensionarsi.

E proprio con quest’ultima operazione si era compiuto un salto di qualità da parte della Francia, estendendo il proprio intervento militare all’insieme dei dei paesi del G5 del Sahel che oltre al Mali, comprendevano Burkina Faso, la Mauritania, il Niger ed il Ciad.

Come ha scritto Marc-Antoine Pérouse de Montclos, in un articolo pubblicato nel giugno 2022 sulla rivista Etudes: «l’esercito francese s’è ritrovato a cercare di mettere in sicurezza una zona più vasta che l’Iraq e la Siria messe assieme. Con meno di 5000 uomini, la missione era impossibile».

Nonostante l’uccisione di numerosi leader delle varie formazioni jihadiste, l’insorgenza islamica non si è ridotta ma si è estesa minacciando diversi paesi che si affacciano sul Golfo di Guinea. Costa d’Avorio, Togo e Benin.

Il tentativo di “europeizzare” lo sforzo militare francese attraverso l’istituzione della Task Force «Takuba» creata nel marzo del 2020, e lanciata nel 2018, è naufragato nel gennaio del 2022, per la volontà della giunta al potere a Bamako. 11 Stati avevano firmato un dichiarazione comune sostenendo politicamente questa forza multinazionale. Composta ai tempi per il 40% da militari francesi, con 800 effettivi, comprendeva un contingente danese, estone, svedese e cieco, oltre che 200 italiani, dedicati soprattutto all’uso degli elicotteri. Avrebbe dovuto allargarsi ad altri contingenti europei ma la piega degli eventi non gli e l’ha permesso.

Niger: l’Afghanistan francese

Il Niger era divenuto il centro del ridispiegamento militare nella regione per la Francia che “ospita” 1500 militari di Parigi, dopo la partenza forzata dal Mali nell’agosto del 2022 e dal Burkina Faso a febbraio di quest’anno. Niamey, aveva chiesto quasi subito – a causa della reazione francese al golpe – la partenza del contingente militare francese dopo la rottura di tutti i trattati militari stipulati dal 1977 con Parigi.

Il muro contro muro tra Niamey e Parigi, e la propensione bellicista della Cedeao – la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Orientale – che paventa un intervento militare in Niger, l’ha fatto diventare la principale linea di faglia della regione, considerato anche che tra Mali, Burkina Faso e Niger è stata formalizzata un’alleanza militare a tutto tondo tesa a combattere lo jihadismo così come il possibile intervento armato esterno.

Aspetto non secondario dal 1968, dei francesi – dalla Société des mines de l’Aïr (Somaïr) all’Orano (ex-Areva) – sfruttano in Niger, le miniere d’uranio necessarie al funzionamento delle centrali nucleari dell’Esagono. Attualmente Parigi attinge dal Niger il 17% del suo bisogno, avendo diversificato nel corso degli anni il suo approvvigionamento.

Ma il Niger sarà anche un importante produttore di petrolio, una risorsa del sottosuolo ancora poco sfruttata.

Macron, non aveva fatto che gettare benzina sul fuoco affermando che l’ambasciatore francese a Niamey veniva tenuto in ostaggio nell’ambasciata.

Il 28 agosto Macron ha affermato: «Non riconosciamo gli autori del Putsch, sosteniamo il presidente che non ha dato le dimissioni, al fianco del quale noi restiamo impegnati. E noi sosteniamo una soluzione diplomatica o militare della Cedeao, quando la deciderà».

Una posizione, quella del presidente francese, rispetto al possibile intervento militare della Cedeao di fatto isolata in Unione Europea, non fatta propria dall’Unione Africana, e che trova la contrarietà tra le popolazioni dei governi della Comunità che sembrano più proni a lanciarla (Nigeria e Senegal), e nell’attuale leadership del Ciad e del Togo.

Per la posizione geografica che occupa, le risorse di cui dispone, il ruolo che aveva nella gestione dei flussi migratori e di fulcro del dispiegamento militare occidentale in Africa, si può dire che il Niger costituisca una sconfitta strategica non solo per la Francia.

Eurafrica: la faccia “nascosta” dell’imperialismo europeo

Scrive giustamente Lucio Caracciolo nell’editoriale di LIMES del numero monografico di Limes (8/2023) dedicato al continente dal Tito evocativo Africa contro Occidente che: «il più protetto fra i segreti dell’europeismo si chiama eurafrica».

Eurafrica è un concetto che ha alterne fortune e differenti utilizzi, ed uno spettro di teorici che tra le Due Guerre Mondiali – in cui è stato coniato – spazia dall’aristocratico tedesco R. N. C.-Kalergi al al fascista britannico I. Mosley, figura non proprio marginale della vita politica a Londra.

Eurafrica ha un significato preciso per l’aspirante polo imperialista europeo sin dalle sue origini. Cioè a cominciare dal processo che ha portato alla firma dei “Trattati di Roma” della seconda metà degli Anni Cinquanta, ed a maggior ragione con la creazione dell’Unione Europea in cui è diventato compiutamente un progetto per ri-europizzare il colonialismo, ridisegnando quella profondità strategica necessaria per la competizione inter-imperialistica apertasi con la fine del mondo bi-polare.

La realizzazione del Lebensraum del polo imperialista europeo ha avuto tre direzioni principali: il Nord (Scandinavia e Paesi Baltici), l’Est con le ex democrazie popolari e la Jugoslavia, e l’Africa dal Maghreb al Sahel.

Come disse un diplomatico britannico ai tempi della firma dei trattati di Roma si trattava della «continuazione del colonialismo francese finanziata dai capitali tedeschi».

Una battuta non proprio inesatta.

Legare i destini dell’ Africa all’Europa dentro un “modello di sviluppo” etero-diretto da Parigi, Bonn, Bruxelles e Roma era l’ipotesi sul campo..

Era la volontà di far sorgere un polo con una profondità strategica in cui l’Africa aveva una funzione geo-politica fondamentale nello scontro USA-URSS, che sembrava privilegiare il terreno europeo a detrimento dell’Europa stessa, oltre che della disponibilità di risorse materiali ed umane per il cosidetto mercato comune euroafricano lungo l’asse centro/periferia dominata dalla metropoli.

Si pensi alla valenza che il naufragato progetto Euroatom, per la volontà di De Gaulle tornato al potere di non voler condividere l’atomica con altri, avrebbe avuto nell’articolazione di una autonomia strategica europea per le élite europee.

Con la creazione dell’Unione Europea possiamo parlare di una “terza colonizzazione” africana dell’epoca contemporanea dopo quella che ha preceduto la Prima Guerra Mondiale – l’Età degli Imperi descritta magistralmente dallo storico marxista Hobsbawan – , il neo-colonialismo occidentale iniziato negli anni del compimento della de-colonizzazione storica – descritto da K. Nkrumah -, e poi da trent’anni a questa parte da una nuova colonizzazione che ha le sue radici nella politica strangolatoria e nelle cure da cavallo degli istituti finanziari occidentali (Banca Mondiale e FMI) già ben prima della fine dell’Unione Sovietica.

Una dinamica di lungo periodo, quindi, a “stratificazione successive” che ha come conditio si ne qua non l’annichilimento di quella leadership sorta dalle lotte anti-coloniali non prona all’occidente, e costellata di colpi di Stato militari e di omicidi politici che arrivano fino alla destabilizzazione della Libia ed all’uccisione di Gheddafi, e dell’occupazione militare del Sahel.

L’Africa era ed è parte essenziale per l’affermazione del polo imperialista europeo, ed ora euro-atlantico. Ma quell’impero sui generis di cui dissertava Barroso, in una famosa gaffe (che sa più di lapsus freudiano) nel 2007 è al tramonto. Più esplicito nella sua metafora neo-coloniale è stato Borrell, ma anche qui il “giardino” del tecnocrate iberico sembra soccombere alla “giungla”, per usare i suoi termini razzisti. L’ultimo in ordine di tempo a parlare di “Euro Africa” è stato forse Minniti – ora presidente di Med-Or – in Mauritania: «dovremmo abituarci sempre più al termine Eurafrica» diceva.

Oggi bisognerebbe dire che si dovranno sempre più abituare alla fine dell’Eurafrica, e al riscatto dell’Africa.

L’arma della teoria

Ci è sembrato utile aggiornare un precedente dossier pubblicato (in forma di e-book e di versione stampabile in formato PDF) nel febbraio del 2022, con questa nuova introduzione. Questo dossier si compone di una selezione di articoli usciti su Contropiano e di testi inediti che offrono una panoramica sulla fine del precedente – ed “ultimo” – ciclo neo-coloniale che potremmo datare con la destabilizzazione della Libia, e l’inizio del nuovo ciclo di de-colonizzazione dentro il processo multipolare.

Pensiamo che questo strumento sia utile per le ricadute che questi processi stanno avendo e potranno avere nel ventre della bestia dell’imperialismo euro-atlantico, soprattutto perché sono portatori di una idea-forza di riscatto che investe le popolazioni del Sahel e la diaspora, compresa la componente afro-discente delle classi subalterne dentro il quale svolgiamo e continueremo a svolgere il nostro lavoro organizzativo.

Allo stesso tempo quello che accade da forza all’approccio anti-imperialista e alla tensione internazionalista in vari ambiti di lotta politico-sociale perché quello che sta succedendo che sono i popoli in rivolta che scrivono la storia qualunque forma assuma la loro autodeterminazione dal giogo che li opprimeva, in questo caso la gabbia della UE e l’imperialismo euro-atlantico.

Pensiamo che la nuova generazione di africani e afro-discendenti – riprendendo la citazione di Fanon con cui abbiamo iniziato questa traduzione -, non solo ha trovato la sua missione, ma la sta compiendo.

* Qui il link con il dossier completo: https://www.retedeicomunisti.net/2023/10/04/sahel-un-punto-di-caduta-dellimperialismo-euro-atlantico/

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