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Netanyahu e la soluzione ad un “unico Stato”

fonte: Al Jazeera

 

(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)

 

L’atteggiamento intransigente di Netanyahu non tiene conto degli attuali avvenimenti, e se la sua politica del rifiuto continua, si rafforzerà l’idea di una soluzione bi-nazionale, ad un “unico stato”.

[Gallo/Getty]

 

Martedì prossimo, il primo ministro Benjamin Netanyahu affronterà i legislatori statunitensi. Egli, senza dubbio, riferirà ai membri del Congresso di appoggiare una soluzione “a due Stati”, ma il suo appoggio si fonderà su quattro condizioni di negazione: no al completo ritiro di Israele entro i confini del 1967; no alla divisione di Gerusalemme; no alla diritto al ritorno dei profughi palestinesi; e no a una presenza militare palestinese nel nuovo Stato.

L’approccio di Netanyahu non è tanto problematico perché si ispira ad una visione delle questioni in posizione di totale rifiuto. Il problema non sta nemmeno sulla concezione distorta che Netanyahu ha della sovranità futura della Palestina, che Meron Benvenisti in modo opportuno ha descritto come “frammentata e dispersa, priva di qualsiasi infrastruttura fisica coesiva, senza alcun collegamento diretto con il mondo esterno, e con una responsabilità che si limita all’altezza dei suoi edifici residenziali e alla profondità delle sue tombe. Lo spazio aereo e le risorse idriche resteranno sotto il controllo israeliano …”

Piuttosto, il vero problema è che la prospettiva di Netanyahu è totalmente staccata dagli attuali sviluppi politici, in particolare dai rapporti di potere che stanno cambiando sia in Medio Oriente che nel resto mondo.

Infatti, il suo approccio è totalmente anacronistico. La minaccia non-così-implicita di Netanyahu che Israele continuerà il suo progetto coloniale se i Palestinesi non accetteranno una sorta di “soluzione Bantustan”, non ha più alcun peso. I due popoli hanno già superato questa congiuntura.

I Palestinesi hanno chiaramente dichiarato che non si prostrarranno a tali intimidazioni, ed è ormai chiaro che il conflitto ha raggiunto un punto di incrocio completamente nuovo.

A questo nuovo incrocio ci sono due segnali. Il primo punta verso occidente e vi si legge “unica e vitale soluzione a due Stati”, mentre il secondo punta verso oriente e vi si legge “condivisione del potere”.

Il primo segnale è ispirato da anni di negoziati politici (dalla conferenza di Madrid nel 1991, passando per Oslo, Camp David, Taba, e Annapolis), accompagnati dalla pubblicazione di diverse iniziative (dall’Iniziativa di Ginevra, al Piano Saudita, al Piano Ayalon- Nusseibeh), i quali hanno messo in evidenza tutto ciò che si dovrebbe rendere necessario per raggiungere un accordo di pace basato sulla soluzione a “due Stati”.

 

[N.d.tr.: L’Iniziativa o Accordo di Ginevra del 2003 è una proposta di pace extra-governativa e non ufficiale, volta a risolvere il conflitto israelo-palestinese. Essa concederebbe ai Palestinesi la quasi totalità della Cisgiordania, la Striscia di Gaza e parte di Gerusalemme, tracciando i confini di Israele vicino a quelli precedenti alla guerra dei Sei Giorni. In cambio della rimozione della maggior parte delle colonie israeliane in tali aree, i Palestinesi limiterebbero il proprio diritto al ritorno dei profughi in Israele ad un numero stabilito da Israele, e farebbero cadere ogni altra rivendicazione verso Israele.

 

Il cosiddetto “Piano Saudita”, approvato al vertice della Lega Araba di Beirut il 27 marzo 2002, è un’ipotesi di soluzione del conflitto che in sostanza chiede a Israele tre cose (trovo opportuno riportare commenti di fonte israeliana!):
a) che si ritiri totalmente sulle linee pre-67.

Commento: non è previsto alcun aggiustamento, né in un senso né nell’altro, di un confine che resterebbe per sempre tracciato non da negoziati, ma dalla irrazionale linea di cessate-il-fuoco degli armistizi del 1949. Si desume che Gerusalemme tornerebbe ad essere una città divisa, come una sorta di Berlino mediorientale. A sottolineare la rigidità di questo punto, viene esplicitamente citato il ritiro completo dalle alture del Golan (senza riferimenti a garanzie su sicurezza e fonti idriche);

b) che patteggi una “giusta soluzione del problema dei profughi palestinesi in conformità alla risoluzione 194 dell’Assemblea Generale dell’Onu”.

Commento: si tratta, nel lessico della diplomazia araba, del cosiddetto “diritto al ritorno” all’interno di Israele dei profughi e dei loro discendenti anche dopo la nascita di uno Stato palestinese. In altri termini, il “diritto all’invasione” demografica di Israele o, se si preferisce, alla sua “palestinizzazione”: non più “due stati per due popoli”, bensì “due stati per un popolo solo, quello palestinese”. Il cosiddetto diritto al ritorno, nota Martin Sherman (Yet News, 9.03.06), comporterebbe il passaggio sotto giurisdizione israeliana di milioni di Palestinesi, che oggi vivono sotto governi arabi. Una rivendicazione che, oltre ad essere incompatibile con la soluzione “due popoli-due stati”, è in lampante contraddizione con l’asserito desiderio dei Palestinesi di autogovernarsi, affrancati dal “dispotico dominio israeliano”. Pretesa sorprendente dunque, continua Sherman, a meno di ammettere che il vero obiettivo non sia tanto garantire ai Palestinesi l’autogoverno, quanto negarlo agli Ebrei.
c) che accetti “uno Stato palestinese sovrano e indipendente su tutti i territori occupati dal 4 giugno 1967 in Cisgiordania e Striscia di Gaza, con Gerusalemme est come capitale”.
Dopodiché i paesi arabi si impegnerebbero: a) “a considerare terminato il conflitto arabo-israeliano e ad aderire a un accordo di pace con Israele, che offra sicurezza a tutti gli stati della regione”; b) “a stabilire normali relazioni con Israele nel contesto di questa pace complessiva”.

 

La proposta Ayalon-Nusseibeh, del 2003, basata su un ritiro totale di Israele dai Territori Occupati (eccezion fatta per la “grande Gerusalemme”, nella cui municipalità è stato inglobato circa un terzo della Cisgiordania) in cambio di un impegno palestinese a rinunciare al diritto al ritorno dei profughi.]

 

Questi i tre elementi centrali:

a) completo ritiro di Israele all’interno dei confini del 1967, con possibile scambio paritario di terreno, in modo che, in conclusione, la quantità totale di terreno occupata in precedenza verrà restituita.

b) ripartizione di Gerusalemme in base ai confini del 1967, con scambi di terreno per garantire che ciascuna parte abbia il controllo su propri siti religiosi e su quartieri di grandi dimensioni. Entrambe queste clausole comporterebbero lo smantellamento degli insediamenti israeliani e il ritorno dei coloni ebrei in Israele.

c) riconoscimento del diritto al ritorno di tutti i Palestinesi, ma con la stipula seguente: mentre tutti i Palestinesi saranno in grado di tornare allo Stato nascente palestinese, solo ad un numero limitato concordato tra le due parti sarà permesso di tornare in Israele; quelli che non possono esercitare questo diritto o, in alternativa, non sono messi in grado di scegliere, riceveranno un risarcimento integrale.

La riluttanza costante di Israele a sostenere pienamente queste tre componenti sta rapidamente portando all’annullamento dell’opzione a “due Stati” e, di conseguenza, sta lasciando aperta un’unica possibile direzione futura: la condivisione del potere.

Il concetto di “condivisione del potere” comporterebbe il mantenimento delle frontiere esistenti, dalla valle del Giordano al Mar Mediterraneo, e un concordato sulla formazione di un governo di condivisione del potere guidato da Ebrei israeliani e Palestinesi, e sulla base del modello della democrazia liberale della separazione dei poteri.

Questo comporta anche una parità di valutazione – e cioè, l’idea che ogni parte rispetti della controparte l’identità e l’ethos, tra cui la lingua, la cultura e la religione.

Per dirla semplicemente, questa è la soluzione ad un “unico Stato”, bi-nazionale.

Molti Palestinesi si sono resi conto che, anche se attualmente si trovano sotto occupazione, la posizione di rifiuto di Israele ineluttabilmente porterà alla soluzione bi-nazionale. E mentre Netanyahu è ancora ben lontano dagli avvenimenti congiunturali del momento, è arrivato il tempo per un Risveglio Ebraico Israeliano e Statunitense, che costringa i loro rispettivi leader a sostenere un futuro democratico vitale per Ebrei e Palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Un futuro democratico che porrà fine al conflitto violento.

23 maggio 2011

Neve Gordon è l’autore di “Israel’s Occupation” e può essere contattato al suo sito web www.israelsoccupation.info

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