E’ a tutti evidente che il pensiero borghese, giacché pensiero dominante, ha potuto continuare questa sua funzione di sostegno, ma anche di rinforzo (a secondo del variare delle condizioni storiche e dei mutati rapporti di forza all’interno del conflitto capitale/lavoro), soprattutto nell’ultimo quarto del Novecento.
A partire, infatti, dal 1973 (da quello che Hobsbawm chiama il crollo), le diverse teorie (borghesi) sulla crisi (e sull’ingovernabilità) cambiano pelle: essa non è più presentata come una patologia, una malattia da debellare nel corpo sano del modo di produzione capitalistico. Questa tradizionale concezione della crisi, non potendo più sostenere visioni ottimistico-apologetiche, aveva in precedenza portato il punto di vista delle classi dominanti sull’orlo del baratro: Il tramonto dell’Occidente lo aveva definito Spengler, così tra le due guerre e, soprattutto dopo il ’29, il sovversivismo delle classi dirigenti aveva voluto arginare questo movimento reale avvertito come un precipizio. Paura della storia e, quindi, avversione orgogliosa al cambiamento. Nella semantica dei concetti politici – e con buona pace di entrambi i contendenti – conservatore e riformista, reazionario e rivoluzionario, significavano allora questo: paura della crisi da una parte, speranza in essa dall’altra. Chiunque oggi presti, senza neanche tanta perspicacia, attenzione al dibattito pubblico non può, invece, che registrare uno slittamento semantico non da poco: i conservatori di ieri (e di sempre) sono i riformisti di oggi. La critica neoconservatrice, infatti, dalla metà degli anni Settanta, interpreta la fase attuale assumendo in proprio quel concetto di crisi strutturale che fino a poco tempo prima era appannaggio esclusivo della critica marxista: il conflitto è riconosciuto come dato permanente e insopprimibile. Non si tratta, ovviamente, di semplice affinità ma è la spia di una duplice condizione: la capacità del pensiero dominante di sussumere categorie altre governandole e l’inerzia (o la stagnazione) della cultura marxista attorno al concetto della crisi. Come se essa (la crisi) rappresentasse il viatico necessario e sufficiente per una fuoriuscita dal capitalismo e al movimento operaio toccasse solo di nuotare in favore di corrente senza interrogarsi a sufficienza su come fare effettivamente la rivoluzione in occidente. Si è sopravvalutata, cioè, la logica degli interessi economici dominanti derivandone le contraddizioni e i paradossi della democrazia in modo meccanico. Non è un caso, infatti, che le grandi rivoluzioni socialiste sono avvenute fuori dal cuore dell’Occidente, fuori cioè da quest’idea progressiva e lineare di armonia che una tale rappresentazione del movimento storico sottende: una dialettica antagonistica ma complementare di forze. Ed è proprio qui che si annida un’altra variabile (subalterna) del medesimo gioco di posizionamento tra critica neoconservatrice e critica di sinistra (non più marxista) rispetto al baricentro della crisi e al suo riflesso politico: il venir meno della configurazione classica della nozione di stato. Questa lunga fase attuale è interpretata come il venir meno dell’autorità politica dello Stato, come se lo Stato perdesse cioè la sua costitutiva facoltà di sintesi e, quindi, perdendo questa, il Leviatano può liberare quei poteri e quei conflitti che dalla fondazione dello stato moderno aveva, invece, fotografato nei suoi rapporti di forza e di proprietà. Ma, mentre per la critica neoconservatrice, l’arretramento della soglia d’intervento della sintesi politica operata dallo Stato è in linea con le stesse ragioni della sua costituzione storica, vale a dire con la garanzia che i detentori dei beni non rischino i margini di proprietà messi a rischio dal bellum omnium contra omnes, per chi ha (o dovrebbe avere) a cuore la transizione a un mondo diverso le cose non possono andare così. Ancora una volta il pensiero rivoluzionario, che dovrebbe essere antagonista e rappresentare gli interessi della classe dei lavoratori, subisce una sconfitta (per fortuna non mortale) perché la moneta di scambio con cui paga l’alienazione del concetto di crisi strutturale è l’introiezione di quel modello statale di cui Marx aveva denunciato l’astrazione dell’uomo reale.
Quindi: la critica neoconservatrice acquisisce concretezza espropriando la critica marxista del concetto di crisi strutturale ma per addomesticarla all’interno del proprio dominio culturale e ideologico, mentre la critica di sinistra (non marxista) perde concretezza e acquista l’ideologica e astratta nozione di stato, collocandosi a migliaia di piedi di altitudine dalle dinamiche reali di trasformazione che riguardano i paesi a capitalismo avanzato. Lo scambio, cioè la transazione negli strumenti interpretativi della realtà ha, così, portato la sinistra ad assumere acriticamente il concetto neoconservatore di governo della crisi limitandosi all’impostazione keynesiana e ad allontanare da sé l’altro spazio semantico che lascia aperto il concetto di governo: quello della capacità d’indirizzare (e di guidare) verso la trasformazione dell’esistente. Dimenticando, inoltre, quanto il tutto determini la qualità delle parti: che è cosa, cioè, ben diversa il governo della crisi fatto a Cuba (o, al limite, in Cina) all’interno di una cornice socialista, dal governo della crisi dentro la cornice di uno stato liberale e borghese. Ancora di più: manifestando quanto la presa del potere rappresenti, per una sinistra non più di classe, un tabù solo se è declinata in senso rivoluzionario, ma è vissuta, al contrario, come condizione essenziale quando rimane subalterna all’ordine costituto delle cose.
Se il pensiero marxista può, in questa fase, battere un colpo è insistendo sul carattere sistemico e non strutturale della crisi. Spiegare, dunque, che con i tempi lunghi (anche lunghissimi) della storia il modo di produzione capitalistico è sì portato irrimediabilmente alla catastrofe, ma che l’evento catastrofico in sé non è un rivolgimento in senso opposto: non ha una direzione prestabilita e questa può anche rappresentare una discontinuità ma non una rivoluzione. È questo lo spazio della politica.
D’altra parte, infatti, il tratto caratterizzante della formazione sociale sotto il modo di produzione capitalista è dato proprio dalla neutralizzazione politica della sfera della produzione, cioè delle forze produttive: neutralizzazione che opera lo sganciamento della materialità della produzione, degli interessi, attraverso la normazione universalizzante della politica. Qui è la contraddizione insanabile che un vivificato pensiero marxista deve saper cogliere: una sfera di mercato neutralizzata (e l’intero corpo sociale) è, nei fatti, spoliticizzata (quindi privatizzata al massimo livello) ma attraverso un’universalizzazione che richiama la politica. Sovrastimare, all’interno dell’agire politico, i movimenti sociali (proprio perché spoliticizzati dalla normazione universalizzante del pensiero dominante) non è, dunque, il modo corretto d’intendere la marxiana relazione dialettica tra struttura e sovrastruttura. Se si rimane in questo errore si persevera nella subalternità alla razionalizzazione capitalistica che tratta la classe e la sua scomposizione come interfaccia dello stato moderno. Abbiamo bisogno, come marxisti, di una teoria politica della crisi, perché le crisi economiche, in mancanza di un’adeguata teoria critica, non producono un’opposizione reale o pratiche rivoluzionarie, ma soprattutto disponibilità all’adattamento e all’integrazione.
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