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Non dobbiamo abbandonare i nostri fratelli arabi

L’inaspettata ribellione del mondo arabo ci ha colto tutti di sorpresa. Le satrapie del Magreb e del Medio Oriente sono rimaste così stordite coi loro padroni imperiali dall’esplosione che ha avuto origine da un incidente relativamente marginale, per quanto terribile e doloroso sul piano individuale: la auto immolazione nella città di Sidi Bouzid, Tunisia, di Mohammad Al Bouazizi, un laureato di 26 anni che non trovava lavoro e che ha deciso di darsi alle fiamme perché la polizia gli impediva di vendere frutta e verdura per strada. La sua famiglia aveva bisogno del suo aiuto, e Al Bouazizi, in giovane povero, non voleva aggiungersi alla lunga fila di giovani disoccupati della sua patria, o emigrare in Europa con qualunque mezzo. Il terribile sacrificio della sua protesta è stata la scintilla che ha incendiato la prateria riarsa di un regione conosciuta per l’opulenza delle sue oligarchie governative e la secolare miseria delle masse. O per dirla con le parole sempre belle di Eduardo Galeano, quella che ha incendiato “la stupenda fiammata di libertà” che ha dato fuoco al mondo arabo e tiene sui carboni ardenti l’imperialismo, tanto per continuare con le metafore ignee, così appropriate ai tempi che corrono.[1] La ribellione dei popoli arabi ha anche lscito in una posizione scomoda gli esperti, gli analisti e i giornalisti specializzati. Ha spietatamente messo a nudo la loro ciarlataneria, e il loro ruolo di manipolatori dell’opinione pubblica al servizio del capitale. Una rivista dell’esperienza dell’Economist, ad esempio, non è stata in grado di anticipare, nel numero dello scorso anno dedicato alle previsioni per il 2011, gli avvenimenti che poche settimane dopo hanno sconvolto il mondo arabo, e per estensione l’equilibrio geopolitico mondiale. Questo fiasco riafferma per l’ennesima volta l’incapacità del sapere convenzionale di predire i grandi avvenimenti dei nostri tempi. La scienza politica che rimase a bocca aperta di fronte alla caduta del muro di Berlino, e, più di recente, è stata la stessa regina di Inghilterra a chiedere ad uno scelto gruppo di economisti come mai nessuno era stato capace di pronosticare la attuale crisi generale del capitalismo. Stupiti da tale inaspettata domanda, formulata in quella che si supponeva essere una serena visita protocollare, gli interpellati si limitarono a chiedere, attoniti per il rimprovero, un periodo di sei mesi per rivedere i propri strumenti analitici, e informare Sua Maestà delle ragioni di una così deprecabile negligenza professionale. [2] L’impatto sull’America Latina Non è quindi casuale che gli avvenimenti del mondo arabo abbiano gettato nella confusione buona parte della sinistra latinoamericana. Daniel Ortega ha appoggiato Gheddafi senza esitazioni; il Presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Hugo Chavez, si è dichiarato amico del governante, pur chiarendo che ciò non significa, parole sue, “ che sono a favore o plaudo a qualunque decisione che un mio amico prenda in qualunque parte del mondo”. Tuttavia, ha proseguito “appoggiamo il governo della Libia, e l’indipendenza della Libia” [3] Con le sue dichiarazioni Chavez teneva conto del precoce avvertimento di Fidel sulla crisi libica: questa poteva essere utilizzata per legittimare un “intervento umanitario” degli USA e dei loro alleati europei, sotto l’ombrello NATO, per impadronirsi del petrolio e del gas libici. Ma in nessun modo il saggio avvertimento del leader della rivoluzione cubana poteva tradursi in un appoggio senza riserve al regime di Gheddafi. Non lo ha fatto Chavez, lo ha fatto Ortega. Come ci si aspettava, la sfacciata manipolazione mediatica con la quale l’imperialismo attacca i governi di sinistra della nostra regione ha distorto il senso delle parole di Fidel e Chavez facendoli apparire complici di un governo che stava mitragliando il suo popolo.[4] In una nota di chiarimento pubblicata pochi giorni fa su Rebelion, Santiago Alba Rico e Alma Allende sostenevano persuasivamente che un errato posizionamento della sinistra latinoamericana – e specialmente dei governi di Cuba e Venezuela – “può produrre almeno tre terribili conseguenze: rompere i legami coi movimenti popolari arabi, legittimare le accuse contro il Venezuela e Cuba, e “ridare prestigio” al maledettissimo discorso democratico degli imperialisti. Un totale trionfo, senza dubbio, per gli interessi imperialisti nella regione”[5] Di qui la gravità della situazione attuale, che richiede il transito su un sentiero strettissimo tra due tremendi abissi: quello di fare il gioco dell’imperialismo nordamericano e dei suoi soci europei facilitando il loro piano mal dissimulato di impadronirsi del petrolio libico, e dei libici; e quello di appoggiare un regime che essendo stato anticolonialista e di sinistra alle sue origini – come fu, ad esempio, l’APRA in Peru – negli ultimi venti anni si è subordinato senza scrupoli al capitale imperialista, abbracciando e ponendo in pratica, senza attenuanti, le politiche tipiche del Congresso di Washington e i precetti della “lotta contro il terrorismo” istituita da George W. Bush. Il mondo arabo: rivolta, rivoluzione, cospirazione? Non crediamo sia necessario spiegare le ragioni per le quali occorre opporsi senza attenuanti alla opzione interventista degli USA e dei loro partners europei. Vediamo invece quali possono essere gli argomenti per evitare che tale posizione corretta e non negoziabile sbocchi poco felicemente nell’appoggio a un regime contro il quale la maggioranza della popolazione si è sollevata in armi. C’è chi argomenta che ciò che accade in Libia non è che l’”effetto contagio” degli avvenimenti egiziani e tunisini, e che non ci sono ragioni di fondo a giustificazione della insurrezione popolare. Di passata conviene ricordare che le rivoluzioni sono processi dialettici e non avvenimenti metafisici o fulmini a ciel sereno. Nella genesi della rivoluzione francese c’è un tumulto in una panetteria nelle vicinanze della Bastiglia. Sappiamo ciò che accadde poi. Secondo, che inevitabilmente i processi rivoluzionari sono contagiosi. Questo insegna la storia. Ricordate ciò che accadde alle rivoluzioni per l’indipendenza in America Latina, due secoli fa; o quelle del 1848, o quelle che ebbero luogo, sempre in Europa, subito dopo la prima guerra mondiale e con lo scoppio della rivoluzione russa del Febbraio 1917. Ma se in alcuni luoghi questi processi attecchirono e in altri no fu perché il contagio non opera in un vuoto socio-economico e politico, ma fondamentalmente nelle condizioni interne di ciascun paese.[6] Se la rivoluzione del 1848 trionfò in Francia ma non nel Regno Unito fu perché nella prima lo sviluppo delle lotte di classe creò le condizioni interne per porre fine bruscamente alla restaurazione monarchica dell’orleanismo, mentre nulla di tutto ciò accadde sull’altra riva della Manica, che poteva, nella medesima fase storica, accogliere senza sforzo due rifugiati politici quali Karl Marx e Friedrich Engels. E se dopo la prima guerra mondiale la rivoluzione trionfò in Russia ma non in Germania fu perché la propagazione del fervore rivoluzionario, che colpì quest’ultima con molta forza, era condizione necessaria ma non sufficiente a garantire il trionfo della rivoluzione, cosa che fu esplicitamente riconosciuta da Rosa Luxemburg in uno dei suoi brillanti interventi pochi mesi prima del suo vile assassinio. In altri termini, l’insurrezione in Libia è stata indubbiamente stimolata dalle grandi vittorie popolari in Tunisia ed Egitto, ma deriva dai guai di due decenni di neoliberalismo in un paese molto ricco nel quale le classi popolari ricevono appena le briciole della colossale rendita petroliera, ai giovani mancano prospettive di lavoro, e la crisi generale del capitalismo ha chiuso la valvola di sfogo dell’emigrazione, che fino a pochi anni fa alleviava la pressione sul sistema, pur aumentando straordinariamente i prezzi del cibo. In ultimo, il tasso di mortalità infantile – per citare un indicatore assai sensibile del livello di benessere di una popolazione – fluttua, a seconda delle fonti, tra il 20 e il 25 per mille; quanto a dire quattro o cinque volte superiore a quello di Cuba, e circa il doppio del Brasile. Lo stesso va detto circa la possibilità che ciò che accade in Libia sia opera di agenti dell’imperialismo. Ma come dimenticare che fino allo scoppio della rivoluzione in Tunisia Gheddafi era elogiato dai capi di stato delle “democrazie capitaliste” come un governante che si era spogliato delle sue vecchie ossessioni, riconciliato con la globalizzazione neoliberale, e fatto pace con i suoi antichi nemici, dalla Casa Bianca al regime razzista israeliano? Ciononostante, quando si resero conto che il suo trono traballava, e intuirono che Gheddafi poteva fare la fine dei suoi omologhi in Egitto e Tunisia, gli imperialisti modificarono rapidamente il loro atteggiamento, ricordando che la Libia non era una democrazia, e che in quel paese i diritti umani non erano rispettati – il che non li aveva mai minimamente preoccupati- e con ineguagliabile cinismo si collocarono fragorosamente “ a fianco del popolo”, e contro il ragionevole governante di ieri, rapidamente riconvertito in tiranno. Ancora una volta, però, il lavoro di questi agenti dell’imperialismo mai avrebbe potuto scatenare una insurrezione impressionante come quella libica – o tunisina o egiziana – se non vi fossero state le condizioni di fondo perché sfidando la repressione le masse scendessero in piazza per abbattere il governo. Vale a dire, per dirla con Lenin, se quelli in basso non volevano più e quelli in alto non potevano più vivere come prima. D’altra parte, se gli agenti dell’imperialismo avessero la capacità di fare e disfare rivoluzioni occorrerebbe riconoscere che la nostra lotta è destinata in partenza al disastro. Fortunatamente non è così. Né ha maggior senso sostenere che le “reti sociali” (Facebook e Twitter) hanno provocato la ribellione, orchestrata ad arte dalla CIA e dagli agenti dell’imperialismo. Per smentire quest ipotesi basta una cifra: secondo le ultime statistiche ONU, solo il 5,1 % della popolazione utilizza Internet. Il che spiega male le moltitudini ribelli del mondo arabo, essendo in Egitto e Tunisia come in Libia gli internauti una infima minoranza della popolazione. Queste “reti sociali” possono servire a facilitare le comunicazioni tra attivisti, ma non possono scatenare l’insurrezione delle masse, che, in stragrande maggioranza, mai hanno avuto accesso a un computer. Gheddafi e il neoliberismo, da ieri ad oggi A questo punto occorre chiedersi chi è Gheddafi e cosa rappresenta. Vincenc Navarro illustra con chiarezza il contrasto tra il Gheddafi “nasserista” dei suoi primi anni e ciò che è oggi: “un dittatore corrotto ed estremamente repressivo”[7] Secondo Navarro, ad appena 27 anni, nel 1969, Gheddafi guidò un colpo di stato, ispirato dall’esperienza di Nasser in Egitto, abbattendo la monarchia imposta dall’impero britannico dopo la seconda guerra mondiale. Nei primi anni Gheddafi avviò una riforma agraria, nazionalizzò il petrolio e poco più di duecento imprese (riorganizzate con una importante partecipazione dei lavoratori alla loro gestione), introdusse miglioramenti nella qualità e copertura dei servizi sanitari e dell’istruzione. Altri caratteri della politica del tempo furono la nazionalizzazione del credito e un forte intervento statale. “Gheddafi presentò quella esperienza – annota Navarro- come la terza via tra capitalismo e socialismo, allora associato all’Unione Sovietica.”[8] Ebbene: questo è il Gheddafi che persiste nell’immaginario di importanti settori della sinistra latinoamericana. Il problema è che si tratta di una immagine completamente superata, poiché a partire dagli anni ’90 il regime libico inizia una svolta che, pochi anni dopo, collocherà questo paese agli antipodi della sua posizione degli anni ’70. La “terza via” degenerò in un “capitalismo popolare”, riproduzione tardiva dell’opera di Margaret Thatcher negli anni ’80 in Inghilterra, e le nazionalizzazioni iniziarono a essere sconfessate mediante un festival corrotto di privatizzazioni e aperture al capitale straniero, nell’industria petroliera e nei rami più importanti dell’economia. Non ci sbagliamo: Gheddafi non è Nasser, è Mubarak. Un acuto osservatore del contesto maghrebino, Ayman El Kayman ha desritto contratti precisi l’itinerario di questa involuzione :” Da quasi dieci anni Gheddafi ha smesso di essere un individuo poco raccomandabile per l’Occidente democratico: per essere tolto dalla lista americana degli stati terroristi riconobbe la responsabilità dell’attentato di Lockerbie; per normalizzare i suoi rapporti col Regno Unito fece i nomi di tutti i repubblicani irlandesi addestrati in Libia; per normalizzarli con gli USA dette ogni informazione in suo possesso sui libici sospettati di partecipare alla jihad con Bin Laden e rinunciò alle sue “armi di distruzione di massa”, oltre a chiedere alla Siria di fare lo stesso. Per normalizzare i rapporti con la UE si trasformò in guardiano di campi di concentramento che rinchiudono migliaia di africani che emigravano in Europa; per normalizzare le relazioni col suo sinistro vicino Ben Ali consegnò gli oppositori rifugiati in Libia [9] E quando egiziani e tunisini si ribellarono, Gheddafi si schierò coi loro boia, con lo stesso atteggiamento delle “democrazie occidentali”, assieme ad Obama, Sarkozy, Cameron, Berlusconi, Zapatero, e al regime genocida di Netanyahu. Ma questi, vedendo che le sollevazioni popolari si avviavano ad una storica vittoria, in poche settimane passarono da caute esortazioni ai loro sicari della regione perché concedessero poche riforme cosmetiche all’esigere imperiosamente che lasciassero il potere. Quando l’incendio arrivò in Libia la borghesia imperiale e i suoi rappresentanti politici intuirono l’opportunità di trarre vantaggio dal prevedibile crollo di Gheddafi impedendo che le masse libiche prendessero in mano il loro futuro, sia mediante un “intervento umanitario” che permetta loro di appropriarsi della Libia col pretesto di porre fine al bagno di sangue promesso dal dittatore, o, in mancanza di ciò, arrivare ad una spartizione, o smembramento, come in Yugoslavia, o come tentarono in Bolivia senza successo nel 2008. Come indicarono Lenin, Gramsci e Fidel, la destra e le classi dominanti, con la loro lunghissima esperienza di governo, imparano in fretta e reagiscono con rapidità fulminante ad una congiuntura come l’odierna in Libia. E se ieri appoggiavano senza riserve Gheddafi, oggi cercano di toglierlo di mezzo quanto prima, e di facilitare una “transizione ordinata”, Hillary Clinton dixit, che organizzi il tradimento delle aspettative delle masse e instauri un simulacro democratico che permetta loro di continuare a dissanguare la Libia e il mondo arabo in generale. Nella sua rapida conversione al neoliberalismo, Gheddafi aprì l’economia alle grandi multinazionali, principalmente europee. In una nota dettagliata Modesto Emilio Guerriero segnala che dal 1999 in poi i paesi occidentali cominciarono a erogargli un trattamento speciale per tre buoni motivi che suonano come musica celestiale per i portafogli della borghesia[10]: (a) è un ottimo cliente; (b) è un buon socio delle loro imprese; (c) è un fornitore strategico di petrolio e gas. Ottimo cliente perché quando fu tolto l’embargo sulle armi che affliggeva la Libia (Ottobre 1999) per la sua partecipazione o complicità in azioni terroristiche in vari paesi, Spagna Italia, Inghilterra, e Germania divennero i suoi principali fornitori di armi da usare contro il suo popolo. Poco dopo circa 150 imprese petroliere britanniche, non ultima British Petroleum, responsabile della distruzione dell’ecosistema del Golfo del Messico, assieme a Repsol, alla francese Total, all’ENI italiana e alla OM austriaca, si installarono in Libia per sfruttarne gli idrocarburi. Altre imprese degli stessi paesi, e anche USA, parteciparono attivamente nei lavori di infrastruttura, oltre alla vendita di armi. Buon socio, perché tramite i 65 miliardi di dollari della Libyan Investment Authority la famiglia Gheddafi ha realizzato importanti investimenti nella FIAT, nell’ENI, ed è azionista della più grande banca italiana, Unicredit[11]. Possiede anche azioni del gruppo economico Pearsons, editore del giornale ultraliberale Financial Times. Varie grandi imprese francesi e tedesche hanno partecipazioni di capitali libici. Fornitore sicuro, infine, perché, come disse Silvio Berlusconi, le forniture affidabili di petrolio libico e il controllo della immigrazione “illegale” dal Maghreb e da tutta l’Africa, sono servizi di straordinaria importanza, che i leaders capitalisti apprezzano in tutto il loro valore. Il capo del governo spagnolo Josè M.Aznar, il suo successore Rodriguez Zapatero e lo stesso re di Spagna Juan Carlos rivaleggiarono col cavaliere italiano e il leader britannico , punto di riferimento del “new labor”, nel coltivare l’amicizia del leader libico, quasi sempre con risvolti scandalosi [12] In consonanza con questi cambiamenti, i rapporti con Washington mutarono di 180 gradi; nel 2006 Il Dipartimento di Stato tolse la Libia dalla lista dei paesi che appoggiavano il terrorismo. Intimorito dalla guerra del Golfo del 1991, e terrorizzato dalla sorte dell’Irak dal 2003, e dalla sorte di Saddam Hussein, Gheddafi esagerò il suo pentimento fino a estremi che oltrepassavano il ridicolo dichiarando ancora una volta la sua volontà di adeguare la condotta della Libia alle regole del gioco degli imperialisti. A causa di ciò la ex Segretaria di Stato Condoleeza Rice potè dichiarare che “ la Libia e gli Stati Uniti condividono interessi permanenti : la cooperazione nella lotta al terrorismo, il commercio, la proliferazione nucleare, l’Africa, i diritti umani e la democrazia” [13] Di fronte a questo occorre chiedersi: è questo il socialismo panarabo preconizzato nel Libro Verde dell’autoproclamato “leader e guida della rivoluzione”? E’ questa la politica della Jamahiriya, uno “stato delle masse”, come lo definì Gheddafi? E’ Gheddafi la controparte maghrebina di Fidel e Chavez? Che ha a che vedere questo regime coi processi di emancipazione in latinoamerica, per non parlare della rivoluzione cubana? Che fare? Che deve quindi fare la sinistra latinoamericana? In primo luogo, manifestare senza riserve la sua assoluta condanna della selvaggia repressione che Gheddafi perpetra contro il suo popolo. Solidarizzare, quali che siano le circostanze, con chi si macchia di tali crimini danneggerebbe irreparabilmente la credibilità e l’integrità morale della sinistra latinoamericana. Il riconoscimento della giustezza e della legittimità delle proteste popolari, senza riserve come in Tunisia ed Egitto, ha un unico corollario: l’allineamento dei nostri popoli col processo rivoluzionario in corso nel mondo arabo. Chiaro che il modo in cui si manifesta non potrà essere eguale per le forze politiche e i movimenti sociali e per i governi di sinistra dell’America Latina, che debbono necessariamente tener conto di aspetti ed impegni che le forze politiche non hanno. Ma anche le considerazioni della sempre complessa e a volte traditrice “ragion di stato” e le contraddizioni della “realpolitik” non possono far sì che i governi appoggino un dittatore incalzato dalla mobilitazione e dalla lotta del suo popolo, represso e oltraggiato mentre i suoi familiari e seguaci si arricchiscono oltre ogni limite. Come spiegare alle masse arabe, che per decenni hanno visto la chiave della loro emancipazione nelle lotte dei nostri popoli, e che riconoscono nel Che, in Fidel e in Chavez la personificazione dei loro ideali di libertà e democratici, l’indecisione dei governi più avanzati dell’America Latina, mentre la canaglia imperialista, Obama in testa, si schiera – pur ipocritamente- al lor fianco? In secondo luogo, sarà necessario denunciare e condannare i piani imperialisti USA e dei loro servi europei. E organizzare la solidarietà coi nuovi governi sorti dall’insurrezione araba. Gli stessi ribelli libici lo hanno chiaramente dichiarato: se gli USA invadono, con o senza la (poco probabile) copertura della NATO, gli insorti useranno i loro fucili contro gli invasori, e poi salderanno i conti con Gheddafi, principale responsabile della sottomissione della Libia alle potenze imperialiste. L’America Latina deve appoggiare con tutte le sue forze la resistenza all’eventuale invasione imperialista, cosciente che la posta in gioco in Nordafrica e Medio Oriente non è un problema locale, ma una battaglia decisiva nella lunga guerra contro la dominazione imperialista su scala mondiale. Il trionfo dell’insurrezione popolare libica rafforzerà le ribellioni in corso nello Yemen, Marocco, Giordania, Algeria, Bahrein e quella in incubazione in Arabia Saudita, oltre a rafforzare la resistenza dei sindacati e dei movimenti sociali nel Wisconsin, USA, e in diversi paesi europei, oggi vittime del FMI. Bahrein è la sede della Quinta Flotta USA, che ha la missione di monitorare tutto ciò che accade nel Golfo Persico e adiacenze; e l’Arabia Saudita è un regime totalmente sottomesso agli USA e gran regolatore del prezzo internazionale del petrolio e dei suoi rifornimenti al mondo sviluppato. Se cambia la mappa sociopolitica del mondo arabo, come speriamo, la geopolitica internazionale vedrà modificarsi i rapporti di forza a favore dei popoli e delle nazioni oppresse. E l’America Latina, che dalla fine del secolo passato si è collocata alla avanguardia della lotta antimperialista, avrà infine trovato gli alleati di cui ha bisogno in altre regioni del Sud del mondo, per continuare ad avanzare nelle sue lotte per l’autodeterminazione nazionale, la giustizia sociale e la democrazia. Per questo, la nostra regione non può e non ha diritto di sbagliare davanti ad un processo le cui conseguenze possono essere perfino maggiori di quelle del crollo dell’Unione Sovietica, con un segno preciso, il cui sviluppo rivoluzionario rafforzerà i processi di emancipazione in corso nella nostra regione. Abbandonare i nostri fratelli arabi in questa battaglia sarebbe un errore imperdonabile, sia dal punto di vista etico che da quello più specificamente politico. Sarebbe tradire l’internazionalismo del Che e di Fidel,e archiviare, forse definitivamente, gli ideali bolivariani. Non possiamo perdere questa opportuinità. ——————————————————————————– [1] “Veo hipócrita el llamado a la paz cuando proviene de países que hacen la guerra”, en Cubadebate, 4 de Marzo del 2011. [2] Intervista dell’autore a David Harvey, Settembre 2010. Disponibile in rete tra una settimana circa su www.atilioboron.com [3] ANSA, 25 febrero 2011 [4] Cfr. . Raúl Bracho, “¿Y si todo es mentira?”, en Kaos en la red, 3 de Marzo de 2011.Y tambén Russia Today, “ Ejército ruso afirma que ataques aéreos contra manifestantes en Libia nunca ocurrieron”, en Kaos en la red, 4 de Marzo de 2011. Il monitoraggio satellitare delle forze armate russe non ha trovato prove di bombardamenti aerei sui manifestanti di Bengasi e Tripoli il 22 Febbraio. Ne ha trovate, giorni dopo, nelle vicinanze degli impianti petroliferi e militari nell’Est del paese, come ha riconosciuto Saif Al-Islam Gheddafi ad Al Jazeera. Secondo il figlio del leader libico, sono state bombardate zone prive di popolazone civile o manifestanti. Nella stessa intervista ha ammesso che le forze di sicurezza hanno represso gli insorti con armi da guerra. [5] Santiago Alba Rico e Alma Allende “¿Qué pasa con Libia? Del mundo árabe a América Latina”, en Rebelión, 24 Febrero 2011. [6] La letteratura sulla genesi strutturale della rivolta araba cresce ogni giorno. Cfr., tra gli altri, James Petras “Las raíces de la revuelta árabe y las celebraciones prematuras”, en Rebelión, 6 de Marzo de 2011 e Ignacio Ramonet, “Cinco causas de la revolución árabe”, en http://www.monde-diplomatique.es/?url=editorial/0000856412872168186811102294251000/editorial/?articulo=8ca803e0-5eba-4c95-908f-64a36ee042fd [7] Vicenc Navarro, “Gadafi, neoliberalismo, el FMI y los gobiernos supuestamente defensores de los derechos humanos” , en Rebelión, 2 de Marzo de 2011. [8] Ibid. [9] Alba Rico y Allende, op.ci [10] Modesto Guerrero, “De las rebeliones árabes al indefendible Gadafi”, en Rebelión, 1 de Marzo de 2011. [11] Cfr. http://vocearancio.ingdirect.it/?p=18768 [12] Cfr “Day the LSE sold its soul to Libya”, en Daily Mail (Londres), 5 de Marzo de 2011, pp. 6-7 [13] Citato da Alba Rico y Alma Allende, op. Cit.

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