L’anno 2011 si è aperto con una serie di fragorose esplosioni di collera dei popoli arabi. Questa primavera araba avvierà una seconda fase del “risveglio del mondo arabo”? O forse queste rivolte segneranno il passo, e alla fine abortiranno – come è già avvenuto nel caso della prima fase di questo risveglio, come rievocato nel mio libro “L’éveil du Sud” ?
Nella prima ipotesi, i progressi del mondo arabo vanno ad iscriversi necessariamente nel movimento di superamento del capitalismo / imperialismo su scala mondiale.
L’insuccesso manterrebbe il mondo arabo nella sua condizione attuale di periferia dominata, impedendogli di ergersi al rango di attore attivo nel plasmare il mondo.
È sempre pericoloso fare delle generalizzazioni quando si parla di “mondo arabo”, ignorando così la diversità delle condizioni oggettive che caratterizzano ogni paese di questo mondo. Per questo, concentrerò le mie riflessioni sull’Egitto, di cui non è difficile riconoscere il ruolo chiave che questa nazione ha sempre rivestito nell’evoluzione generale della regione.
L’Egitto è stato il primo paese della periferia del capitalismo mondializzato che ha tentato di “emergere”.
Ben prima del Giappone e della Cina, all’inizio del diciannovesimo secolo, Mohammed Ali aveva concepito e messo in attuazione un progetto di rinnovamento dell’Egitto e dei paesi immediatamente suoi vicini del Mashrek arabo. Questa notevole esperienza ha occupato i due terzi del diciannovesimo secolo ed è andata via via affievolendosi durante la seconda metà del regno del
Khedivè Ismail, nel corso degli anni 1870.
L’analisi del suo fallimento non può ignorare la violenza dell’aggressione esercitata dall’esterno da parte della potenza del capitalismo industriale egemone all’epoca – la Gran Bretagna.
Per due volte, nel 1840, poi negli anni 1870, con l’assunzione del controllo delle finanze dell’Egitto khedivale, infine mediante occupazione militare (nel 1882), l’Inghilterra ha con tenacia perseguito il suo obiettivo: la sconfitta della nascita di un Egitto moderno.
Senza dubbio, il progetto egiziano presentava dei limiti, quelli che contraddistinguevano un’epoca, in quanto si trattava chiaramente di un progetto di emergenza nell’ambito e per il capitalismo, a differenza del progetto del secondo tentativo egiziano (1919-1967), sul quale ritornerò più avanti. Senza dubbio, le contraddizioni sociali insite in questo progetto, come le concezioni politiche, ideologiche e culturali in base alle quali il progetto si dipanava, hanno avuto la loro parte di responsabilità in questo insuccesso. Resta il fatto che, senza l’aggressione dell’imperialismo, queste contraddizioni avrebbe potuto probabilmente essere superate, come suggerisce l’esempio giapponese.
Allora, l’Egitto emergente sconfitto ha dovuto subire per quasi quarant’anni (1880-1920) la condizione di periferia dominata, le cui strutture sono state rifoggiate per servire il modello di accumulazione capitalista / imperialista dell’epoca. La regressione imposta ha colpito, al di là del sistema produttivo del paese, le sue strutture politiche e sociali, e si è adoperata a rinforzare sistematicamente concezioni ideologiche e culturali retrograde e reazionarie, utili per mantenere il paese in uno status di subalternità.
L’Egitto, vale a dire il suo popolo, le sue élite, la nazione che rappresenta, non ha mai accettato questo status. Questo rifiuto ostinato sta perciò all’origine di una seconda ondata di movimenti crescenti che si sono dipanati nel corso del successivo mezzo secolo (1919-1967).
Effettivamente, io leggo questo periodo come un momento continuo di lotte e di avanzamenti importanti. L’obiettivo era triplice: democrazia, indipendenza nazionale, progresso sociale. Questi tre obiettivi – quantunque fossero limitate, e a volte confuse, le formulazioni – sono inseparabili gli uni dagli altri. Infatti, l’interconnessione di questi obiettivi non è altro che l’espressione degli effetti dell’integrazione dell’Egitto moderno nel sistema del capitalismo / imperialismo mondializzato dell’epoca.
Secondo questa lettura, il capitolo aperto dalla cristallizzazione nasserista (1955-1967) rappresenta solamente l’ultimo capitolo di questo lungo momento di marea montante di lotte, inaugurato dalla rivoluzione del 1919-1920.
Il primo momento di questo mezzo secolo dell’insorgere delle lotte per l’emancipazione dell’Egitto aveva posto l’accento – con la costituzione del Wafd nel 1919 – sulla modernizzazione politica, mediante l’adozione di una forma borghese di democrazia costituzionale e sulla riconquista dell’indipendenza.
[N.d.tr.: il Wafd rappresenta il principale partito politico egiziano tra le due guerre mondiali. Fondato nel 1919 da Saad Zaghlul come delegazione (in arabo wafd) di patrioti con l’incarico di illustrare alle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale le aspirazioni indipendentistiche dell’Egitto, si trasformava poi in un vero e proprio partito, diretto, dopo la morte di Zaghlul (1927), da Mustafa Nahas. Partito della borghesia nazionale e, sostenuto dalle masse urbane e rurali, ha lottato decisamente per conquistare all’Egitto la piena sovranità. È stato al governo e all’opposizione, e a momenti di aperto scontro con gli inglesi ne ha alternato altri di convinta collaborazione. Durante la Seconda guerra mondiale ha sostenuto la causa degli alleati. Non ha saputo mai rompere con il moderatismo, e in ogni caso è stato sempre pronto a piegarsi ai ricatti delle forze più conservatrici. Nel 1952 la rivoluzione nasseriana lo ha eliminato dalla scena politica, ma ne ha realizzato l’obiettivo principale: l’evacuazione delle truppe britanniche dall’Egitto.]
La forma democratica immaginata permetteva un avanzamento laicizzante – se non proprio laico nel senso radicale del termine – e la bandiera del Wafd (associando la mezzaluna e la croce – una bandiera che ha fatto la sua riapparizione durante le manifestazioni del gennaio e febbraio 2011) ne costituisce il simbolo. Infatti, elezioni “normali” consentivano non solamente ai Copti di essere eletti da maggioranze musulmane, ma perfino a questi stessi Copti di ricoprire altissimi incarichi statali, senza per questo suscitare problemi di sorta.
La potenza britannica, con il sostegno attivo del blocco reazionario costituito dalla monarchia, dai grandi proprietari e dai ricchi latifondisti, ha impegnato tutta se stessa per fare arretrare le conquiste democratiche dell’Egitto wafdista.
La dittatura di Sedki Pacha, negli anni 1930 (abolizione della costituzione democratica del 1923) ha cozzato contro il movimento studentesco, punta di lancia all’epoca delle lotte democratiche anti-imperialiste. Non è un caso che, per ridurre il rischio di queste lotte, l’ambasciata britannica e la Corte Reale abbiano poi appoggiato attivamente la creazione dei Fratelli Musulmani (1927), che si ispiravano al pensiero “islamista” nella sua versione “salafita” (fondamentalista) wahabita formulata da Rachid Reda, vale a dire la versione più reazionaria (antidemocratica e contro il progresso sociale) del nuovo “Islam politico”.
In conseguenza della conquista dell’Etiopia intrapresa da Mussolini, e profilandosi all’orizzonte la prospettiva di un conflitto mondiale, Londra si è trovata obbligata a fare concessioni alle forze democratiche, permettendo nel 1936 il ritorno del Wafd e sottoscrivendo in quello stesso anno un Trattato anglo-egiziano – con un Wafd tutto sommato reso “più giudizioso”.
La Seconda guerra mondiale, per forza di cose, ha costituito una sorta di parentesi. Ma il flusso crescente di lotte riprende il 21 febbraio 1946 con la costituzione di un blocco lavoratori-studenti, rinforzato nella sua radicalizzazione dall’entrata in scena dei comunisti e del movimento operaio. Ancora una volta, le forze della reazione egiziana sostenute da Londra hanno reagito con violenza e hanno mobilitato a questo scopo i Fratelli Musulmani, che hanno sostenuto una seconda dittatura di Sedki Pacha, comunque senza riuscire ad imporre il silenzio al movimento.
Il ritorno del Wafd al governo, la sua denuncia del Trattato del 1936, i primi movimenti di guerriglia nella zona del Canale ancora occupato, ebbero come risposta l’incendio del Cairo
(gennaio1952), un’operazione che vedeva coinvolti i Fratelli Musulmani.
[N.d.tr.: I tre anni dal 1949 al 1951 furono radicali, molto importanti, perché la rivoluzione, quella che chiamiamo la rivoluzione di luglio del 1952, giunse grazie alle dimostrazioni contro il re Faruq, contro gli Inglesi, contro la schiavitù, contro la povertà. Tanti studenti venivano uccisi; molti entrarono nel movimento di liberazione nel Canale di Suez. Nel gennaio 1952 la città del Cairo venne incendiata. Si attribuì l’incendio ai Britannici, al re e alla Fratellanza Musulmana, che però accusarono di avere dato fuoco alla città l’opposizione, gli studenti e i partecipanti alle dimostrazioni, per poter bloccare la guerriglia incipiente nel Canale di Suez e fermare i fermenti rivoluzionari.]
Il primo colpo di Stato dei Liberi Ufficiali (1952), ma soprattutto il secondo, inaugurando l’assunzione al potere da parte di Nasser (1954) sono arrivati a “coronamento” di questo periodo di flusso continuo di lotte, secondo alcuni, o per porvi un termine, secondo altri.
A questa lettura, che io propongo, del risveglio egiziano, il nasserismo ha sostituito un discorso ideologico che tendeva ad annullare tutta la storia degli anni 1919-1952, per fare risalire la “rivoluzione egiziana” immediatamente al luglio 1952.
A quel tempo, molti fra i comunisti avevano denunciato questo discorso e analizzato i colpi di Stato del 1952 e 1954 come destinati a porre fine alla radicalizzazione del movimento democratico.
Non avevano torto, dato che il nasserismo si è cristallizzato come progetto anti-imperialista solo dopo la Conferenza di Bandung (aprile 1955).
Solo dopo, il nasserismo ha preso consapevolezza di ciò che poteva produrre: una posizione internazionale risolutamente anti-imperialista (in associazione con i movimenti panarabo e panafricano), riforme sociali progressiste (ma non “socialiste”). Il tutto calato dall’alto, non solamente in “assenza di democrazia” (impedendo alle classi popolari il diritto di organizzarsi al loro interno e per loro stesse), ma con l’“abolizione” di qualsiasi forma di vita politica.
Il vuoto creato richiamava l’Islam politico a riempirlo. Il progetto esauriva così le sue potenzialità di progresso in un tempo breve – un decennio, dal 1955 al 1965.
L’affannosa perdita di carica offriva all’imperialismo, capeggiato ormai dagli Stati Uniti, l’occasione di spezzare il movimento, mobilitando a questo scopo il suo strumento militare nella regione: Israele.
La sconfitta del 1967 marca la fine di questo mezzo secolo di flussi progressisti. Comunque, il riflusso era stato innescato dallo stesso Nasser, scegliendo la via delle concessioni a destra – (“l’infitah” – l’apertura, da intendersi come apertura alla “mondializzazione capitalista”), piuttosto che la radicalizzazione delle riforme per cui si battevano, fra gli altri, gli studenti (il cui movimento occupa il centro della scena nel 1970, poco prima e dopo la morte di Nasser).
Il suo successore Sadat accentua la portata della deriva a destra, e integra i Fratelli Musulmani all’interno del suo nuovo sistema autocratico. Mubarak continua nella stessa direzione.
Il periodo di riflusso che segue (1967-2011) copre a sua volta quasi mezzo secolo.
L’Egitto, sottomesso alle esigenze del liberismo mondialista e alle strategie degli Stati Uniti, ha cessato di esistere come attore attivo nella regione, ed internazionalmente. Nella regione, gli alleati più importanti degli Stati Uniti – l’Arabia Saudita ed Israele – occupano le prime posizioni.
Con questo, Israele può impegnarsi nel cammino dell’espansione della sua colonizzazione della Palestina occupata, con la tacita complicità dell’Egitto e dei Paesi del Golfo.
L’Egitto di Nasser aveva impostato un sistema economico e sociale criticabile ma coerente. Nasser aveva scommesso sull’industrializzazione, per far uscire il paese dalla specializzazione internazionale coloniale che lo aveva relegato al ruolo di esportatore di cotone.
Questo sistema assicurava una ripartizione della ricchezza favorevole alle classi medie in espansione, senza un impoverimento delle classi popolari.
Sadat e Mubarak si sono adoperati per smantellare il sistema produttivo egiziano, che hanno sostituito con un sistema totalmente incoerente, esclusivamente fondato sulla ricerca del profitto per le imprese, che in prevalenza non sono altro che subappaltatrici del capitale dei monopoli imperialisti.
I tassi di crescita egiziani, che si pretendono elevati, magnificati per trent’anni dalla Banca mondiale, non hanno alcun significato. La crescita egiziana è estremamente vulnerabile, ed inoltre è stata accompagnata da un aumento incredibile delle disuguaglianze e da una disoccupazione che ha colpito la maggioranza dei giovani. Questa situazione era veramente esplosiva; ed è esplosa!
L’apparente “stabilità del regime”, tanto decantata da Washington, poggiava su una macchina poliziesca mostruosa (1.200.000 uomini contro i soli 500.000 dell’esercito), dedita ad abusi di potere criminali quotidiani.
Le potenze imperialiste pretendevano che questo regime “stesse proteggendo” l’Egitto dall’alternativa islamista. Ebbene, si trattava di una grossolana menzogna.
Infatti, il regime aveva perfettamente integrato l’Islam politico reazionario (il modello wahabita del Golfo) nel suo sistema di potere, concedendogli la gestione dell’istruzione, della giustizia e dei media più importanti (in particolare, della televisione). Il solo discorso autorizzato era quello delle moschee affidate ai salafiti, permettendo loro per di più di apparire come i rappresentanti di una “opposizione” presente nel paese.
La doppiezza cinica del discorso della dirigenza degli Stati Uniti ( e su questo piano, Obama non è diverso da Bush) giova perfettamente al conseguimento dei loro obiettivi. In buona sostanza, il sostegno assegnato all’Islam politico annichilisce le capacità della società di affrontare le sfide del mondo moderno (questo sta all’origine del declino catastrofico dell’istruzione e della ricerca), nel contempo la denuncia occasionale degli “abusi” di cui questo Islam è responsabile (ad esempio, le uccisioni di Copti) serve a legittimare gli interventi militari di Washington, impegnato nella cosiddetta “guerra contro il terrorismo”.
Il regime poteva apparire “tollerabile” fin tanto che funzionava la valvola di sfogo rappresentata dall’emigrazione in massa dei poveri e delle classi medie verso i paesi petroliferi. L’esaurimento di tale sistema (la sostituzione di immigrati asiatici a quelli provenienti da paesi arabi), ha guidato la rinascita delle resistenze. Gli scioperi operai del 2007 – i più forti nel continente africano dopo 50 anni –, la resistenza ostinata dei piccoli contadini minacciati di espropriazione dal capitalismo agrario, la formazione di circoli di protesta democratica nelle classi medie (i movimenti Kefaya e del “6 aprile”) annunciavano l’inevitabile esplosione – attesa in Egitto, ma che ha preso di sprovvista gli “osservatori stranieri”.
Dunque, siamo entrati in una nuova fase di flussi di lotte di emancipazione, di cui noi dobbiamo analizzare le direzioni e le possibilità di sviluppo.
Le componenti del movimento democratico
La “rivoluzione egiziana” in corso illustra la possibilità della fine annunciata del sistema “neoliberista”, rimesso in discussione in tutte le sue dimensioni politiche, economiche e sociali. Questo movimento gigantesco, che vede in azione il popolo egiziano, associa tre componenti attive: i giovani “ri-politicizzati” per loro stessa volontà e nelle forme “moderne” che essi hanno inventato, le forze della sinistra radicale, e quelle che si raccolgono dalle classi medie democratiche.
I giovani (circa un milione di attivisti) hanno costituito la punta di lancia del movimento. Immediatamente sono stati raggiunti dalla sinistra radicale e dalle classi medie democratiche.
I Fratelli Musulmani, i cui dirigenti avevano lanciato appelli a boicottare le manifestazioni durante i primi quattro giorni (persuasi che sarebbero state oggetto di pesanti repressioni), hanno accettato il movimento solo tardivamente, quando il richiamo a scendere in piazza, esteso a tutto il popolo egiziano, ha prodotto mobilitazioni gigantesche di 15 milioni di manifestanti.
I giovani e la sinistra radicale perseguono tre obiettivi comuni: la restaurazione della democrazia (la fine del regime militare e poliziesco), la messa in opera di una nuova politica economica e sociale in favore delle classi popolari (la rottura con la sottomissione alle esigenze del liberismo mondializzato), e l’implementazione di una politica internazionale indipendente (la rottura con la sottomissione alle esigenze dell’egemonia degli Stati Uniti e del dispiegamento del suo controllo militare sul pianeta).
La rivoluzione democratica a cui fanno riferimento è una rivoluzione democratica anti-imperialista e sociale. Benché il movimento dei giovani si diversifichi nella sua composizione sociale e nelle sue espressioni politiche ed ideologiche, nel suo insieme si colloca a “sinistra”. Ne sono testimonianze le manifestazioni di simpatia spontanee e decise nei confronti della sinistra radicale.
Nel complesso, le classi medie si raccolgono attorno al solo obiettivo della democrazia, senza necessariamente mettere integralmente in discussione il “mercato” (così come si presenta) e l’allineamento internazionale dell’Egitto.
Non si deve ignorare il ruolo di un gruppo di blogger che partecipano – consapevolmente o no – ad un autentico complotto organizzato dalla CIA. I suoi animatori sono per lo più giovani provenienti dalle classi agiate, americanizzati al massimo, che si atteggiano nientemeno che da “contestatori” delle dittature al potere. Il tema della democrazia, nella versione imposta dalla manipolazione di Washington, domina i loro interventi sulla “rete”. Di fatto, costoro partecipano alla catena di agenti delle controrivoluzioni orchestrate da Washington, travisate da “rivoluzioni democratiche”, sul modello delle “rivoluzioni colorate” nell’Europa dell’Est.
Ma sarebbe un errore arrivare alle conclusioni che questo complotto sta all’origine delle rivolte popolari. La CIA tenta sicuramente di rovesciare il senso del movimento, di distogliere i militanti dai loro obiettivi di trasformazione sociale progressista, e di deviarli su altri terreni.
Le possibilità di successo del complotto diventeranno serie se il movimento si arenasse sulla costruzione della convergenza delle sue diverse componenti, nell’identificare gli obiettivi strategici comuni e nell’inventare forme di organizzazione e di azione efficaci.
Sono noti esempi di questi fallimenti, come nelle Filippine e in Indonesia. È interessante sottolineare a questo proposito che i nostri blogger, che si esprimono in inglese piuttosto che in arabo ( !), partiti alla difesa della “democrazia” – all’usamericana – spesso sviluppano, in Egitto, argomenti per legittimare i Fratelli Musulmani.
L’appello a manifestare formulato dalle tre componenti attive del movimento è stato rapidamente recepito da tutto il popolo egiziano. La repressione, caratterizzata nei primi giorni da una violenza estrema (più di mille morti), non ha scoraggiato per nulla questi giovani e i loro alleati (che mai, in nessun momento, hanno chiamato in loro soccorso le potenze occidentali, come abbiamo potuto osservare altrove). Il loro coraggio è stato l’elemento decisivo che ha trascinato nella protesta, attraverso i quartieri delle grandi e piccole città, perfino dei villaggi, un quindicina di milioni di manifestanti, per giorni e giorni (qualche volta anche per notti intere).
Questo successo politico folgorante ha prodotto i suoi effetti: la paura ha cambiato di campo; Hillary Clinton e Obama hanno scoperto allora che conveniva abbandonare al suo destino Mubarak, che avevano sostenuto fino a quel momento, mentre i comandanti dell’esercito uscivano dal silenzio, rifiutandosi di partecipare alla repressione – salvaguardando così la loro immagine – e alla fine deponevano Mubarak e alcuni dei suoi più stretti collaboratori.
L’allargamento del movimento all’insieme del popolo egiziano costituisce di per sè una sfida positiva. Perché questo popolo è, come tutti gli altri, ben lungi da costituire un “blocco omogeneo”. Alcuni dei segmenti che lo compongono rinforzano incontestabilmente la prospettiva di una possibile radicalizzazione.
L’ingresso della classe operaia nella lotta (circa 5 milioni di lavoratori) può essere decisivo.
I lavoratori in lotta (tanti sono gli scioperi indetti!) hanno fatto progredire forme di organizzazione messe in atto fin dal 2007. Si contano già più di una cinquantina di sindacati indipendenti.
L’ostinata resistenza dei piccoli agricoltori alle espropriazioni rese possibili dalla cancellazione della riforma agraria (in parlamento, i Fratelli Musulmani hanno votato per queste leggi scellerate, con il pretesto che nell’Islam la proprietà privata sarebbe “sacra”, e che la riforma agraria era ispirata dal… diavolo comunista!) allo stesso modo partecipa della possibile radicalizzazione del movimento.
Per altro, una massa gigantesca di “poveri” ha partecipato attivamente alle manifestazioni del febbraio 2011 e si riconosce molto spesso all’interno di comitati popolari costituiti nei quartieri per “difendere la rivoluzione”. Questi “poveri” possono dare l’impressione (per le barbe, i veli, il loro modo di vestire e di acconciarsi) che il paese sia profondamente “islamico”, quindi facilmente manovrabile dai Fratelli Musulmani. Infatti, l’entrata in scena di costoro si è imposta alla direzione dell’organizzazione.
Dunque, si è ingaggiata la sfida: chi, fra i Fratelli e i loro associati islamisti (i salafiti) o gli aderenti all’alleanza democratica, perverrà a formulare alleanze efficaci con le masse disorientate, vale a dire ad “inquadrarle” (termine che io rifiuto)?
In Egitto sono in corso progressi significativi nella costruzione del fronte unito delle forze democratiche e dei lavoratori. Nell’aprile 2011, cinque partiti di orientamento socialista (il Partito Socialista egiziano, l’Alleanza popolare democratica – una maggioranza uscita dall’ex partito del Tagammu, il Partito democratico dei lavoratori, il Partito dei Socialisti rivoluzionari – trotskista, e il Partito Comunista egiziano – che era stato una componente del Tagammu) hanno costituito un’Alleanza delle forze socialiste, e si sono impegnati nell’Alleanza a portare avanti le loro lotte tutti uniti. Parallelamente, è stato costituito un Consiglio Nazionale (Maglis Watany) fra tutte le forze politiche e sociali che hanno dato vita al movimento (i partiti di orientamento socialista, i diversi partiti democratici, i sindacati indipendenti, le organizzazioni contadine, le reti dei giovani, numerose associazioni sociali).
I Fratelli Musulmani e i partiti della destra hanno rifiutato di partecipare a questo Consiglio, riaffermando ciò che si sapeva già: la loro opposizione alla prosecuzione del movimento.
Il Consiglio riunisce circa 150 membri.
A fronte del movimento democratico: il blocco reazionario
Come nel periodo del montare della marea di lotte nel passato, in Egitto il movimento democratico anti-imperialista e sociale cozza contro un potente blocco reazionario. Questo blocco può essere identificato nei termini delle sue componenti sociali (di classe, evidentemente), ma parimenti deve esserlo in quei termini che definiscono le sue ragioni di intervento politico e dei discorsi ideologici funzionali a questo intervento.
In termini sociali, il blocco reazionario è diretto dalla borghesia egiziana considerata nel suo complesso. Le forme di accumulazione in atto negli ultimi quarant’anni hanno prodotto l’emergere di una borghesia ricca, beneficiaria esclusiva delle disparità scandalose che hanno accompagnato questo modello di “liberismo globalizzato”. Siamo in presenza di decine di migliaia non già di “imprenditori creativi” – come li rappresenta la retorica della Banca mondiale – ma di milionari e miliardari che devono tutti la loro fortuna alla loro collusione con l’apparato di potere politico (la “corruzione” è una componente organica di questo sistema).
Questa borghesia è compradora (nel linguaggio politico corrente in Egitto il popolo li qualifica “parassiti corrotti”), e costituisce il sostegno attivo dell’inserimento dell’Egitto nella globalizzazione imperialista contemporanea, l’alleato incondizionato degli Stati Uniti.
Questa borghesia conta nei suoi ranghi numerosi generali dell’esercito e della polizia, “civili” associati allo Stato e al partito dominante (“Nazional-democratico”) creato da Sadat e da Mubarak, religiosi (la totalità dei dirigenti dei Fratelli Musulmani e degli influenti sceicchi dell’università islamica dell’Azhar è tutta di “miliardari”).
Certamente, esiste ancora una borghesia di piccoli e medi imprenditori attivi. Ma anche costoro sono vittime del sistema del racket imposto dalla borghesia compradora, ridotti più spesso alla condizione di subappaltatori dominati dai monopoli locali, questi stessi cinghie di trasmissione dei monopoli stranieri.
Nel campo dell’edilizia, questa situazione è pressoché generalizzata: i “big” fanno razzia nei mercati, quindi concedono i subappalti ai “piccoli”.
Questa borghesia di imprenditori autentici simpatizza con il movimento democratico.
Il versante rurale del blocco reazionario non è da meno importante. È costituito da ricchi contadini che hanno beneficiato al massimo della riforma agraria di Nasser, sostituendosi alla vecchia classe dei grandi latifondisti. Le cooperative agricole istituite dal regime nasseriano consociavano i piccoli agricoltori ai contadini ricchi e di fatto funzionavano principalmente a tutto vantaggio dei ricchi. Ma il regime aveva preso delle precauzioni per limitare le possibili aggressioni contro i piccoli contadini. Queste precauzioni sono state abbandonate da Sadat e Mubarak, secondo le raccomandazioni della Banca mondiale, e i contadini ricchi ora si adoperano per accelerare l’eliminazione dei piccoli agricoltori.
Nell’Egitto moderno, i ricchi agricoltori hanno sempre costituito una classe reazionaria e oggi lo sono più che mai. Nelle campagne, sono loro i principali sostenitori dell’Islam conservatore e, attraverso i loro stretti rapporti (spesso di parentela) con i rappresentanti degli organismi statuali e religiosi (in Egitto, l’Azhar equivale ad una Chiesa musulmana organizzata) dominano la vita sociale rurale.
Per di più, una buona parte degli appartenenti alle classi medie urbane (in particolare gli ufficiali dell’esercito e della polizia, ma ugualmente i tecnocrati e i rappresentanti delle professioni liberali) è di provenienza diretta dai settori contadini ricchi.
Questo blocco sociale reazionario dispone di strumenti politici al suo servizio: l’esercito e la polizia, le istituzioni dello Stato, il partito politico privilegiato (di fatto, una sorta di partito unico) – il Partito nazionale democratico fondato da Sadat –, l’organizzazione religiosa (l’Azhar), le correnti dell’Islam politico (i Fratelli Musulmani e i salafiti).
L’aiuto militare accordato dagli Stati Uniti all’esercito egiziano (annualmente, un miliardo e mezzo di dollari) non è mai stato destinato a rafforzare la capacità di difesa del paese, ma al contrario per annullarne l’eventuale pericolosità attraverso una sistematica corruzione, non già conosciuta e comunque tollerata, ma certamente sostenuta con cinismo.
Questo “aiuto” ha permesso agli ufficiali dei gradi più alti di impadronirsi di segmenti importanti dell’economia compradora egiziana, al punto in cui si parla in Egitto di “società anonima / esercito” (Sharkia al geish).
I comandi dell’esercito, che si sono assunti la responsabilità di “dirigere” il periodo di transizione, di fatto sono ben lontani dall’essere “neutrali”, benché abbiano prese le cautele di sembrarlo, dissociandosi dalla repressione.
Il governo “civile”, agli ordini dell’esercito (i membri del governo sono stati nominati dagli alti comandi), è composto in parte da uomini del passato regime, selezionati però fra le personalità meno in vista di quel regime, ed ha preso una serie di misure perfettamente reazionarie, destinate a frenare la radicalizzazione del movimento. Fra questi provvedimenti, una scellerata legge anti-sciopero (con il pretesto di rimettere nella giusta direzione l’economia del paese), una legge che impone delle restrizioni severe alla costituzione dei partiti politici, che mira a non consentire la possibilità di entrare nel gioco elettorale, se non alle correnti dell’Islam politico (in particolare, ai Fratelli Musulmani), già ben organizzate grazie al sostegno sistematico procurato dal passato regime.
Eppure, nonostante tutto questo, l’atteggiamento delle forze armate in ultima istanza resta imprevedibile. Infatti, malgrado la corruzione dei suoi quadri (i soldati sono coscritti, ma gli ufficiali sono professionisti), in tutti il sentimento nazionalista non è sempre assente.
Inoltre, l’esercito soffre per essere stato praticamente escluso dal potere, a tutto vantaggio della polizia.
In queste circostanze, e visto che il movimento ha espresso con forza la sua volontà di escludere l’esercito dalla direzione politica del paese, è probabile che gli alti comandi prenderanno in considerazione per l’avvenire di rimanere defilati, rinunciando a presentare loro uomini alle prossime elezioni.
Se, evidentemente, l’apparato poliziesco resta intatto (non è prevista alcuna azione penale nei confronti dei suoi responsabili), così come l’insieme dell’apparato dello Stato (i nuovi governanti appartengono tutti al vecchio regime), per contro il Partito nazionale democratico si è dissolto nella bufera e i giudici hanno decretato il suo scioglimento. Tuttavia, possiamo stare certi che la borghesia egiziana saprà far rinascere il suo partito sotto nuove e diverse denominazioni.
L’Islam politico
I Fratelli Musulmani costituiscono la sola forza politica di cui il regime abbia non solamente tollerato l’esistenza, ma di cui abbia attivamente sostenuto lo sviluppo. Sadat e Mubarak avevano loro affidato la gestione di tre istituzioni fondamentali: l’istruzione, la giustizia e la televisione.
I Fratelli Musulmani non sono mai stati, e non possono essere “moderati”, ed ancor meno “democratici”. Il loro capo – il mourchid (traduzione araba di “guida” – Führer) viene autoproclamato e l’organizzazione si affida al principio della disciplina e all’esecuzione degli ordini dei dirigenti, senza discussioni di alcun tipo. La direzione è costituita esclusivamente da uomini immensamente ricchi (grazie, fra l’altro, al sostegno finanziario dell’Arabia Saudita, vale a dire di Washington), l’inquadramento viene assicurato da uomini provenienti dai settori oscurantisti della classe media, la base da gente del popolo reclutata dai servizi sociali di carità offerti dalla confraternita (e finanziati sempre dall’Arabia Saudita), mentre la forza d’urto è costituita da miliziani (i baltaguis) reclutati nel lumen, nel sottoproletariato.
I Fratelli Musulmani si riconoscono in un sistema economico che si basa sul mercato e totalmente dipendente dall’esterno. Di fatto, sono una componente della borghesia compradora. Per altro, hanno preso posizione contro i grandi scioperi della classe operaia e contro i contadini che lottavano per conservare la proprietà delle loro terre.
Dunque, i Fratelli Musulmani non sono dei “moderati”, nella duplice accezione per cui si sono sempre rifiutati di formulare un qualsiasi programma economico e sociale, in buona sostanza non rimettono in discussione le politiche neo-liberiste reazionarie, e per il fatto che accettano la sottomissione alle esigenze del dispiegamento degli Stati Uniti del controllo sul mondo e sulla regione. Per questo, sono utili alleati di Washington (esiste forse un alleato degli Stati Uniti migliore dell’Arabia Saudita, santo protettore dei Fratelli?), che ha loro attribuita la “patente di democrazia”!
Ma gli Stati Uniti non possono riconoscere che la loro strategia ha come risultato l’imposizione di regimi “islamici” nella regione. Hanno bisogno di agire come se “questo li spaventasse”. In questo modo, legittimano la loro “guerra permanente al terrorismo”, che in realtà persegue ben altri obiettivi: il controllo militare sul pianeta destinato a riservare agli Stati Uniti-Europa-Giappone
l’accesso esclusivo alle risorse.
Vantaggio supplementare di questa doppiezza: viene permessa la mobilitazione della “islamofobia” dell’opinione pubblica. Come si sa, l’Europa non possiede una strategia particolare nei confronti della regione e si accontenta di allinearsi giorno per giorno sulle decisioni di Washington. È più che mai necessario mettere in piena evidenza questa effettiva doppiezza della strategia degli Stati Uniti, visto che l’opinione pubblica mondiale – manipolata con efficacia – risulta facilmente ingannabile. Gli Stati Uniti, (e alle loro spalle l’Europa) temono assolutamente un Egitto realmente democratico che, sicuramente, rimetterebbe in discussione il suo allineamento sulle posizioni del liberismo economico e la strategia aggressiva degli Stati Uniti e della NATO. Faranno di tutto perché l’Egitto non diventi democratico e, a questo scopo, sosterranno con tutti i mezzi, ma con ipocrisia, l’ambigua alternativa dei Fratelli Musulmani, che hanno dimostrato di essere null’altro che una minoranza nel movimento del popolo egiziano per un reale cambiamento.
D’altronde, la collusione fra le potenze imperialiste e l’Islam politico non è una novità, tanto meno per l’Egitto. I Fratelli Musulmani, dalla loro fondazione nel 1927 ai nostri giorni, sono sempre stati un alleato utile per l’imperialismo e per il blocco reazionario locale. Sono sempre stati un nemico feroce dei movimenti democratici dell’Egitto. E i multimiliardari che oggi assicurano la direzione della Confraternita non hanno nel loro destino l’adesione alla causa democratica!
L’Islam politico è parimenti l’alleato strategico degli Stati Uniti e dei loro soci subalterni della NATO in tutto il mondo musulmano. Washington ha armato e finanziato i Talebani, qualificati come “combattenti ed eroi per la libertà” (« Freedom Fighters ») nella loro guerra contro il governo nazionale popolare definito “comunista” (prima e dopo l’intervento sovietico). Quando i Talebani hanno chiuso le scuole per le ragazze create dai “comunisti”, si sono trovati dei “democratici” e perfino delle “femministe” che hanno preteso essere necessario “rispettare le tradizioni”!
In Egitto, i Fratelli Musulmani sono ormai spalleggiati dalla corrente salafita (“tradizionalista”), ugualmente e largamente finanziata dai paesi del Golfo. I salafiti si impongono come estremisti, (wahabiti convinti, intolleranti nei confronti di qualsiasi altra interpretazione dell’Islam), e sono all’origine dei massacri sistematici perpetrati contro i Copti. Operazioni difficili da immaginare senza il sostegno tacito (e a volte del tutto complice) degli apparati dello Stato, in particolare di quello della Giustizia, largamente immanicati con i Fratelli Musulmani. Questa strana divisione del “lavoro” consente ai Fratelli Musulmani di apparire moderati; quello che Washington finge di credere.
Comunque, avvengono lotte violente in seno alle correnti religiose islamiste dell’Egitto.
Bisogna tenere presente che l’Islam egiziano storico dominante è “sufita”, e le confraternite sufite riuniscono oggi 15 milioni di fedeli. Islam aperto, tollerante, che insiste sulla convinzione individuale piuttosto che sulle pratiche rituali ( “esistono tanti cammini verso Dio quanti sono gli individui”), il sufismo egiziano è sempre stato tenuto in sospetto dai poteri forti dello Stato che, però, agitando il bastone e la carota, si guardano bene di entrare in aperto conflitto con il sufismo.
L’Islam wahabita del Golfo si situa ai suoi antipodi: è arcaico, ritualista, conformista, nemico dichiarato di qualsiasi interpretazione che non sia la sua, che non è altro che una mera ripetizione di testi, nemico di qualsiasi spirito critico – assimilato al Diavolo.
L’Islam wahabita ha dichiarato guerra al sufismo, lo desidera “estirpare” e conta sull’appoggio delle autorità di potere per conseguire questo scopo.
In reazione, oggi i sufiti sono laicizzanti, se non proprio laici; si richiamano alla separazione fra religione e la politica (il potere dello Stato e quello delle autorità religiose concordati dall’Azhar).
I sufiti sono alleati del movimento democratico.
L’introduzione dell’Islam wahabita in Egitto aveva avuto il suo inizio negli anni ’20 per opera di Rachid Reda e ripresa dai Fratelli Musulmani nel 1927. Ma ha assunto tutto il suo vigore solo dopo la Seconda guerra mondiale, quando la rendita petrolifera dei paesi del Golfo, sostenuti dagli Stati Uniti in conflitto con l’onda dei movimenti popolari di liberazione nazionale degli anni ’60, ha permesso di moltiplicarne i mezzi finanziari.
La strategia degli Stati Uniti: il modello pachistano
Le tre potenze che hanno dominato la scena mediorientale nel corso di tutto il periodo di riflusso ed arretramento (1967-2011) sono gli Stati Uniti, i protettori del sistema, l’Arabia Saudita ed Israele. Siamo in presenza di tre alleati intimi, che condividono le medesima ossessione, di vedere emergere un Egitto democratico. In quanto, questo Egitto non potrebbe essere che anti-imperialista e sociale, prenderebbe le distanze nei confronti del liberismo globalizzato, condannerebbe l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo all’insignificanza, farebbe rivivere il senso di solidarietà dei popoli arabi ed imporrebbe ad Israele il riconoscimento di uno Stato palestinese.
L’Egitto costituisce una pietra angolare nella strategia statunitense di controllo del pianeta. L’obiettivo esclusivo di Washington e dei suoi alleati Israele ed Arabia Saudita è quello di fare abortire il movimento democratico in Egitto e, a questo scopo, vogliono imporre un “regime islamico” diretto dai Fratelli Musulmani, che per loro rappresenta l’unico modo di perpetuare l’assoggettamento dell’Egitto.
Il “discorso democratico” di Obama serve solo per ingannare le opinioni degli ingenui, in primo luogo negli Stati Uniti ed in Europa.
Si parla molto, per fornire una legittimazione ad un governo dei Fratelli Musulmani (“mobilitati alla democrazia!”), dell’esempio della Turchia. Ma si tratta ancora una volta di polvere negli occhi, visto che l’esercito turco, che resta presente nel retroscena, benché sicuramente non democratico e per certo alleato fedele della NATO, rappresenta una garanzia per la “laicità” in Turchia.
Il progetto di Washington, apertamente espresso da Hillary Clinton, Obama e i think tanks al loro servizio, si ispira al modello pachistano: l’esercito (“islamico”) dietro le quinte, e il governo (“civile”) assunto da uno o più partiti islamici “eletti”.
Con tutta evidenza, in questa ipotesi, il governo “islamico” egiziano sarebbe ripagato per questa sua sottomissione relativa all’essenziale delle questioni (la non rimessa in discussione del liberismo e dei cosiddetti “trattati di pace” che consentono ad Israele di proseguire nella sua politica di espansione territoriale) e avrebbe la possibilità, in compensazione demagogica, di mettere in opera i suoi “progetti di islamizzazione dello Stato e della politica”, e i massacri dei Copti.
Bella democrazia quella conquistata a Washington in favore dell’Egitto!
L’Arabia Saudita appoggia apertamente con tutti i suoi mezzi (finanziari) la messa in atto di questo progetto. Infatti, Ryad sa perfettamente che la sua egemonia regionale (nel mondo arabo e musulmano) esige la riduzione dell’Egitto ad una condizione di assoluta insignificanza. E la chiave di tutto sta nella “islamizzazione dello Stato e della politica”; in realtà, una islamizzazione alla wahabita, con tutti gli annessi e i connessi – fra gli altri quello delle discriminazioni fanatiche nei confronti dei Copti e della negazione dei diritti all’uguaglianza delle donne.
È possibile questa forma di islamizzazione? Può esserlo, ma al prezzo di violenze estreme. La battaglia è ricondotta all’articolo 2 della costituzione del regime decaduto. Questo articolo afferma che “la sharia è la fonte del diritto”, e costituiva una novità nella storia politica dell’Egitto. Né la costituzione del 1923, né quella di Nasser l’avevano immaginato. È stato Sadat ad introdurla nella sua nuova Costituzione, con il triplice appoggio di Washington (“rispettare le tradizioni!”), di Ryad (“il Corano deve assumere la funzione di Costituzione”) e di Gerusalemme (“lo Stato di Israele è uno Stato ebraico”).
[N.d.tr.: Sharia significa, alla lettera, “la via da seguire”, ma si può anche tradurre con “Legge divina”. Poiché Islam significa totale sottomissione a Dio, la caratteristica principale del diritto islamico è di non sottrarsi a questa sottomissione. Il complesso di norme religiose, giuridiche e sociali direttamente fondate sulla dottrina coranica prende il nome di Sharia. In quest’ultima convivono regole teologiche, morali, rituali e quelle che noi chiameremmo norme di diritto privato, affiancate da norme fiscali, penali, processuali e di diritto bellico.]
Il progetto dei Fratelli Musulmani prevede l’istituzione di uno Stato teocratico, come dimostra la loro piena adesione all’articolo 2 della Costituzione di Sadat/Mubarak. Per di più, il programma più recente dell’organizzazione rafforza questa visione passatista attraverso la proposizione dell’insediamento di un “Consiglio degli Ulema” incaricato di sorvegliare sulla conformità di qualsiasi proposta di legge alle esigenze della Sharia.
Questo Consiglio costituzionale religioso è analogo a quello che in Iran controlla il “potere eletto”. Quindi, il regime è quello di un super-partito religioso unico, e tutti i partiti che potrebbero farsi paladini della laicità diventerebbero “illegali”. I loro sostenitori, come i non-Musulmani (ad esempio, i Copti) sono di fatto esclusi dalla vita politica.
Malgrado tutto questo, i poteri a Washington ed in Europa agiscono come se si potesse prendere sul serio la recente dichiarazione dei Fratelli, con cui costoro affermano di “rinunciare” al progetto teocratico (senza modificare il loro programma!), una dichiarazione opportunista, di più, menzognera.
Gli esperti della CIA non sanno proprio leggere l’arabo? Si impone una conclusione: Washington predilige il potere dei Fratelli, che garantisce agli Stati Uniti la conservazione dell’Egitto nel loro girone e in quello della mondializzazione liberista, al potere dei democratici che farebbero correre il rischio di mettere in discussione la condizione di subalternità dell’Egitto.
Il Partito della Giustizia e della Libertà, creato di recente, e che si ispira con tutta evidenza al modello turco, è quasi certamente uno strumento dei Fratelli. I Copti vi verranno ammessi (!), il che significa che sono invitati ad accettare lo Stato musulmano teocratico consacrato dal programma dei Fratelli, se vogliono avere il diritto di “partecipare” alla vita politica del loro paese.
Passati all’offensiva, i Fratelli Musulmani creano dei “sindacati”, delle “organizzazioni contadine” e una sequela di “partiti politici” rivestiti di nome diversi, il cui solo obiettivo è quello di dividere il fronte dell’unione fra operai, contadini e democratici in fase di costruzione, a tutto vantaggio, ben inteso, del blocco controrivoluzionario.
Il movimento democratico egiziano sarà in grado di abrogare questo articolo nella nuova Costituzione a venire? Non è possibile rispondere a questa domanda se non ritornando ad analizzare le discussioni sulle questioni politiche, ideologiche e culturali che sono andate sviluppandosi nella storia dell’Egitto moderno.
In effetti, è possibile constatare che le fasi di flusso progressista si caratterizzano per una multiformità di opinioni liberamente espresse, che relegano la “religione” (sempre presente nella società) su un piano arretrato. È stato così durante due terzi del diciannovesimo secolo (da Mohamed Ali al Khedivé Ismaïl). In definitiva, in questa fase a dominare la scena sono i temi della modernizzazione (in una forma di dispotismo illuminato, piuttosto che di democrazia). Lo stesso è avvenuto fra il 1920 e il 1970: si era aperto il confronto fra i “democratici borghesi” e i “comunisti”, che occupavano ampiamente il proscenio, fino all’avvento del nasserismo.
Nasser eliminava questo confronto, sostituendolo con un discorso populista panarabo, ma allo stesso tempo “modernista”. Le contraddizioni di questo sistema aprono la via al ritorno dell’Islam politico.
Per contrappunto, è possibile constatare che nelle fasi di arretramento, di riflusso, la diversità di opinioni si eclissa, lasciando posto ad un conservatorismo sedicente islamico, che si attribuisce il monopolio della dialettica autorizzata dal potere. Dal 1880 al 1920, i Britannici hanno costruito questa deriva, fra l’altro mediante condanne all’esilio (essenzialmente, in Nubia) di tutti i pensatori e attori della modernizzazione egiziana formatisi dopo Mohamed Ali. Ma bisogna sottolineare come anche l’“opposizione” all’occupazione britannica condivida questa concezione conservatrice.
La Nahda (inaugurata da Gamal al-din al-Afghani e portata avanti da Mohamed Abdou) si inscrive in questa deriva, associata all’illusione ottomanista, difesa dal nuovo Partito Nazionalista di Moustapha Kemal e Mohammad Farid. Non dovrebbe sorprendere che questa deriva abbia prodotto alla fine dell’epoca gli scritti ultra-reazionari di Rachid Reda, ripresi poi da Hassan el Banna, fondatore dei Fratelli Musulmani.
[N.d.tr.: Il termine Nahda (in arabo rinascimento, risorgimento) allude a una realtà molto composita di atteggiamenti mentali e di espressioni politiche e sociali frutto dell’effervescenza della cultura e delle intellettualità arabo-islamiche, mentre l’Impero ottomano languiva e poi definitivamente si spegneva, e mentre le potenze europee si disputavano l’egemonia nel Medio Oriente alla fine del diciannovesimo secolo. La nahda si espresse a molteplici livelli: il livello pubblico; il livello sociale; il livello politico; il livello filosofico e culturale.
Livello pubblico: il grande sviluppo del giornalismo a partire dalla metà del XIX secolo, soprattutto con giornalisti arabi di origine siro-libanese, che emigravano verso il Cairo, centro della stampa araba. In Egitto, venne fondata la prima biblioteca nazionale del mondo arabo grazie ad Alì Mubarak e agli inizi del ventesimo secolo nascevano le prime università moderne a Istanbul.
Livello sociale: alla ribalta in primo luogo il mondo femminile e il ruolo della donna. Vennero fondati i primi movimenti femministi egiziani e pubblicate alcune riviste con lo scopo di dare maggior attenzione sul piano sociale alle donne.
Livello politico: concetti importanti erano quelli di nazione-patria e di libertà. Senso di patria, usato dalla stampa ottomana, è legato all’idea di patriottismo, che si incontra tra i teorici del panarabismo o nazionalismo arabo. La questione della libertà riguarda la libertà individuale, bene da salvaguardare e promuovere e la libertà religiosa, per cui le religioni sono i veicoli necessari per coltivare principi etici e morali.
Livello filosofico e culturale: necessità di separare la religione dalla scienza, secolarismo. Si imputava all’Islam di confondere la fede con la politica e quindi bisognava affermare nel mondo arabo: scienza – giustizia – libertà.
La nahda era un vasto movimento di grande vivacità spirituale che modernizzò non solo il pensiero arabo, ma anche le società arabe e islamiche gettando le basi culturali delle attuali società mediorientali.]
Il periodo di riflusso è continuato negli anni 1970-2010. Il discorso ufficiale del potere (di Sadat e di Mubarak), perfettamente islamista (la prova: l’introduzione della Sharia nella Costituzione e la delega dei poteri fondamentali ai Fratelli Musulmani), combacia perfettamente con quello della falsa opposizione, l’unica tollerata, quella del discorso delle moschee affidate ai salafiti.
L’articolo 2 può inquadrarsi in questa luce, ben solidamente ancorato nella “convinzione” generale (quella dell’“uomo della stada”, come ci si compiace di affermare, ad imitazione della retorica statunitense).
Non si possono sottovalutare gli effetti devastanti della depoliticizzazione messa in atto sistematicamente durante i periodi di riflusso. La china non è mai facile da risalire. Ma questo non è impossibile. I dibattiti in corso in Egitto sono imperniati – esplicitamente o implicitamente – su questa questione, della pretesa dimensione “culturale” della sfida (in questo caso, islamica). Indicatori positivi: sono bastate alcune settimane di liberi dibattiti imposti dagli avvenimenti per vedere lo slogan “l’islam è la soluzione!” sparire da tutte le manifestazioni, a vantaggio delle rivendicazioni precise sul terreno della trasformazione concreta della società (libertà di opinione, di formazione dei partiti, sindacati e altre organizzazioni sociali, salari e diritti del lavoro, accesso alla terra, all’istruzione e alla sanità, rifiuto delle privatizzazioni ed esortazione alle nazionalizzazioni, ecc.) Segnale che non inganna: alle elezioni degli studenti, la schiacciante maggioranza (80%) dei voti assegnati ai Fratelli Musulmani cinque anni fa (quando il loro discorso veniva accettato come la sola presunta opposizione) ha avuto come seguito un crollo al 20% dei Fratelli nelle elezioni di aprile!
Ma l’avversario sa ugualmente organizzare la risposta al “pericolo democratico”.
Le modificazioni insignificanti della Costituzione (sempre in vigore!), proposte da una commissione costituita esclusivamente da Islamisti scelti dal consiglio supremo (l’esercito), e frettolosamente approvate con un referendum nel mese di aprile (il 23% di “no”, e però una maggioranza di “sì”, frutto di brogli e di ricatti massicci delle moschee), chiaramente non riguardano l’articolo 2.
Sono previste elezioni presidenziali e legislative per settembre/ottobre 2011. Il movimento democratico si batte per una “transizione democratica” a tempi più lunghi, in maniera da consentire alle sue proposizioni di efficacemente raggiungere le masse inconsapevoli.
Ma Obama ha già deciso fin dai primi gioni dell’insurrezione: una transizione a breve termine, ordinata (vale a dire, senza la rimessa in discussione degli apparati di regime), ed elezioni subito
(che così possano fornire l’augurata vittoria per gli Islamisti).
Le “elezioni”, come ben si sa, in Egitto come d’altronde nel mondo, non sono proprio il mezzo migliore per consolidare la democrazia, ma spesso il mezzo per porre un termine alla dinamica dei progressi democratici.
Un ultimo cenno riguarda la “corruzione”.
Il discorso dominante del “regime di transizione” pone l’accento sulla denuncia della corruzione, associata a minacce di azioni legali (vedremo cosa accadrà nei fatti!). Sicuramente, questo discorso è ben recepito, in particolare da quella parte dell’opinione pubblica ingenua, senza dubbio maggioritaria. Ma se vengono analizzate le ragioni profonde della “corruzione”, si comprende che questa corruzione (presentata come una devianza morale, sullo spunto della retorica moralizzatrice statunitense) è invece una componente organica indispensabile alla formazione della borghesia. Non solamente nel caso dell’Egitto e dei paesi del Sud del mondo in generale, siamo in presenza di una borghesia compradora, la cui associazione ai poteri forti dello Stato costituisce il solo tramite per il suo emergere.
Io sostengo che nella fase di un capitalismo dei monopoli generalizzati, la corruzione è divenuta un elemento costitutivo organico alla riproduzione del modello di accumulazione: il prelevamento della rendita e dei profitti da parte dei monopoli esige la complicità attiva dello Stato.
Il discorso ideologico (“il virus liberista”) proclama “basta Stato!”; mentre la sua pratica è : “Lo Stato al servizio dei monopoli”.
La zona delle tempeste
Mao non aveva torto quando affermava che il capitalismo (nella sua essenza, imperialista per natura) non aveva nulla da offrire ai popoli di tre continenti (la periferia costituita dall’Asia, dall’Africa e dall’America latina – questa “minoranza” che raccoglie l’85% della popolazione del pianeta!) e dunque il Sud del mondo costituiva la “zona delle tempeste”, vale a dire delle rivolte reiterate, potenzialmente (ma solo potenzialmente) portatrici di progressi rivoluzionari in direzione del superamento del capitalismo da parte del socialismo.
Le “primavere arabe” si inscrivono in questa realtà. Siamo in presenza di rivolte sociali potenzialmente portatrici della cristallizzazione di alternative, che possono a lungo termine inscriversi nella prospettiva socialista. Questa è la ragione per cui il sistema capitalista, il capitale dei monopoli dominanti su scala mondiale, non può tollerare lo sviluppo di questi movimenti. Il capitalismo mobiliterà tutti i mezzi di destabilizzazione possibili, di pressioni economiche e finanziarie, fino alla minaccia militare. Fornirà tutto l’appoggio, a seconda delle circostanze, sia alle ingannevoli alternative fasciste o fascistoidi, sia alla discesa in campo di dittature militari.
Non bisogna credere ad una parola di ciò che dice Obama. Obama è Bush, ma con un modo diverso di esprimersi. Usa la permanente ambiguità del linguaggio dei dirigenti della triade imperialista (Stati Uniti, Europa occidentale, Giappone).
In questo articolo non ho l’intenzione di analizzare con altrettanta precisione ciascuno dei movimenti in corso nel mondo arabo (Tunisia, Libia, Siria, Yemen ed altri), in quanto le componenti del movimento sono differenti da un paese all’altro, tante quante sono le forme della loro integrazione nella mondializzazione imperialista e le strutture dei regimi specifici.
La rivolta in Tunisia ha fornito il colpo di volano e certamente ha prodotto tanto coraggio agli Egiziani. In aggiunta, il movimento tunisino beneficia di un certo qual vantaggio: senza dubbio, la semi-laicità introdotta da Bourguiba non potrà essere messa in discussione dagli Islamisti rientrati dal loro esilio in Gran Bretagna. Ma, allo stesso tempo, il movimento tunisino non sembrerebbe essere in grado di rimettere in discussione il modello di uno sviluppo estraneo alla società tunisina ed inserito nella globalizzazione capitalista liberista.
La Libia non è né la Tunisia, né l’Egitto. Il blocco al potere (Gheddafi) e le forze che gli si contrappongono non hanno nulla di analogo a quello che si presenta in Tunisia ed in Egitto. Gheddafi non è stato altro che un pulcinella di cui il vuoto di pensiero trova il suo riflesso nel suo famoso “Libro verde”. Operando in una società ancora arcaica, Gheddafi ha potuto permettersi di tenere in successione discorsi – privi di portata reale – “nazionalisti e socialisti”, per poi orientarli il giorno dopo verso il “liberismo”. Ha fatto questo “per fare piacere agli Occidentali”!, come se la scelta del liberismo non producesse effetti sulla società. Tuttavia, ne ha prodotti, e molto banalmente, per la maggior parte ha aggravato i problemi sociali.
Sono state le condizioni create che hanno provocato l’esplosione che conosciamo, immediatamente messe a profitto dall’Islam politico del paese e dai regionalismi. Infatti, la Libia non è mai esistita come una vera nazione.
Questa è una regione geografica che separa il Maghreb dal Machrek. La frontiera fra queste due aree passa precisamente in mezzo alla Libia. La Cirenaica è storicamente greca ed ellenistica, ed in seguito è divenuta machrekina. La Tripolitania, invece, è stata latina ed è divenuta maghrebine. Tutto questo ha sempre costituito la base dei regionalismi nel paese.
Non conosciamo realmente chi siano i membri del Consiglio nazionale di transizione di Benghasi.È possibile che fra di loro ci siano dei democratici, ma certa è la presenza di islamisti, e dei peggiori fra questi, e dei regionalisti.
Data la sua origine, in Libia il “movimento” ha assunto la forma di una rivolta armata, che ha fatto fuoco sull’esercito, e non quella di un’ondata di manifestazioni civili. Per giunta, questa rivolta armata ha chiamato immediatamente in suo soccorso la NATO. Quindi, veniva concessa alle potenze imperialiste l’occasione per un loro intervento militare. L’obiettivo perseguito non è certamente né la “protezione dei civili”, né la “democrazia”, ma il controllo del petrolio e l’acquisizione di una base militare importante nel paese.
Sicuramente, le compagnie occidentali controllavano già il petrolio libico, dopo il riallineamento di Gheddafi al “liberismo”. Ma con Gheddafi non si è mai sicuri di niente. E se mutasse un’altra volta d’abito ed introducesse domani nel suo gioco i Cinesi o gli Indiani? Ma c’è qualcosa di più grave! Dal 1969, Gheddafi aveva imposto l’evacuazione delle basi britanniche e statunitensi insediate in Libia alla fine della Seconda guerra mondiale. Attualmente, gli Stati Uniti hanno la necessità di trasferire l’Africom in Africa (l’Africom è il comando militare degli Stati Uniti per l’Africa, un pezzo importante nella scacchiera del dispositivo di controllo militare del pianeta, oggi di stanza in Germania, a Stoccarda!). Però, l’Unione Africana rifiuta di accogliere l’Africom e fino ad oggi nessuno Stato africano ha osato di farlo. Un lacché, un fantoccio, messo al potere a Tripoli (o a Benghasi) corrisponderebbe con tutta evidenza alle esigenze di Washington e dei suoi subalterni alleati della NATO.
Fino a questo momento, le componenti della rivolta in Siria non hanno fatto conoscere i loro programmi. Senza dubbio, la deriva del regime baathista, incamminatosi verso il neo-liberismo e singolarmente indifferente difronte all’occupazione del Golan da parte di Israele, sta all’origine dell’esplosione popolare. Ma non bisogna escludere l’intervento della CIA: si parla di gruppi che sono penetrati a Diraa, provenienti dalla vicina Giordania. La mobilitazione dei Fratelli Musulmani, che qualche anno fa avevano scatenato le sommosse di Hama e di Homs, forse non è estranea al complotto di Washington, tutto proteso a mettere fine all’alleanza Siria/ Iran, essenziale per il sostegno di Hezbollah in Libano e di Hamas a Gaza.
Nello Yemen, l’unità del paese si era costruita sulla sconfitta delle forze progressiste che avevano governato il Sud. Il movimento prende la sua vitalità da queste forze? Per questa ragione, si possono comprendere le esitazioni di Washington e dei paesi del Golfo.
In Bahreïn, la rivolta è stata stroncata sul nascere per l’intervento dell’esercito saudita, con conseguenti massacri, su cui i media dominanti non hanno avuto nulla da ridire. Due pesi, due misure, come sempre!
La “rivolta araba” non costituisce l’unico esempio, anche se ne è l’espressione più recente, della manifestazione di instabilità insita nella “zona delle tempeste”.
Una prima ondata di “rivoluzioni”, se così si possono definire, aveva spazzato via certe dittature in Asia ( Filippine, Indonesia) ed in Africa (il Mali), che erano state imposte dall’imperialismo e dai blocchi reazionari locali. Ma allora gli Stati Uniti e l’Europa si erano intromessi per fare abortire la dinamica di questi movimenti popolari, alle volte giganteschi, a vedere le mobilitazioni che erano in grado di suscitare. Gli Stati Uniti e l’Europa hanno voluto ripetere nel mondo arabo quello che è avvenuto nel Mali, nelle Filippine ed in Indonesia: tutto cambi perché nulla cambi!
In quei paesi, dopo che i movimenti popolari si erano sbarazzati dei loro dittatori, le potenze imperialiste si sono impegnate perché fosse conservato ciò che per loro era considerato essenziale, la presa di potere da parte di governi allineati sul neo-liberismo e sugli interessi della loro politica estera. È interessante constatare che nei paesi musulmani (Mali, Indonesia), l’Islam politico è stato mobilitato a questo scopo.
L’ondata dei movimenti di emancipazione che ha percorso l’America del Sud ha d’altro canto permesso effettivi progressi nelle tre direzioni che rappresentano la democratizzazione dello Stato e della società, l’adozione di posizioni anti-imperialiste conseguenti, l’impegno sulla via delle riforme sociali progressiste.
Il discorso dominante sui media paragona le “rivolte democratiche” del Terzo mondo a quelle che hanno posto fine ai “socialismi” dell’Europa dell’Est, in seguito alla caduta del “muro di Berlino”. Si tratta di un imbroglio puro e semplice.
Infatti, qualsiasi fossero state le ragioni (comprensibili) delle rivolte in questione, queste si inscrivevano nella prospettiva dell’annessione della regione da parte delle potenze imperialiste dell’Europa Occidentale (in primo luogo, a tutto vantaggio della Germania).
In buona sostanza, ridotti ormai alla condizione di “periferie” dell’Europa capitalista sviluppata, i paesi dell’Europa Orientale conosceranno domani la loro rivolta autentica. Ci sono già segnali premonitori, nella ex-Jugoslavia in particolare.
Le rivolte, potenzialmente portatrici di progressi rivoluzionari, sono da prevedersi pressoché nei tre continenti, più che mai dimore della zona delle tempeste, di sconvolgimenti rivoluzionari, smentendo con questo i discorsi sciropposi sul “capitalismo eterno”, la stabilità, la pace, e il progresso democratico che al capitalismo vengono associati.
Ma queste rivolte, per trasformarsi in avanzate rivoluzionarie, dovranno superare numerosi ostacoli: da una parte, andare oltre le insufficienze del movimento, costruire convergenze positive fra le sue componenti, concepire e mettere in atto efficaci strategie, ma d’altra parte opporsi agli interventi (compresi quelli militari) della triade imperialista. Questo, perché qualsiasi intervento militare degli Stati Uniti e della NATO nelle questioni dei paesi del Sud del mondo, qualsiasi sia il pretesto, fosse anche il più convincente e condivisibile all’apparenza – come l’intervento “umanitario”- deve essere proscritto. L’imperialismo non vuole progressi sociali, tanto meno la democrazia per questi paesi.
I servi che l’imperialismo mette a comandare quando vince le battaglie resteranno nemici della democrazia. Non si può che deplorare il fatto che la “sinistra” europea, anche quella radicale, abbia cessato di comprendere ciò che è l’imperialismo.
Il discorso oggi dominante invoca l’applicazione di un “diritto internazionale”, che autorizza in linea di principio l’intervento, quando i diritti fondamentali di un popolo sono beffati. Ma le condizioni non si sono ancora coagulate per permettere di avanzare in questa direzione.
La “comunità internazionale” non esiste. La comunità si compendia nell’ambasciatore degli Stati Uniti, seguito a ruota automaticamente da quelli dell’Europa.
È proprio necessario fornire il lungo elenco di questi interventi, oltremodo disgraziati, criminali nei loro risultati (l’Iraq, ad esempio)? È proprio necessario ricordare il principio “due pesi, due misure” che li caratterizza (con tutta evidenza bisogna fare riferimento ai diritti beffati dei Palestinesi e all’incondizionato sostegno dato ad Israele, e alle innumerevoli dittature sempre appoggiate in Africa)?
Le primavere dei popoli del Sud e l’autunno del capitalismo
Le “primavere” dei popoli arabi, come quelle che i popoli dell’America latina hanno conosciuto da circa un ventennio, che io definisco la seconda ondata del risveglio dei popoli del Sud – la prima si era dispiegata nel ventesimo secolo fino alla controffensiva del capitalismo/imperialismo neoliberista – rivestono forme diverse, che vanno dalle esplosioni dirette contro le autocrazie, che hanno precisamente accompagnato il dispiegarsi neoliberista, alla rimessa in discussione dell’ordine internazionale da parte dei “paesi emergenti”.
Dunque, queste primavere coincidono con l’“autunno del capitalismo”, il declino del capitalismo dei monopoli generalizzati, globalizzati e finanziarizzati. I movimenti, come quelli del secolo precedente, partono alla riconquista dell’indipendenza dei popoli e degli Stati delle periferie del sistema, riprendendo l’iniziativa nella trasformazione del mondo.
Allora, prima di tutto, sono movimenti anti-imperialisti, e dunque solo potenzialmente anti-capitalisti. Se questi movimenti perverranno a convergere con l’altro risveglio inevitabile, quello dei lavoratori dei centri imperialisti, potrebbe designarsi una prospettiva autenticamente socialista su scala dell’umanità intera. Ma questo in alcun modo è da registrasi in anticipo come una “necessità della storia”. Il declino del capitalismo può aprire la via ad una lunga transizione al socialismo, così come può coinvolgere l’umanità sul cammino della barbarie generalizzata.
Il progetto del controllo militare del pianeta da parte delle forze armate degli Stati Uniti e dei loro alleati subalterni della NATO, sempre in corso, il declino della democrazia nei paesi del centro imperialista, il rifiuto reazionario della democrazia nei paesi del Sud del mondo in rivolta (che assume la forma di illusioni para-religiose “fondamentaliste”, che l’Islam, l’Induismo e il Buddismo politici propongono) operano insieme in questa prospettiva nefanda.
La lotta per la democratizzazione laica prende quindi una dimensione decisiva nel momento attuale, che oppone la prospettiva di una emancipazione dei popoli a quella della barbarie generalizzata.
►Letture complementari:
Hassan Riad, L’Egypte nassérienne, Minuit 1964
Samir Amin, La nation arabe, Minuit 1976
Samir Amin, A life looking forward, Memories of an independent Marxist, Zed, London 2006
Samir Amin, L’éveil du Sud; Le temps des cerises, 2008
In questi testi, il lettore troverà le mie considerazioni sulle realizzazioni del Vicere Mohamed Ali (1805-1848) e dei Khedivé che gli sono succeduti, in particolare di Ismail (1867-79), del Wafd (1920-1952), delle prese di posizione del comunismo egiziano difronte al nasserismo, della deriva della Nahda, da Afghani a Rachid Reda.
Gilbert Achcar, Les Arabes et la Shoah, Actes Sud, 2009.
Si tratta della migliore analisi sulle componenti dell’Islam politico (di Rachid Reda e dei Fratelli Musulmani, dei salafiti moderni).
Per quanto riguarda il rapporto tra il conflitto Nord-Sud e quello che oppone l’avviamento della transizione socialista alla diffusione continua del capitalismo, vedere:
Samir Amin, La crise, sortir de la crise du capitalisme ou sortir du capitalisme en crise ?; Le temps des cerises, 2009
Samir Amin, La loi de la valeur mondialisée ; Le temps des cerises, 2011
Samir Amin, Pour la cinquième internationale ; Le temps des cerises, 2006
Samir Amin, The long trajectory of historical capitalism ; Monthly Review, New York, febbraio 2011
Gilbert Achcar, Le choc des barbaries, Ed Complexe, Bruxelles
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