Ancora una volta, con tragica ipocrisia, la retorica umanitaria è usata per coprire una nuova guerra imposta dall’occidente contro la popolazione di un paese arabo, la Libia. E infatti si fa sempre più esplicita l’opposizione a questo intervento da parte della Lega araba, dell’Unione africana e adesso anche della Turchia!
Nonostante che da settimane ad una rivolta popolare, inizialmente senza armi, sull’onda di quanto avvenuto in Tunisia e Egitto, il governo di Gheddafi abbia risposto con bombardamenti e stragi, la comunità internazionale è restata immobile.
La risoluzione 1973 delle Nazioni Unite che formalmente pone al primo posto il “cessate il fuoco” e la difesa della popolazione civile, è non solo tardiva, ma ambigua, e ha aperto la strada a una operazione di guerra sotto la pressione di governi come la Francia e la Gran Bretagna, interessati a conquistarsi una presenza nell’area, e gli Stati Uniti, apparentemente più prudenti, avendo già l’esperienza fallimentare dell’Iraq e dell’Afghanistan e di fronte un Medio Oriente in rivolta.
Pedissequamente e irragionevolmente il governo italiano, mollato dalla Lega, che teme l'”invasione” dei profughi, ma sostenuto dall’opposizione, si lancia in una avventura bellica, dopo aver per anni fornito al governo di Gheddafi – oggi esecrato dittatore – ossequi, affari e grandi quantitativi di armi.
Sventolare la bandiera della difesa dei diritti umani della popolazione libica, attraverso interventi militari che inevitabilmente, data la natura del conflitto armato in corso, stanno superando la sola interdizione dello spazio aereo, mentre i diritti umani di migliaia di migranti sono da giorni calpestati nell’isola di Lampedusa, e ancor prima dal governo libico proprio su richiesta di quello italiano, è grottesco e offensivo, in primo luogo per la popolazione di quell’isola, oggi esposta anche alla paura di possibili rappresaglie dalla Libia e di tutto il nostro paese.
La marcia delle “rivoluzioni della dignità” arabe, in cerca di democrazia, libertà e giustizia sociale, una grande speranza del mondo, avrebbe meritato e meriterebbe dall’Europa, dalla Comunità internazionale tutta, ben altra attenzione, sostegno intelligente e iniziative appropriate, per poter avanzare, pur facendo le necessarie distinzioni tra le diverse realtà.
La Libia non è né la Tunisia né l’Egitto e la rivolta popolare si è rapidamente mescolata, prendendo le armi, a un conflitto di potere interno al regime. Questo nulla toglie al carattere dispotico e repressivo del regime di Gheddafi, e al bisogno di libertà di quella popolazione, ma va considerato.
Della indispensabile attenzione, con conseguente capacità di previsione, a quanto succede in tutta l’area mediterranea e medio orientale, non ci sono tracce, mentre la rivolta si estende. Il progetto del “grande Medio Oriente” sotto controllo statunitense, e regimi arabi alleati, a suo tempo lanciato da Bush, è stato sconfitto.
Lo stesso discorso di Obama al Cairo aperto e rispettoso dei popoli dell’Islam, ne era stato un segno.
Ma perché nasca un’alternativa a quel disegno deve potersi realizzare un percorso per la costruzione di democrazia e giustizia sociale a opera delle popolazioni in tutta l’area, che oggi ne stanno creando le condizioni, e che in primo luogo l’Europa dovrebbe avere la capacità e volontà di sostenere.
Le rivolte popolari che in queste ore sono sanguinosamente represse in paesi mediorientali, anche attraverso l’invio di truppe di altri paesi, come l’Arabia Saudita in Bahrein, che non ha sollevato alcuna reazione indignata, in Yemen, in Siria, rischiano di essere definitivamente stroncate. Delle manifestazioni dei giovani palestinesi a Gaza e nei territori occupati, che reclamano libertà, unità, democrazia, anch’esse represse, non se ne parla neanche.
In nome della indissolubile alleanza con Israele, da decenni si passa oltre i suoi massacri, i crimini di guerra, la violazione permanente dei diritti umani e del diritto internazionale.
C’è da aspettarsi che la “soluzione militare” del conflitto in Libia a sostegno di interessi occidentali, rappresenti un pessimo esempio per paesi, come Tunisia ed Egitto, in cui si sono avviati pacificamente, pur con un prezzo di sangue, processi di partecipazione popolare verso la democrazia e per condizioni di vita dignitose, ancora fragili ed esposti a rischi di regressione. La Comunità internazionale, mentre predica diritti umani e democrazia, permette che diversi governi, spinti da appetiti petroliferi, imbraccino le armi, che sono l’opposto di democrazia e giustizia.
Si poteva fare diversamente? Sì, la strumentazione e l’iniziativa diplomatica e politica, insieme a quella umanitaria, potevano – e vorremmo augurarci che ancora possano, evitando una disastrosa escalation – imprimere un andamento diverso all’azione della Comunità internazionale. Per ora non ci si è neanche provato, anzi c’è rissa su “chi comanda”.
Tocca, ancora una volta, a chi non ha potere, ai movimenti per la pace, per la giustizia sociale e quella ambientale, a chi è contro le guerre e il militarismo, a chi lavora vicino ai migranti, denunciare la illimitata ipocrisia della retorica umanitaria che ancora una volta alimenta la guerra, guardare con attenzione e sostenere il cammino impervio delle popolazioni arabe, reclamare dignità e accoglienza per i migranti, opporsi alla guerra.
* Ufficio internazionale Fiom
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