Tra gli strumenti ideologici dell’egemonia liberista sull’Occidente ci stanno la pretesa della perfetta razionalità e della perfetta trasparenza del mercato e la pretesa che a ciò servano di supporto istituzioni tecniche di accertamento e anche decisionali. Il mostro antisociale, e persino antieconomico, rappresentato dall’Unione Europea, largamente gestito da strutture tecnocratiche, Commissione e Banca Centrale, è un buon esempio, con i suoi disastri e la sua tendenza al collasso, di come prima o poi vadano a finire le cose del liberismo. Un altro buon esempio sono i disastri antisociali e antieconomici combinati dalle “agenzie di rating”, la bufera in Europa e negli Stati Uniti. Il problema è: cui prodest? chi diavolo ci guadagna? Una sommaria analisi di che cosa effettivamente siano le agenzie di rating può aiutare a capire due cose: come di razionalità, sul piano stesso dell’economia, ci sia ben poco nelle istituzioni tecniche e di governo del liberismo, anzi come quest’ultimo non sia, istituzionalmente, politicamente e culturalmente, altro che una baracconata che è servita per vent’anni e tuttora serve a spremere reddito dal basso verso l’alto della scala sociale, in risposta ad appetiti di classe tanto smodati da giungere prima o poi (e oggi ci siamo) a compromettere le basi stesse produttive dell’economia dell’Occidente.
Intanto, che cos’è il rating. Si tratta di un metodo di analisi e di classificazione (da parte di analisti) che porta a un voto (da parte di un comitato di esperti) ai titoli di imprese, istituzioni finanziarie, soggetti pubblici (tra i quali gli stati) sulla base della loro rischiosità per quanti li acquistino, risparmiatori o “investitori istituzionali” (cioè speculatori di varia natura). Di norma i titoli emessi da uno stato sono titoli sul debito, servono cioè a rinnovarlo, evitando quindi crisi di insolvenza. Questo voto è espresso in lettere e altri segni. Più alto è il voto più affidabile è il titolo a cui è stato assegnato, e viceversa. La sua assegnazione porta quindi, per via di mercato, alla definizione di un “premio di rischio” più o meno elevato: i titoli con i voti migliori comporteranno un premio di rischio basso, e viceversa. I titoli “sovrani” (dello stato) di Germania, Stati Uniti e Cina, disponendo di un voto elevato, offrono agli acquirenti un premio basso (in compenso non comportano rischi significativi di perdita di valore e ancor meno di insolvenza); viceversa per quanto riguarda i titoli di Grecia e Portogallo. Concretamente questo significa, per esempio, che se il premio di rischio di Grecia e Portogallo si pone al 10% del valore dei titoli emessi, essi saranno dunque venduti al 90% del loro valore, quindi che quando questi titoli verranno a scadenza e gli acquirenti saranno rimborsati questi paesi dovranno esborsare il 10% di più di quanto a suo tempo incassato. Se, inoltre, il voto assegnato ai titoli di questi paesi è “declassato”, cioè abbassato, questo significa che le loro emissioni di titoli riescono a essere vendute solo portando il premio a oltre il 10% (sarà il mercato a decidere quanto oltre). Giova sottolineare che il mercato è dominato da grandi acquirenti sostanzialmente coalizzati e il cui scopo è di guadagnarci il più possibile, in altre parole che è un mercato “oligopsonio”, nel quale, cioè, sono gli interessi degli acquirenti a definire il livello del premio. Non a caso Grecia e Portogallo si trovano oggi a sprofondare in una palude senza via d’uscita, che non gli consente possibilità di ripresa economica e periodicamente li pone di fronte a una situazione di insolvenza, affrontabile solo con la “ristrutturazione” del loro debito (si tratta dell’analogo, per uno stato, di una procedura di fallimento) oppure con un rifinanziamento da parte dell’Unione Europea (ed eventualmente anche del Fondo Monetario Internazionale), a evitare che crolli l’euro e con esso l’Unione. Giova sottolineare, ancora, che usualmente i titoli che risentono del declassamento (quindi dell’aumento dei loro premi di rischio) sono quelli la cui scadenza è a breve (a sei mesi, a un anno): ma che quando si configurano situazioni come quella greca e quella portoghese anche i titoli a più lunga scadenza vedono quest’aumento.
Si dirà: non è colpa certo delle agenzie di rating se le cose vanno così, esse analizzando e dando voti a titoli fanno semplicemente il loro mestiere. Anzi si tratta di un mestiere benemerito: in ballo ci sono i soldi, direttamente o indirettamente, dei risparmiatori, quelli per il pagamento delle pensioni (negli Stati Uniti), ed è bene che tutti sappiano il rischio che si corre acquistando questo o quel tipo di titoli. Ma è proprio così? Intanto, cosa sono queste agenzie, che cosa fanno, chi le gestisce, con quali interessi suoi specifici, se ce ne sono?
Le agenzie di rating fondamentali sono solo tre: due statunitensi, Standard & Poor’s (il 40% circa del fatturato del totale di queste agenzie) e Moody’s (un altro 40% circa), e una statunitense-europea, Fitch Ratings (il rimanente 20% circa). Nel gergo ambientale, sono le “Tre sorelle”. Come lavorano. L’analisi delle varie emissioni di titoli (quindi della situazione di imprese, banche, amministrazioni locali, stati, ecc., dal punto di vista dell’andamento delle loro situazioni finanziarie: delle entrate, dei patrimonio, del debito, della solvibilità ecc.) è un lavoro di una certa complessità e onerosità. Esse quindi dispongono di apparati di specialisti, alcuni dei quali strapagati, in ragione della loro immagine di esperienza e competenza. Quest’immagine è importante. Queste agenzie sono, infatti, imprese capitalistiche private (poi vedremo bene) e, pur di fatto cooperando, operano in regime di reciproca concorrenza nell’attrarre e nel tenersi i clienti grossi. Infatti una parte rilevante del loro lavoro consiste in commesse loro affidate da imprese, banche, fondi di investimento, fondi pensione, assicurazioni, amministrazioni pubbliche (di città, regioni, ecc.), anche stati: i cui obiettivi sono, dimostrando a risparmiatori e a investitori istituzionali l’affidabilità dei propri titoli, di riuscire a piazzarli a premi di rischio bassi, oppure di garantire ai propri associati (per esempio a futuri pensionati) la propria solidità, quindi intendono acquistare titoli sicuri, benché a premio non particolarmente alto. Ma soprattutto le commesse vengono alle agenzie di rating da investitori istituzionali che dispongono di grandi liquidità (si tratta di fondi di investimento, assicurazioni, molte banche d’affari). Ciò immediatamente indica un primo problema: dato che questa è la clientela che più concorre al fatturato delle Tre sorelle (ammontabile a circa 1 miliardo di dollari l’anno), non converrà loro di avere un occhio di riguardo nella definizione dei voti alle emissioni di titoli di questa clientela, facendolo cioè il più alto possibile? Inoltre non converrà loro un tale occhio di riguardo nella definizione del voto alle emissioni dei titoli che questa clientela intende acquistare (per esempio della Grecia e del Portogallo), facendolo il più basso possibile?
Insomma ecco una prima cosa che fa pensare che tecnicità e obiettività delle agenzie di rating non siano sempre perfette: la presenza di un loro vistoso conflitto di interessi. Più saranno effettivamente obiettive nei loro voti riguardo ai loro maggiori clienti, più rischieranno di perderli a profitto di concorrenti. Business is business, bellezza.
Si trattasse solo di questo! Le agenzie di rating non si limitano a operare indagini e a dare voti su commissione: effettuano indagini anche a seguito di decisione propria. E non solo per venderne i risultati a qualche investitore istituzionale, indicandogli che cosa gli convenga acquistare o vendere o su cui farci qualche “prodotto derivato” (qualche emissione di titoli altamente speculativi, ergo a rischio però altamente lucrativi): ma anche in quanto le agenzie di rating sono esse stesse, di fatto, investitori istituzionali (poi vedremo cosa significa “di fatto”)! Hanno cioè esattamente le medesime convenienze della loro clientela più assidua a che determinati titoli vengano rivalutati o declassati.
Abbiamo già ipotizzato l’esistenza di un conflitto di interesse: adesso possiamo “ipotizzare” (è un evidente eufemismo) i reati di “aggiotaggio” e di “insider trading”. Per aggiotaggio si intendono il rialzo o il ribasso fraudolenti di prezzi, sul mercato o in borsa. Per insider trading si intende un’operazione su titoli da parte di un soggetto in grado di utilizzare una posizione vantaggiosa nell’accesso a informazioni riservate che li riguardino. Giova aggiungere che l’uno o l’altro o ambedue questi reati siano stati recentemente operati, con ogni probabilità, dalle agenzie di rating, a proprio vantaggio o a vantaggio di investitori istituzionali che sia, semplicemente facendo correre la voce di una possibile ristrutturazione da parte della Grecia del suo debito pubblico, cioè senza aver neppure fatto finta di effettuare un’analisi. Ancora, sono stati operati facendo correre la voce di una possibile declassazione dei titoli portoghesi. Ci sono norme negli Stati Uniti che impongono alle agenzie di rating di dare notizia dei voti sulle emissioni di titoli dopo che ne sia stata avviata la vendita, in modo da non alterarne eccessivamente l’andamento con l’aumento immediato e rilevante dei premi di rischio. C’è un’authority incaricata di vigilare all’osservanza delle regole. Ma basta fare correre una voce ad hoc, con l’ausilio magari di compiacenti giornali economici, che l’operazione speculativa va efficacemente in porto. La Procura di Lisbona ha dunque avviato una causa per pratiche abusive nei confronti delle Tre sorelle. E’ inoltre in corso un’indagine da parte della Commissione del Senato degli Stati Uniti sulle attività speculative illegali delle banche di affari nel periodo antecedente la crisi finanziaria del 2008. Gli Stati Uniti sono anche allarmati partire dalla Presidenza Obama, dall’eventualità (altra voce) di un declassamento dei loro titoli sovrani. Dato il livello del debito pubblico statunitense, l’aumento dei premi a rischio dei titoli di questo paese comporterebbe la catastrofe di gran parte dell’economia mondiale. La Commissione del Senato, infine, ha recentemente accusato la Goldman Sachs, una delle maggiori banche d’affari statunitensi, di aver mentito ai risparmiatori circa la solidità delle sue attività finanziarie, in combutta con l’agenzia di rating Standard & Poor’s. Qualcuno finirà in galera? Meglio che niente, speriamo.
Giova rammentare, pur rapidamente, sempre a proposito di tecnicità e obiettività delle agenzie di rating, come il 93% dei titoli da esse collocati nel 2006 al top della sicurezza per risparmiatori e investitori siano diventati, a seguito della crisi finanziaria del 2008, carta straccia. Giova rammentare i loro voti sui prodotti derivati USA garantiti dai mutui ipotecari, alla vigilia di questa crisi e i loro voti, precedentemente, sui titoli dell’Argentina alla vigilia del fallimento di questo stato. Si potrebbe continuare molto a lungo. Ex dirigenti delle Tre sorelle, pentiti o inquisiti, hanno definito non a caso “frode” le loro attività, le hanno definite un “oligopolio che accumula profitti grazie ai ruoli” assegnati loro “di arbitri” e al tempo stesso di “giudici senza appello”, “distributrici di passaporti falsi”, “incompetenti”, caratterizzate strutturalmente da “conflitti di interesse”, ecc.
Com’è possibile tutto questo? Com’è possibile che istituzioni con compiti così delicati e di grande portata in fatto di etica pubblica, oltre che di portata sociale, facciano queste cose? Ma il fatto è, come già accennato, che le Tre sorelle non sono istituzioni pubbliche bensì imprese capitalistiche private.
Non solo: imprese capitalistiche private la cui proprietà è nelle mani di fondi di investimento, cioè di imprese capitalistiche private la cui attività è sommamente e solamente speculativa. Standard % Poor’s ha come socio dominante la Mc Graw Hill e tra gli altri soci troviamo la Capital Word Investors e (ohibò), con il 7% complessivo della proprietà, società che ritroviamo anche tra i soci di Moody’s. Quest’ultima, a sua volta, è in mano a questi grandi fondi di investimento USA: Berkshire Hataway (il 13,4% della proprietà), Fidelity Management e Capital Research (ciascuna il 10%), Black Rock, State Street e Vanguard (ciascuna il 3% circa). Fitch Ratings, infine, appartiene al gruppo francese Fimalac e al gruppo editoriale statunitense Hearst (a proposito di voci ad hoc tramite stampa). Vero è che le agenzie di rating non possono operare direttamente, stando alla legge degli Stati Uniti, in veste fondi di investimento: ma i loro proprietari sì (per questo abbiamo scritto come esse siano investitori istituzionali “di fatto”, cioè come lo siano indirettamente), e le agenzie di rating prestano a loro consulenze così come a ogni altro investitore istituzionale. Non c’è nessuna incompatibilità. Va da sé, inoltre, che ogni obbligo di riservatezza sui risultati di determinate analisi è di ben ardua efficacia, anche ammettendo la buona fede, quando a operare nei comitati di esperti creati dalle agenzie di rating per l’assegnazione dei voti ai titoli che sono stati oggetto di tali analisi sono figure che siedono nei consigli di amministrazione o sono alle dipendenze o consulenti delle imprese finanziarie proprietarie delle agenzie di rating.
A monte di tutto quanto c’è l’orgia liberista di un ventennio e il fatto che nel suo percorso le operazioni finanziarie connesse alla produzione reale sono passate dal triplicare il valore di quest’ultima a esserne venti volte tanto. Ci sono quindi stati una gigantesca produzione di denaro (i titoli sono una forma di denaro) e, assieme, un gigantesco trasferimento di ricchezza verso gli attori imprenditoriali della speculazione. E c’è stato, prima di tutto, il fatto che a ciò hanno cooperato, creandone dapprima le condizioni e poi sorreggendole, i governi dell’Occidente. A seguito del disastro a cui ha portato questo ventennio, cioè della crisi finanziaria del 2008 e della sua immediata precipitazione in crisi economica generale delle economie dell’Occidente, c’è qualcosa che in questa parte del mondo o altrove si muova oggi a contrasto, in un modo qualsiasi? Delle inchieste negli Stati Uniti si è visto; difficile però che possano portare a risultati significativi. La Cina ha recentissimamente trasformato la sua riservatissima agenzia (pubblica) di rating (la Dagong, creata nel 1994 per rompere il monopolio informativo delle Tre sorelle) in un’agenzia che pubblica i suoi risultati. E’ considerata più attendibile delle Tre sorelle, ancorché sembri avere un occhio di riguardo verso i titoli made in China. L’Unione Europea ha costituito l’ESMA (European Security and Markets Authority, Autorità europea sui titoli e sui mercati), che sovraintenderà alle attività di rating, rilascerà patenti agli organismi, quale che ne sarà la natura, che intendessero realizzare tali attività nell’Unione, multerà quegli organismi, sino al 20% del fatturato, che commettessero illegalità. Più indietro è invece la costituzione, pur decisa da tempo, di un’agenzia di rating pubblica europea. Discussioni di approfondimento si susseguono l’una all’altra, come sempre nell’Unione quando una questione si scontri con grandi interessi privati. All’uopo giova far presente come, dentro al bailamme finanziario che continua ad agitare l’Unione, le banche d’affari tedesche e quelle britanniche si stiano impegnando alla grande nell’emissione di titoli speculativi ad alto rischio, profittando dei guai di Irlanda, Grecia, Portogallo, guardino con intenzioni non buone alla situazione della Spagna, inoltre a come, più in generale, l’euro continui a sobbalzare.
Fonte, newsletter www.controlacrisi.org
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