Sono ore tra le più difficili per lo Yemen, in cui dominano sdegno e rabbia per il massacro di 41 manifestanti anti-regime compiuto ieri nella capitale Sanaa da non meglio identificati «cecchini» appostati sui tetti. I feriti sono oltre 20, molti dei quali lottano tra la vita e la morte.
Sono tante le condanne per il bagno di sangue del «Venerdì dell’avvertimento» convocato dall’opposizione che chiede la fine del regime del presidente Ali Abdullah Saleh, al potere da 32 anni con la benedizione americana. Le critiche di Stati Uniti ed Unione europea, non si trasformano mai in atti concreti nel Golfo. Barack Obama condanna ma, come ha fatto dopo la sanguinosa repressione in Bahrein, non chiede l’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu contro Saleh, suo stretto alleato nella cosiddetta «lotta al terrorismo». Evidentemente per gli Stati Uniti la vita dei civili dello Yemen e del Bahrein vale meno di quelli della Libia.
Il regime yemenita fa di tutto per mostrarsi estraneo alla strage. Il despota Saleh, che si aggrappa al potere, ha assicurato che la polizia non ha sparato, ha parlato dei morti come dei «martiri della democrazia». Il presidente ha ammesso però la presenza di uomini armati sui tetti ma non ha saputo, o meglio voluto, precisare chi fossero. Per l’opposizione invece non ci sono dubbi: i cecchini erano membri dei corpi speciali del regime e miliziani fedeli al regime.
La strage di Sanaa aggrava la crisi nel Golfo, già segnata dalla sanguinosa repressione della rivolta popolare avvenuta in Bahrein, con l’intervento delle truppe del Consiglio di cooperazione del Golfo, in prevalenza formate da sauditi. A Manama ieri pomeriggio è stata rimosso su ordine delle autorità il monumento alla Perla nella rotonda teatro della protesta anti-regime delle settimane passate. Il ministro degli esteri, Khaled al Khalifa, ha annunciato che arriveranno altre «truppe del Golfo» e ha accusato il vicino Iran di «interferire negli affari interni» del Bahrein. E’ questa la strategia della monarchia assoluta bahrenita: trasformare la protesta per la libertà e l’uguaglianza fra tutti i cittadini, in un «complotto» di Tehran volto a sollevare le masse sciite contro i governanti sunniti.
Ma la tensione sale anche nel regno ultraconservatore dell’Arabia saudita che detta legge nella regione in linea, naturalmente, con gli interessi americani. Minacciato da appelli anti-governativi e raduni nelle province a maggioranza sciita, ieri re Abdullah ha annunciato che verranno triplicati gli aiuti già promessi ai suoi sudditi ma, al tempo stesso, anche un pesante rafforzamento degli organi di repressione, a cominciare dai 60.000 posti di lavoro in più nei servizi di sicurezza e dall’aumento degli stipendi agli agenti della «muttawa», la polizia religiosa. Dimenticate riforme, ha fatto capire Abdallah, scatenando in internet la rabbia dei giovani e di tutti coloro che chiedono la trasformazione profonda di un regno che esiste solo allo scopo di garantire immense ricchezze alla famiglia reale, dispensare briciole di benessere ai cittadini e assicurare forniture di greggio all’Occidente, possibilmente a costi contenuti. In queste ore sui social network sauditi rimbalzano gli appelli per una mobilitazione domani in piazza a Riyadh e in altre città.
(Fonte: Nena News)
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