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Un “noi” completamente diverso da “loro”

Ogni commentatore ha preso dalla schiacciante vittoria referendaria (sottolineo: schiacciante) quel che più gli serviva o tranquillizzava. Lungi da cercare di dare una sintesi, vorrei invece sottoporre ai lettore alcuni punti che mi sembrano rilevanti e non rilevati.

 

In primo luogo è una vittoria della cultura dei beni comuni contro il profitto e la privatizzazione. Non era mai accaduto prima che il popolo si potesse pronunciare su un tema così “strutturale”, ma lo ha fatto con grande nettezza. La parte di popolazione che si percepisce come cittadinanza attiva ha detto senza se e senza ma che una serie di beni sono e debbono restare indisponibili per l’iniziativa privata, che ha costitutivamente come sua unica motivazione la ricerca di profitto. Si fa impresa per far soldi, se poi questo abbia o no un’utilità sociale – per l’imprenditore – è indifferente. Sembrava diventato un luogo comune, ripetuto senza nemmeno più doverci riflettere sopra, che “privato è meglio di pubblico”, con un subisso di para-argomenti indimostrabili come: “fa diminuire le tariffe”, “riduce gli sprechi”, “migliora l’efficienza”, “è più moderno”, ecc.

Bene, nella testa della nostra gente questa bufala non è mai passata davvero. Non si trovavano magari le parole per dire forte e alto che non è vero, ma in pochi se n’erano accorti. Messi davanti a una cosa concreta – l’acqua, ma anche l’energia – le persone si sono rivelate capaci di pensare e scegliere la cosa giusta. E’ un insegnamento da tenere a mente sempre: la politica si fa con i grandi numeri e per avanzare bisogna andare al cuore delle questioni, mettere in evidenza il merito dei problemi, illuminare la scelta possibile tra due alternative ben definite. I risultati poi arrivano.

E se “il privato” non è la cura per la crisi, è più facile – lavorando su esempi pratici, non per affermazioni dottrinarie – che possa essere individuato come la malattia. A livello di massa.

Questa vittoria, in questo senso, sbarra la strada – sul piano programmatico – a qualsiasi tentativo di raggiungere gli stessi obiettivi privatizzatori per altra strada (governo tecnico, centrosinistra riverniciato, governo del Presidente o di “salvezza nazionale”).

Lunga vita, dunque, ai comitati, ai sindacati di base, ai movimenti che hanno nuotato per anni controcorrente pur di arrivare a un risultato simile.

 

In secondo luogo, è una vittoria di popolo contro la politica di palazzo. Il fatto che “il carro del vincitore” si sia riempito all’inverosimile col passare delle settimane e persino all’ultimo minuto dà la misura della potenza con cui alcuni valori si sono imposti nella maggioranza degli italiani. Solo due partiti – uno parlamentare, l’altro extraparlamentare malgré lui – in definitiva, si erano spesi fin da subito per la raccolta delle firme: Idv e Rifondazione Comunista. Poca roba in termini di radicamento sociale, esposizione mediatica, capacità di mobilitazione. La massa critica, lo “zoccolo duro” della mobilitazione, è arrivata dall’aggregazione spontanea, orizzontale, variegata e variopinta su questioni terribilmente specifiche e, spesso, poco propensa a trovare momenti di confronto interno tra simili. E’ evidente, dal nostro punto di vista, che questa sia anche la debolezza principale.

Ma intanto constatiamo come questo voto evidenzi la distanza irrecuperabile tra “la politica” – il gruppo in fondo non troppo folto di “occupatori professionali di poltrone”, clientes e portaborse, “dichiaranti” in talk show – e “la società” che tende ad autorganizzarsi indipendentemente e contro. Stiamo dando la fotografia di un momento – l’attuale – in un processo che incuba da almeno 20 anni e che non è arrivato né a maturazione né tantomeno alla “fase finale”. Parliamo del processo esploso dopo la caduta del Muro e che, sbrigativamente, viene definito “fine dei partiti di massa”; ovvero radicati, articolati nei corpi sociali intermedi, cresciuti nella funzione di “raccolta” delle tensioni sociali e nella definizione di “sintesi politica”, ovvero programmi, misure specifiche, articolati di legge, delibere, ecc. Cui è seguito l’avvento dei “partiti leggeri”, specializzati nell’occupazione totale dello spazio mediatico come sostitutivo del radicamento popolare. E che hanno consegnato al proprietario e disegnatore dei media – il Cavaliere ridens – le chiavi del paese. Ma tutti insieme, maggioranza e opposizione “democratica” (comunisti parlamentari compresi), progressivamente più distanti dal paese reale, dalle sue pulsioni e dalle sue paure (pur sollecitate in modo professionale dalla destra e non solo). Una frattura, insomma, tra una classe dirigente politica che, al di là delle differenze esibite, convergeva e converge nel prendere a riferimento le esigenze del mondo imprenditoriale, della finanza, della rendita immobiliare; declinandole infine in “riforme” che hanno ridisegnato in senso reazionario i rapporti tra impresa e lavoro, tra forme e pratiche della democrazia.

La crisi ha costretto le persone a guardarsi in tasca, a fare i conti, a riscoprire il proprio interesse e a cercare “il simile” che lo condivide. A scoprire un “noi” completamente diverso da “loro”. Un “noi” che ha dato una scrollata di spalle per dire “basta” a questo modo di fare, di condizionare la vita di tutti per soddisfare l’avidità di pochi.

 

In terzo luogo, è stata una vittoria molteplice. Ha votato sì chi voleva l’acqua pubblica o il rifiuto definitivo del nucleare, ma anche chi non era interessato a questo problema ma voleva punire Berlusconi e le leggi ad personam; tanti motivi diversi, coalizzati in un gesto liberatorio ma non predeterminabile per via politico-partitica. Nessuno di loro, da solo, avrebbe vinto.

Nelle società complesse non si dà “comunicazione verticale” tra potere e popolo. Chi lo tenta, come ha fatto Berlusconi cercando la conquista del controllo di tutte le emittenti principali come un Mubarak o un Assad fuori luogo, alla fine diventa il catalizzatore dello scontento. E la crisi, indubbiamente, ha aumentato lo scontento, la paura, l’ansia di cambiare.

La forza del molteplice – o come amano dire i negriani, del “molecolare” o “reticolare” – è anche però la sua principale debolezza. Può sbarrare la strada a qualcosa che non gli piace, ma non definisce un progetto di società, un nuovo modello di sviluppo, un’altra idea di paese. Non seleziona una nuova classe dirigente, ma sicuramente tante “avanguardie di massa” poco o nulla collegate tra loro. Non è poco, dopo tanti anni di rassegnazione popolare. Ma non è sufficiente a far girare stabilmente il vento.

Costruire questa classe dirigente, lasciar spazio alle idee e modalità di intervento accompagnandole con la visione di lungo periodo, la conoscenza scientifica del modo di produzione e delle sue rime di frattura; far maturare una consapevolezza strategica e progettuale capace di tenere insieme profondità d’analisi e linguaggio da “grandi numeri”; riuscire a orientare il molteplice evitando la stupida tentazione di ridurlo al semplice. Questo è quello che manca. Questo è il compito.

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