Lunedì 4, all’indomani delle manifestazioni in Val di Susa, a proposito della Tav un articolo in prima pagina su La Stampa sosteneva che non bisogna andare troppo per il sottile riguardo le distinzioni tra manifestanti buoni e cattivi, violenti e non, quando questi in comune rivendicano un linguaggio ed un’impostazione da guerra civile. Perchè la democrazia, ci ricorda l’autore riprendendo un intervento di Chiamparino, è fatta di regole, per cui decisioni prese con i meccanismi legittimi di deliberazione non possono essere ostaggio di una “minoranza localistica condannata a diventare l’alibi dei professionisti della guerriglia”. E questi meccanismi sono gli unici in grado di integrare esigenze internazionali (le richieste di un Unione Europea che rappresenta tutti i cittadini europei), interessi nazionali (rappresentato dalle legittime istituzioni che agiscono per il bene del sistema-paese), e richieste locali (che si esprimono nei tavoli tecnici e osservatori). E che lasciano spazio pure per i non contenti, liberi di esprimere il proprio dissenso.
Queste le legittime mediazioni assegnate al rappresentato per far valere la propria posizione.
Come mai allora in così tanti e determinati, talmente tanti da inondare una valle, talmente determinati da far saltare le solite dicotomie violenti/non violenti, non si è accettato questo destino di sostanziale passività politica?
Figure della Democrazia
Uno spunto lo si può trovare nel supplemento Affari&Finanza di Repubblica dello stesso giorno (la stessa Repubblica che titolava “Giorno di battaglia in Val di Susa” e infamava quella giornata di lotta) in cui si offriva un’analisi impietosa dei “Tiranni del Rating”, ovvero delle agenzie di rating che, nonostante i disastri combinati prima e durante il crollo finanziario legato ai mutui subprime e i palesi conflitti di interesse che in quell’occasione emersero, continuano ad esercitare un influenza
determinante sui mercati azionari tanto da essere definiti dal presidente dell’Autorità Federale per la Supervisione Finanziaria (BaFin) di Germania “il più grande potere incontrollato del sistema finanziario internazionale e quindi anche dei sistemi finanziari nazionali” (citato da Repubblica stessa). Influenza che sappiamo quanto ora gravi direttamente sulle economie nazionali dato che ogni declassamento nel rating implica direttamente un aumento del costo del debito.
D’altronde in un mondo in cui i capitali (finanziari o industriali) sono liberi di muoversi dove meglio credono e in tempi brevissimi, lo Stato (ma anche le comunità di stati), pena la bancarotta, è vincolato a offrire politiche economiche gradite ai mercati e quindi, come una qualsiasi azienda quotata in borsa, a tenere sempre sott’occhio il rating dei propri titoli. Solo che, mentre la produzione e la circolazione di merci si globalizza e il mercato si fa mondiale, l’esercizio della sovranità rimane legato al territorio e le autorità di regolazione mondiale o sono impotenti o oppresse da pesanti conflitti di interesse (si pensi alle sopracitate agenzie di rating o al peso degli Stati Uniti nelle deliberazioni dell’ONU e dell’ FMI); portando così gli stati a competere per offrire le condizioni materiali, logistiche, legali che garantiscano la profittabilità desiderata agli investimenti (che può significare basse tutele del lavoro, norme ambientali poco stringenti, ecc..), il massimo numero di settori in cui investire (privatizzando il più possibile), la solvibilità del proprio debito (magari tagliando il welfare).
Se si aggiunge che la velocità dei cambiamenti e delle decisioni economiche (e le conflittualità che eventualmente suscitano) costringono la politica a tenere il passo attraverso decreti legge e altri strumenti in grado di aggirare il lungo e farraginoso iter parlamentare, non desta stupore allora il ricorso sempre più diffuso a legislazioni speciali per far fronte ad emergenze quasi permanenti, a continui casi eccezionali, fino a derogare a tal punto le invocate regole democratiche da rendere irriconoscibile una democrazia costretta quasi a negarsi pur di salvare se stessa.
Se poi tutto questo non basta la tolleranza verso zone grigie del diritto, verso situazioni di illegalità diffusa (si pensi al ruolo strutturale che hanno il lavoro nero e l’evasione fiscale all’interno di interi settori economici del nostro paese), se non la vera e propria collusione diretta con la criminalità organizzata, tappano i restanti buchi facendo assumere ai fenomeni mafiosi caratteristiche strutturali e non circoscrivibili al folklore di un paese arretrato (ovvio che poi in tutto questo c’è chi ne approfitta e si ingrassa oltre a ciò che sarebbe necessario per la riproduzione di questo sistema).
Quando in momenti di crisi economica poi le mediazioni rimaste finiscono per saltare – come quelle dei sindacati, stetti in una morsa che li costringe o ad accettare ed accompagnare questi processi o li condanna all’isolamento – e questa condizione patologica si fa ancora più acuta, le deliberazioni di queste “post-democrazie” (che assumono tratti da tecno-burocrazie paramafiose) si traducono sempre più nella violenza della disoccupazione, della nocività del lavoro, della povertà, della precarietà, della devastazione del territorio. Diventa allora difficile che il “no” di chi non è disposto ad accettare tutto ciò si limiti a rimanere quello di una crocetta su un sondaggio di opinione e non assuma i tratti di una necessaria e sacrosanta resistenza.
Resistenze che attraverso l’organizzazione operaia, le lotte nelle università, i comitati territoriali, infiammano dalla Spagna all’Egitto, dalla Grecia al Bahrain. Passando per la Val di Susa.
Fisionomia di una Comunità
In Val di Susa i caratteri di questo potere si manifestano limpidamente: in nome di nuovi profitti da farsi attraverso un mercato allargato e l’indotto che ne deriverà, una decisione nata in seno alla stessa UE che ha dovuto inventare i procedimenti più tortuosi per bypassare la volontà popolare di numerose nazioni per ratificare un Trattato di Lisbona che riuscisse ad imporre un’ Europa liberista e sancire definitivamente la spada di Damocle del patto di stabilità e che ora lega le mani a governi delle più varie estrazioni (ricordiamo che in Grecia ci sono i socialisti) egualmente costretti a imporre politiche di austerity ai propri cittadini; una decisione che passa per una politica sempre più ridotta a marketing elettorale e pesantemente influenzata da e appoggiantesi su un’imprenditoria paracriminale (un ultimo esempio si ha nella condanna in primo grado per turbativa d’asta al direttore generale della società che dovrebbe costruire il tunnel); una decisione che viene legittimata da un osservatorio tecnico relegato al semplice ruolo di ininfluente consultazione (tanto da far dimettere tutti i rappresentanti delle istituzioni locali); insomma una decisione nata in seno alle regole democratiche, chiede di essere accettata passivamente – e dopo anni di cortei, di raccolta firme, di sondaggi, limitarsi ad “esprimere il proprio dissenso” (e in che forma poi?) significa sostanzialmente questo.
Perchè ciò avvenga si militarizza il territorio, si costituisce uno stato di polizia in cui per questioni di ordine pubblico i margini tra arbitrio e applicazione della norma si fanno sottili fino a scomparire: vengono allora elevate recinzioni abusive, a molti e senza chiari fondamenti non è permesso avvicinarsi ai propri vigneti vicini al cantiere, le vessazioni e la sbruffonaggine poliziesca diventano quotidiane, la velocità delle operazioni militari miete vittime “collaterali” (come la pensionata investita e trascinata da un blindato dei carabinieri a Venaria).
In nome del progresso, dello sviluppo, della competitività. O, secondo i valligiani, in nome di smog, tumori, speculazioni. Che per questo hanno deciso di puntare i piedi.
Lottando e discutendo si è cementificata una comunità in grado di decostruire le narrazioni del potere e di far valere le proprie ragioni. Una comunità che non si identifica con la somma degli individui presenti in quel territorio e con i loro privati interessi, ma quella comunità che si è costituita attraverso 20 anni di confronto assembleare in cui le analisi di intellettuali, professori universitari, scienziati, si incrociavano con le esperienze di vita quotidiana, con la dimensione lavorativa ed esperienziale degli abitanti, e che hanno costruito un immaginario in grado di svelare la non neutralità di parole come “progresso” e “crescita”. Costituitasi attraverso realtà come quelle della “Libera Repubblica della Maddalena”, richiamantesi idealmente alle libere repubbliche partigiane di cui furono piene quelle terre, in cui si sono tenuti per un mese dibattiti, discussioni di libri, conferenze, concerti, spettacoli teatrali, su ambiente, politica, storia in un’ottica tanto locale quanto necessariamente internazionale, che chi ha vissuto racconta essere state esperienze di vera vita comune.
Parliamo di 20 anni di manifestazioni, boicottaggi, occupazioni che hanno prodotto una sensibilità comune e pratiche condivise e che, anche attraverso il sostegno e la partecipazione ad iniziative e mobilitazioni nel resto d’ Italia (e non solo), hanno reso possibile il riconoscersi come simili aldilà delle distanze geografiche e delle diverse biografie perchè compagni di lotta contro un’analoga ingiustizia.
Non meraviglia allora che quando, con l’apertura del cantiere, rispondere in maniera determinata e organizzata era necessario, il movimento No Tav, con il sostegno di compagne e compagni da tutta Italia e dalla Francia, l’abbia reso finalmente possibile.
Forme della Non-Violenza
Si poteva infatti accettare di limitarsi all’espressione del dissenso entro i limiti della legge, limiti in ultima analisi tarati di modo da renderlo ininfluente. Limiti che possono arrivare a comprendere la restrizione delle libertà di opinione (quando infatti per raggiungere lo stesso risultato non basta il potere della disinformazione mass-mediatica, nascono leggi liberticide come quella contro la rete di recente in discussione); margini derogabili e modificabili in ragione del livello di conflittualità, e non di certo costruiti, per quanto come tali vengano spacciati, al fine di tutelare la salute, la dignità, l’integrità delle persone, essendo essi i gendarmi a tutela delle stesse norme distruttive e mortifere di cui sopra.
Si poteva accettare questa sostanziale inazione e dietro l’etichetta della “non-violenza” lasciare la violenza sovrana libera di estendersi.
Si è deciso invece di rispondere alla forza con cui quest’ordine nocivo prova ad imporsi costruendo pratiche in grado di rompere i meccanismi della sua perpetuazione. Anche attraverso l’assedio e i sabotaggi.
Interrogandosi però sulla forma di queste pratiche; sperimentando la costruzione di un contro-potere (adesso sì) non-violento; non violenza che ha un senso diverso, che non si misura sulle manifestazioni empiriche attraverso cui si dispiega l’uso della forza (categorie buone per lo spettacolo), ma sulla forma delle relazioni sociali che nascono e si sviluppano nella lotta. Ed è qui che le giornate di lotta in Val di Susa diventano qualcosa di più che un semplice episodio di resistenza popolare, per diventare un esempio: una comunità aperta che realizza sé stessa accogliendo con calore e ricambiata riconoscenza il contributo altrui, e che si costituisce in un confronto con le più diverse sensibilità rompendo stereotipi affermati per raggiungere scopi condivisi. Un luogo in cui un’organizzazione lucida e trasparente e momenti di spontanea ed efficacie autorganizzazione hanno permesso a tutti secondo le proprie capacità di concorrere al comune bisogno. Un’esperienza in cui un legame fondato sulla solidarietà, sulla fiducia reciproca, sul rispetto si contrapponeva all’arroganza e la prepotenza di chi, come rappresentante del potere, è addestrato al suo abuso; in cui la moderatezza e la responsabilità stridevano come l’acciaio con le pratiche di chi pur di difendere l’autorità è disposto a violare le leggi su cui essi si fonda e si legittima, lanciando lacrimogeni ad altezza uomo, tirando pietre dall’alto di un’autostrada, infierendo sadicamente su vittime inermi.
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Qualcosa sta cambiando in Italia e nel mondo, ed è possibile che il vuoto generato dalla crisi di legittimità che investe le democrazie moderne non sia necessariamente destinato ad essere colmato da svolte autoritarie protofasciste. Se il movimento No Tav continuerà ad essere un luogo in cui è possibile costruire percorsi comuni di critica dell’orizzonte mortifero a cui si racconta siamo destinati e pratiche e relazioni sociali “altre”, allora è possibile che “minoranze localistiche” da isole felici diventino un riferimento a cui guardare.
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