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150 anni d’Italia, tra retorica nazionalista e spinte centrifughe

Mentre le nostre strade vengono addobbate da bandiere tricolori, mentre in varie aree del paese c’è il rischio concreto che il crescente disagio sociale trovi forme e modalità di rappresentazione al rimorchio di interessi particolaristici e micro/territoriali, mentre nel nostro mare – il Mar Mediterraneo – torna a palesarsi la possibilità di un nuovo interventismo di chiaro stampo militarista e neo/colonialista ci sembra utile suonare un campanello d’allarme contro queste pericolose derive verso cui, anche inconsapevolmente, i lavoratori e i ceti popolari possono rimanere politicamente vittime.

Periodicamente – questa volta a ridosso delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia[i] – si accende il dibattito su “Dove va l’Italia?

Una discussione ritenuta, particolarmente da alcune teste d’uovo dei poteri forti, vieppiù urgente alla luce dell’accentuarsi di tutti i fattori (finanziari, economici e militari) su cui si fonda l’attuale scorcio della competizione globale a scala internazionale. Un dibattito il quale, mai come ora, osservando tutti gli indicatori statistici sullo stato di salute del capitalismo tricolore e dei suoi affaticati dispositivi istituzionali, è lontano dalle astratte dissertazioni della geopolitica ed è fortemente correlato con il futuro prossimo che l’Azienda/Italia e la sua forma statuale assumeranno obbligatoriamente nel prossimo periodo.

In tale contesto – dunque – si comprendono le ragioni teoriche e politiche per le quali, come forma organizzata della soggettività comunista e specificatamente come Rete dei Comunisti, abbiamo l’interesse ad elaborare un autonomo punto di vista il quale non solo dovrà rispondere alla necessità di definire un orientamento di fase analitico sempre più compiuto ma dovrà, possibilmente, anche sforzarsi di fornire e socializzare elementi utili alla quotidiana battaglia politica nei movimenti sociali ed oltre.

Qualche breve ma essenziale cenno storico.

Nel Medioevo l’Italia occupò una rilevante presenza nell’ambito del commercio mondiale. Gli stessi nascenti rapporti sociali capitalistici conobbero vigore con largo anticipo rispetto al resto dell’Europa ma non riuscirono a dotarsi di una linea di crescita equilibrata e continuativa. Nel contempo, però, alcune specificità di tipo geo-politiche (che non analizziamo in questo articolo) frenarono la formazione di uno stato unitario nazionale e il territorio italico rimase frammentato in varie entità micro statuali fino al 1870. In tale condizione la borghesia italiana risultò penalizzata rispetto agli altri grandi stati del continente che già iniziavano le avventure coloniali accrescendo la loro potenza commerciale e militare a scala globale.  Con tali tipo di premesse storiche e materiali la formazione dello stato unitario nazionale italico, nonostante il lungo Risorgimento, risultò ancora gravoso di una molteplicità di compromessi e di ritardi strutturali i quali – a vario titolo – ancora oggi sono percepibili analizzando la configurazione del capitalismo italiano e la ancora incompiuta piena maturità (imperialista) delle sue istituzioni.

Lo stesso fascismo, resosi conto di questa inadeguatezza, dopo aver distrutto le organizzazioni sociali e politiche del movimento operaio ed avviato le operazioni coloniali in Libia ed Etiopia, tentò di ritagliare un posto al sole per la borghesia italica nell’ambito del proscenio internazionale.

Ma i nuovi equilibri mondiali, scaturiti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dall’ascesa del nuovo imperialismo USA, si incaricarono di ridimensionare le ambizioni internazionali italiane ricollocando, di fatto, la nascente Repubblica Italiana sotto la forzata tutela atlantica..con le buone o con le cattive!

Uno sguardo all’enuclearsi delle tendenze leghiste e territoriali…..

Il miracolo politico compiuto dalla Lega Nord è stato l’aver colto la drammaticità della situazione agli inizi degli anni ‘90 quando a fronte delle difficoltà del corso del capitalismo italiano (fine dello status quo derivante dalla guerra fredda, crisi del sistema dei partiti post/resistenziali, la fase di Tangentopoli con annesso aumento spropositato dell’indebitamento delle finanze pubbliche) questa formazione si candidò, in un area strategica del sistema/paese, a rappresentare il malumore di alcuni settori sociali.

La formazione di Bossi seppe imporsi anche attraverso una strumentazione da partito pesante – con buona pace di quanti a sinistra teorizzavano e praticavano la distruzione/dissoluzione di qualsiasi elemento di unità politica ed organizzativa classista – in tutto il Nord riempiendo uno spazio politico che si apriva tra i ceti popolari ed operai i quali iniziavano ad avvertire i primi effetti della crisi economica e delle dinamiche sociali derivanti dall’incipiente globalizzazione di mercati, dei capitali e dall’approssimarsi del varo dell’Euro e dell’Unione Europea.

Per la Lega i settori popolari dovevano mobilitarsi per rivendicare una loro difesa (interclassista) a scala territoriale (la Padania o, ancora peggio, le micro aree regionali) contro il “centralismo” individuato, di volta in volta, a seconda della congiuntura politica ed economica imperante, nei “burocrati di Francoforte e della BCE”, “in Roma ladrona” o “nel Sud corrotto ed assistito”.

Con questo refrain il Carroccio ha costruito, nel tempo, il suo insediamento sociale in tutto il Nord, ben oltre gli steccati della mitica Padania, ed ha sancito una forte alleanza/convergenza con gli interessi del berlusconismo attraverso un complesso dispositivo fondato su un mix di accordi e di vere e proprie competizioni attorno ai temi del federalismo, della defiscalizzazione e della costante deregolamentazione di tutti gli istituti normativi tendenti all’equiparazione a scala nazionale(tra cui i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, i finanziamenti al Welfare e alle aree territoriali ritenute meno sviluppate…..)

Non è un caso, poi, che questi processi si siano andati agglutinando e consolidando in un involucro ideologico e culturale impasto di derive reazionarie e razziste il quale è servito ad enucleare e cementare una sorta di blocco sociale in cui si sono dilatate le vecchie connotazioni di classe che avevano segnato il ciclo politico italiano dei decenni passati ed informato, a vario titolo, la base di massa dei partiti della sinistra e della stessa ex Democrazia Cristiana.

Specularmente anche al Sud in forme meno visibili e meno eclatanti si sono addensati umori ed interessi materiali attorno ad un presunto meridionalismo d’assalto. Come al Nord anche nel Meridione d’Italia, oltre alla contrapposizione verso il Nord predone si sono andate diffondendo, in maniera spesso parossistica, fenomeni di contrapposizioni interregionali e campanilistici all’interno delle stesse aree territoriali del Sud.

In varie modalità le classi politiche locali – in forme trasversali agli stessi schieramenti politici che si rappresentano sul piano nazionale – hanno tentato di interpretare i mugugni sociali che si sono palesati a seguito dei processi di ristrutturazione, di riconversione e di riadeguamento che la struttura produttiva e l’intervento economico dello stato hanno compiuto in questi anni in sintonia con l’evolversi della crisi.

L’exploit del Sindaco Cito a Taranto, la stagione dei Sindaci/Governatori, la nascita delle varie Leghe Sud (anche se nessuna di esse a mai raggiunto la dimensione e l’autorevolezza politica della Lega di Bossi) fino ai recenti successi dell’MPA di Lombardo in Sicilia e delle varie formazioni politiche territoriali, come quella della Poli Bortone in Puglia, dimostrano che anche al Sud inizia a delinearsi una tendenza territorialista.

Del resto questo humus oggettivo ha pervaso anche la “sinistra” la quale – ieri con la stagione del bassolinismo in Campania ed oggi con alcuni toni interpretati da Nicki Vendola – è attraversata, e per taluni aspetti politicamente determinata, da queste pulsioni e spinte localiste.

Tra i pericoli effetti di queste tendenze vogliamo evidenziare quella perversa dinamica la quale se da un lato, negli anni, ha fatto crescere la diffidenza verso Roma o il “governo nazionale” a causa del crescente taglio ai finanziamenti centrali dall’altro ha reso disponibile il Sud ad offrire il massimo di flessibilità della forza lavoro e di condizioni vantaggiose per il capitale attraverso strumenti come i Contratti d’Area, i Patti Territoriali, le Zone Franche e l’apertura sconsiderata agli investitori stranieri.

Da questo punto di vista la vicenda dell’insediamento (..fin dal 1993) della Fiat a Melfi e le centinaia di concessioni (al ribasso) che le Amministrazioni regionali e locali meridionali, in maniera bipartizan, hanno concesso al padronato sono state e sono, a tutt’oggi, indicative di come le tendenze localiste, comunque declinate, sono destabilizzanti per le tenuta dignitosa delle condizioni legislative, economiche e politiche dei lavoratori e dei ceti popolari subalterni.

Ricordiamoci – inoltre – che lo stesso ultimo progetto di Marchionne per Pomigliano d’Arco (la distruzione del Contratto Nazionale e la formulazione della New/Co) è stato presentato come una eccezione valida solo per le particolari condizioni economiche e sociali del Sud salvo poi essere replicata, a distanza di pochi mesi, a Mirafiori e non solo.

Per la ripresa di un protagonismo sociale ed indipendente.

Da decenni, oramai, i comunisti – in Italia ed in tutto l’occidente capitalistico – non possono appellarsi a “Risorgimenti incompiuti” o immaginare fasi di “indipendenza nazionale” fuori ogni tempo storico logico. In tale quadrante analitico il nostro orientamento teorico e politico deve ispirarsi ed incardinarsi, necessariamente, in una prospettiva di fuoriuscita dal sistema capitalistico in una proiezione  –  di fatto – internazionale ed internazionalista.

Tentare di contrastare il fenomeno leghista al Nord e le variegate spinte localiste al Sud confidando su una difesa tout court dello stato nazionale o, peggio, come spesso hanno fatto la “sinistra” e i sindacati collaborazionisti, richiamandosi ai valori generali della patria e del tricolore è un ulteriore regalo che viene fatto alle tendenze disgregatrici ed antisociali in atto.

La stessa tragedia della dissennata esplosione della Jugoslavia è stata esemplificativa di come la messa in moto di alcune reali contraddizioni, sotto l’incipiente forcing della crisi, può approdare ad esiti sconvolgenti che travalicano anche le intenzioni iniziali dei soggetti in campo.

Una auspicabile e per certi aspetti possibile ripresa di un nuovo movimento operaio – in tutti i meandri della moderna accumulazione flessibile del capitale e nella nuova dimensione produttiva assunta delle aree metropolitane – è il solo antidoto, che da subito e tendenzialmente, può porre un argine ed interrompere queste spinte dissolutrici evitando la crescita speculare del nazionalismo, dello sciovinismo e di ogni retorica patriottarda.

O saremo in grado, nelle dinamiche della crisi e nella inevitabile contraddittorietà del conflitto sociale in ogni sua forma e manifestazione, di dimostrare materialmente, al Nord come al Sud, che le divisioni, le aggregazioni su basi territoriali e la frammentarietà delle normative vigenti sono un vantaggio per il capitale oppure i lavoratori e i ceti popolari saranno sospinti in una spirale di contrapposizioni e di concorrenza reciproca i cui esiti si annunciano rovinosi.

Quando, anche a commento dell’attuale stato di confusione e di estrema debolezza strategica dell’Azienda/Italia, evochiamo l’esperienza (tragica per il proletariato) della ex Jugoslavia o  ricordiamo le divisioni in Belgio e quelle consumatesi nelle altre nazioni lo facciamo senza pensare ad una modellistica fenomenologica che si può ripetere automaticamente e nelle stesse modalità.

Ogni vicenda di quelle citate presenta, comunque, tratti storici e strutturali diversi tra loro e, in ognuna di esse, i comunisti e le organizzazioni del movimento operaio hanno svolto ruoli e funzioni diversificate. Anzi in alcuni contesti la soggettività comunista non ha saputo prevedere  per tempo la allarmante maturità di una materia sociale incandescente ed è stata politicamente marginalizzata e messa fuori combattimento.

Ritornare – quindi – ad un bilancio serio di queste situazioni, ricordare il prezzo pagato in termini di salario, di diritti, di dignità che i lavoratori hanno pagato in quei contesti dove hanno prevalso le spinte nazionalistiche o, parimenti, quelle localistiche non è un vezzo storiografico ma è un utile lavorio per predisporre i coefficienti politici necessari ad una battaglia a tutto campo ben oltre le patinate celebrazioni dei 150 anni della formazione dello stato unitario nazionale d’Italia.

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