Noam Chomsky: Guardando all’11/9 dieci anni dopo
Un certo numero di analisti ha osservato che, benché Bin Laden fosse stato finalmente ucciso, aveva ottenuto alcuni importanti successi nella sua battaglia contro gli Usa. “Ha sostenuto più volte che l’unica maniera di tenere gli Stati Uniti fuori dal mondo Musulmano e sconfiggere i suoi satrapi era trascinare gli Americani in una serie di piccole ma costose guerre che li avrebbero infine portati alla bancarotta”, scrive Eric Malgoris. “‘Dissanguando gli Stati Uniti’ testuali parole”. Gli Stati Uniti, prima sotto George W. Bush e poi sotto Barack Obama, sono andati dritti incontro alla trappola di Bin Laden… Spese militari grottescamente ingigantite, e l’assuefazione al debito… potrebbero essere l’eredità più perniciosa dell’uomo che pensava di poter sconfiggere gli Stati Uniti” – soprattutto dal momento che l’estrema destra sta cinicamente sfruttando il debito, con l’acquiescenza dell’establishment Democratico, per minare quello che rimane dei programmi sociali, dell’istruzione pubblica, dei sindacati, e, in generale, ciò che resta degli ostacoli alla tirannia delle corporation.
Che Washington fosse destinata a realizzare i ferventi desideri di Bin Laden fu subito chiaro. Come trattato nel mio libro Undici settembre, scritto poco dopo gli attacchi, chiunque avesse familiarità con la regione poteva arrivare alla conclusione “che un attacco massiccio alla popolazione Musulmana sarebbe la risposta alle preghiere di Bin Laden e dei suoi affiliati, e condurrebbe gli Stati Uniti e i loro alleati in una ‘diabolica trappola,’ come ha detto il ministro degli esteri Francese”.
Il funzionario della Cia responsabile della caccia a Osama Bin Laden dal 1996, Michael Scheuer, scrisse poco dopo che “Bin Laden è stato preciso nel descrivere le ragioni per cui ha deciso di muoverci guerra. [Lui] si propone di alterare drasticamente le politiche Statunitensi e Occidentali verso il mondo Islamico,” e ha avuto un ampio margine di successo: “Le forze armate e le politiche Statunitensi stanno completando la radicalizzazione del mondo Islamico, qualcosa che Osama Bin Laden sta provando a fare con grande, sebbene incompleto, successo dai primi anni Novanta. Di conseguenza, penso sia ragionevole concludere che gli Stati Uniti d’America rimangono il solo alleato indispensabile di Bin Laden.” E senza dubbio è ancora così, persino dopo la sua morte.
Il primo 11 Settembre
Esisteva un’alternativa? Con ogni probabilità il movimento Jihadista, gran parte del quale estremamente critico riguardo Bin Laden, poteva essere diviso e indebolito dopo l’11 Settembre. Il ‘’crimine contro l’umanità,’’ com’è stato giustamente definito, poteva essere affrontato come un crimine, con un’operazione internazionale per prendere in custodia i probabili sospettati. Questo venne riconosciuto all’epoca, ma l’idea non fu nemmeno presa in considerazione.
In Undici settembre, ho citato la conclusione di Robert Fisk che “l’orrendo crimine” dell’11 Settembre era stato commesso con ‘’cattiveria e crudeltà inaudita,’’ un giudizio accurato. E’ utile ricordare che i crimini avrebbero potuto essere anche peggiori. Si pensi, per esempio, se l’attacco fosse arrivato al punto di coinvolgere la Casa Bianca, uccidendo il presidente, imponendo una brutale dittatura militare che avesse ucciso decine di migliaia di persone e torturato altre decine di migliaia costituendo al contempo un centro del terrore internazionale che avrebbe aiutato a imporre altrove Stati del terrore e della tortura dello stesso tipo e realizzato una campagna internazionale di omicidi; e come scossa ulteriore, avesse coinvolto un team di economisti – chiamateli ‘i ragazzi di Kandahar’ – che avrebbero rapidamente portato l’economia ad una delle peggiori depressioni della sua storia.
Questo, francamente, sarebbe stato molto peggio dell’11 Settembre.
Sfortunatamente non è un caso ipotetico. E’ successo. L’unica inesattezza di questo breve resoconto è che il numero dovrebbe essere moltiplicato per 25 per ottenere i corrispettivi pro capite, la misura appropriata. Sto ovviamente parlando di quello a cui in America Latina ci si riferisce spesso come “il primo 11 Settembre”: 11 Settembre 1973, quando gli Stati Uniti riuscirono nel loro intenso sforzo di far cadere il regime democratico di Salvador Allende in Cile con un golpe militare che mise al potere il brutale regime del Generale Pinochet. L’obiettivo, nelle parole dell’amministrazione Nixon, era uccidere il “virus” che avrebbe potuto incoraggiare tutti quegli “stranieri [che] hanno in mente d fregarci” per ottenere il controllo delle loro risorse e impedire che perseguissero un’intollerabile politica di sviluppo autonomo. Sullo sfondo, l’opinione del Consiglio di Sicurezza Nazionale secondo cui, se gli Stati Uniti non avessero controllato l’America Latina, non avrebbero poturo aspettarsi di “ottenere un ordine positivo altrove nel mondo.”
Il primo 11 Settembre, diversamente dal secondo, non ha cambiato il mondo. Non fu “nulla di rilevante”, come Henry Kissinger assicurò al suo capo pochi giorni dopo.
Questi eventi di scarsa rilevanza non si limitavano al golpe militare che ha distrutto la democrazia cilena e messo in moto la storia di orrori che ne seguì. Il primo 11 Settembre non è stato altro che l’atto di una tragedia iniziata nel 1962, quando John F. Kennedy cambiò la missione dell’esercito in America Latina da “difesa emisferica” – un retaggio anacronistico della Seconda Guerra Mondiale – a “sicurezza interna,” un concetto interpretato in maniera agghiacciante dai circoli latinoamericani dominati dagli Stati Uniti.
In ‘’Storia della Guerra Fredda’’ pubblicata di recente dall’Università di Cambridge, lo studioso dell’America Latina John Coatsworth scrive che da allora sino al “collasso Sovietico nel 1990, il numero di prigionieri politici, vittime di tortura, ed esecuzioni di dissidenti politici non-violenti in America Latina, superò di gran lunga lo stesso numero dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti dell’Est Europeo,” includendo anche molti martiri religiosi e omicidi di massa, sempre col supporto o per iniziativa di Washington. L’ultimo grande atto di violenza fu il brutale omicidio di sei intellettuali di rilievo latinoamericani, preti gesuiti, pochi giorni dopo la caduta del muro di Berlino. I responsabili erano i membri di un battaglione salvadoregno d’elite che aveva già lasciato una scioccante scia di sangue. Freschi di corso d’addestramento alla Jfk School of Special Warfare, avevano agito su ordine diretto dell’alto comando di uno stato cliente degli Stati Uniti.
Dal rapimento e la tortura all’omicidio
Tutto ciò, e molto altro ancora, è archiviato come elemento di scarsa rilevanza, e dimenticato. Coloro la cui missione è dominare il mondo possono beneficiare di uno scenario più confortante, ben spiegato nel numero corrente del prestigioso (e prezioso) giornale del Royal Institute of International Affairs di Londra. L’articolo principale tratta del “visionario ordine internazionale” della “seconda metà del Ventesimo Secolo” caratterizzato dalla “universalità della visione statunitense della prosperità commerciale.” C’è qualcosa di vero in questo resoconto, ma non illustra il punto di vista di coloro che si trovano all’estremità sbagliata delle armi da fuoco.
Lo stesso vale per l’omicidio di Osama Bin Laden, che chiude se non altro una fase della “guerra al terrore” ri-dichiarata dal presidente George W. Bush dopo il secondo 11 Settembre. Passiamo ad alcuni pensieri su quell’evento e sulla sua rilevanza.
Il Primo Maggio 2011, Osama è stato ucciso nel suo pressoché sguarnito complesso da 79 incursori del Navy SEAL, entrati in Pakistan in elicottero. Dopo che molte oscure versioni sono state diffuse dal governo e poi smentite, i rapporti ufficiali hanno reso sempre più evidente come l’operazione sia stata un omicidio pianificato, che ha violato ripetutamente norme di diritto internazionale elementari, a cominciare dall’invasione stessa.
Sembra ci sia stato il tentativo di arrestare la vittima, che era disarmata, cosa che presumibilmente i 79 membri del commando, che non si erano trovati di fronte alcuna resistenza– tranne che, scrivono nei rapporti, da parte di sua moglie, disarmata anch’essa, cui hanno sparato per legittima difesa quando si è gettata contro di loro, secondo quanto dichiarato dalla Casa Bianca – avrebbero potuto facilmente fare.
Una ricostruzione plausibile degli eventi è fornita dal corrispondente Yochi Dreazen, veterano del Medio Oriente, e da colleghi di Atlantic. Dreazen, ex corrispondente militare per il Wall Street Journal, è corrispondente anziano per il National Journal Group, che si occupa di affari militari e sicurezza nazionale. Secondo la loro inchiesta, il piano della Casa Bianca sembra non avesse mai preso in considerazione di catturare Bin Laden vivo: “Secondo un ufficiale Statunitense anziano a conoscenza dei fatti, l’amministrazione aveva chiarito al clandestino Joint Special Operations Command dell’esercito che voleva Bin Laden morto. Un alto funzionario informato sull’attacco disse che i SEALs sapevano che la loro missione non era prenderlo vivo.”
L’autore aggiunge: “Per molti di quelli che al Pentagono e alla CIA avevano speso quasi un decennio nella caccia a Bin Laden, uccidere il militante era un atto di vendetta necessario e giustificato.” Inoltre, “catturare Bin Laden vivo avrebbe procurato all’amministrazione una serie di fastidi politici e legali.” Meglio, quindi, ucciderlo, scaricare il suo corpo in mare senza l’autopsia considerata necessaria dopo un’uccisione – una mossa che, com’era prevedibile, ha provocato rabbia e dubbi in gran parte del mondo Musulmano.
Come l’inchiesta pubblicata da Atlantic ha osservato: “La decisione di uccidere Bin Laden immediatamente è stata finora l’immagine più chiara di un aspetto della politica contro il terrorismo dell’amministrazione Obama passato inosservato. L’amministrazione Bush catturò migliaia di militanti sospetti e li spedì nei campi di detenzione in Afghanistan, Iraq e Guantanamo. Di contro, l’amministrazione Obama si è concentrata sull’eliminazione di singoli terroristi piuttosto che cercare di catturarli vivi.” Questa è una differenza sostanziale tra Bush e Obama. Gli autori citano l’ex cancelliere della Germania Ovest Helmut Schmidt, il quale “ha dichiarato alla tv tedesca che il raid Usa è stato ‘chiaramente una violazione del diritto internazionale’ e che Bin Laden avrebbe dovuto essere detenuto e processato,” provocando la reazione del procuratore generale americano Eric Holder, il quale “ha difeso la decisione di uccidere Bin Laden benché non rappresentasse una minaccia immediata per i Navy SEALs, dicendo a una commissione della Casa Bianca che l’attacco era stato perfettamente legale, legittimo e appropriato da ogni punto di vista.”
L’eliminazione del corpo senza autopsia è stata anch’essa motivo di critica da parte degli alleati. L’avvocato inglese Geoffrey Robertson, che gode di grande considerazione e che si era già espresso a favore dell’operazione e contro l’esecuzione per mere considerazioni di pragmatismo, ha descritto la dichiarazione di Obama “è stata fatta giustizia” come “un’assurdità” che sarebbe dovuta risultare ovvia a un ex professore di diritto costituzionale. La legge Pakistana “richiede un’indagine in caso di morte violenta, e la legge internazionale sui diritti umani stabilisce che il ‘diritto alla vita’ richieda un’indagine ogni qualvolta una morte violenta sia causata dall’azione del governo e della polizia. Gli Stati Uniti si trovano perciò nell’obbligo di aprire un’inchiesta che chiarisca al mondo le vere circostanze dell’uccisione.”
Molto opportunamente, Robertson ci ricorda che “non è sempre stato così. Quando venne il momento di prendere in considerazione il destino di uomini ben più malvagi di Osama Bin Laden – i massimi dirigenti del nazismo – il governo britannico li avrebbe voluti impiccati entro sei ore dalla cattura. Il presidente Truman era riluttante e citò l’affermazione del giudice Robert Jackson che un’esecuzione di massa ‘si dimostrerebbe difficile da digerire per le coscienze americane e non sarebbe ricordata con orgoglio dai nostri figli… l’unica via è dimostrare l’innocenza o la colpevolezza degli accusati dopo un’udienza tanto imparziale e scevra di passioni quanto lo permettono i tempi e dopo un verdetto che renda le nostre ragioni e le nostre motivazioni chiare.’”
Eric Margolis commenta che “Washington non ha mai reso pubbliche le prove che Osama Bin Laden fosse dietro agli attacchi dell’11 Settembre,” presumibilmente questa è una delle ragioni per cui “i sondaggi mostrano che un terzo degli Americani intervistati credono che dietro agli attacchi dell’11 Settembre ci sia il governo Usa e/o Israele,” mentre nel mondo musulmano lo scetticismo è più diffuso. “Un processo a porte aperte negli Stati Uniti o all’Aia avrebbe mostrato queste affermazioni alla luce del giorno,” continua, una ragione pratica per cui Washington avrebbe dovuto attenersi alla legge.
Nelle società che professano il rispetto della legge, i sospetti presi in custodia sono sottoposti a un processo equo. Sottolineo “sospetti”. Nel Giugno 2002, il capo del Fbi Robert Mueller, in quella che il Washington Post descrisse come “una delle sue dichiarazioni pubbliche più dettagliate sull’origine degli attacchi,” poté solo dire che “gli investigatori ritengono che l’idea degli attacchi dell’11 Settembre al World Trade Center e al Pentagono venne ai leader di al-Qaeda in Afghanistan, la reale cospirazione venne messa a punto in Germania e i finanziamenti giunsero attraverso gli Emirati Arabi Uniti dall’Afghanistan.”
Ciò che l’Fbi credeva e pensava nel Giugno del 2002, non era di loro conoscenza otto mesi prima, quando Washington rigettò le timide offerte dei talebani (non sappiamo quanto serie) di consegnare Bin Laden affinché venisse processato se fossero state sottoposte loro delle prove. Perciò non è vero, come ha dichiarato il presidente Obama nel suo discorso alla Casa Bianca dopo la morte di Bin Laden, che “appurammo rapidamente che gli attacchi dell’11 Settembre erano stati opera di al-Qaeda.”
Non c’è mai stata ragione di dubitare di ciò che riteneva l’Fbi a metà 2002, ma questo ci lascia ben lontani dalla prova di colpevolezza che si richiede nelle società civili – e qualsiasi siano le prove, queste non garantiscono comunque la liceità dell’uccisione di un sospetto che, a quanto sembra, avrebbe potuto essere facilmente preso in custodia e processato. Ciò rimane vero per le prove prodotte da allora. Così, la Commissione per l’11 Settembre fornì ampie prove circostanziali del ruolo di Bin Laden nell’11 Settembre, perlopiù sulla base di ciò che era stato riferito delle confessioni dei prigionieri di Guantanamo. E’ oggetto di dubbio che questo materiale possa essere accettato da una corte indipendente, considerando la maniera in cui furono ottenute le confessioni. In ogni caso, la conclusione dell’indagine autorizzata dal Congresso, comunque ci si possa lasciar convincere da essa, è molto lontana dall’essere emessa da una corte credibile, quella che cambierebbe la categoria dell’accusato da sospetto a prigioniero.
Si è fatto un gran parlare della “confessione” di Bin Laden, ma quella era una vanteria, non una confessione, con lo stesso grado di credibilità della mia “confessione” di aver vinto la maratona di Boston. La vanteria ci dice molto sul personaggio ma nulla sulla sua effettiva responsabilità di quello che riteneva un grande successo, del quale voleva prendersi il merito.
Chiaramente, tutto ciò a prescindere dai giudizi sulla sua colpevolezza, che sembrava evidente persino prima dell’inchiesta dell’Fbi e continua ad esserlo.
Crimini di aggressione
E’ opportuno aggiungere che la responsabilità di Bin Laden fu riconosciuta in gran parte del mondo musulmano, e condannata. Un esempio significativo è l’illustre religioso Libanese Sheikh Fadlallah, molto rispettato da Hezbollah e dai gruppi sciiti in generale, anche fuori dal Libano. Lui aveva una certa esperienza sugli omicidi. Era stato l’obiettivo di un attentato: per mezzo di un’autobomba di fronte ad una moschea, in un’operazione organizzata dalla Cia nel 1985. Lui si salvò ma altre 80 persone vennero uccise, per lo più donne e bambine che lasciavano la moschea – uno di quegli innumerevoli crimini che non rientrano negli annali a causa dell’“informazione asimmetrica”. Sheikh Fadlallah condannò aspramente gli attacchi dell’11 Settembre.
Uno dei maggiori specialisti del movimento Jihadista, Fawaz Gerges, suggerisce che il movimento avrebbe potuto essere diviso allora, se gli Stati Uniti avessero saputo sfruttare l’opportunità che gli si presentava anziché mobilitare il movimento, in particolare con l’attacco all’Iraq, una fortuna inaspettata per Bin Laden, che portò a un deciso incremento del terrorismo, come le agenzie di intelligence avevano previsto. Alle udienze Chilcot che si occupavano dei retroscena dell’invasione dell’Iraq, per esempio, l’ex capo dell’agenzia di intelligence Britannica MI5 testimoniò che sia l’intelligence inglese che quella Usa sapevano che Saddam non rappresentava alcuna minaccia concreta, che era probabile che l’invasione avrebbe causato un aumento del terrorismo, e che l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan avrebbe radicalizzato parte di una generazione di musulmani che interpretavano le azioni militari come un “attacco all’Islam”. Come spesso accade, la sicurezza non era una priorità alta nell’agenda di Stato.
Potrebbe essere utile chiederci come avremmo reagito se un commando Iracheno fosse atterrato nel complesso di George W. Bush, l’avesse ucciso, e gettato il suo corpo nell’Atlantico (dopo i rituali di sepoltura appropriati, naturalmente). Indiscutibilmente, non era un “sospettato” ma il “mandante” che diede l’ordine di invadere l’Iraq – cioè di commettere “il crimine internazionale supremo che differisce dagli altri crimini di guerra solo in quanto racchiude tutto il male possibile”, la formula per cui i criminali nazisti vennero impiccati: centinaia di migliaia di morti, milioni di rifugiati, distruzione di gran parte del paese e del suo retaggio culturale, e il sanguinoso conflitto settario che si è ora diffuso nel resto della regione. Altrettanto indiscutibilmente, questi crimini superano di gran lunga qualsiasi cosa sia stata attribuita a Bin Laden.
Affermare che tutto ciò sia incontrovertibile, come di fatto è, non significa che non ci sia chi lo nega. L’esistenza di sostenitori della teoria secondo cui la terra è piatta non cambia il fatto che, senza ombra di dubbio, la terra non è piatta. Allo stesso modo, è incontrovertibile che Stalin e Hitler si siano resi responsabili di crimini orrendi, benché i loro partigiani possano negarlo. Tutto ciò dovrebbe essere troppo ovvio per essere commentato, e lo sarebbe, salvo che in un’atmosfera di isteria così estrema da annichilire il pensiero razionale.
Ugualmente, è indiscutibile che Bush e i suoi complici abbiano commesso il “crimine internazionale supremo” – il crimine d’aggressione. Questo crimine fu definito piuttosto chiaramente dal giudice Robert Jackson, Capo di Consiglio per gli Stati Uniti a Norimberga. Un “aggressore”, aveva proposto Jackson al Tribunale nel suo discorso d’apertura, è lo Stato che per primo commette l’atto di invadere con le sue forze armate, con o senza dichiarazione di guerra, il territorio di un altro stato…” Nessuno, nemmeno i più accesi sostenitori dell’aggressione, negano che Bush e i suoi complici abbiano fatto esattamente questo.
Inoltre, potremmo far bene a ricordare le eloquenti parole di Jackson a Norimberga sul principio d’universalità: “Se determinati atti in violazione dei trattati sono crimini, lo sono sia che vengano compiuti dagli Stati Uniti o dalla Germania, e non possiamo sancire una regola di condotta criminale contro gli altri, che non possa essere invocata contro di noi.”
E’ altrettanto chiaro che le dichiarazioni d’intenzioni sono irrilevanti, anche se sono in buona fede. Documenti interni rivelano che i fascisti giapponesi fossero convinti che, devastando la Cina, stessero lavorando per renderla un “paradiso terrestre”. E anche se sembrerebbe difficile da immaginare, è concepibile che Bush e gli altri credessero di proteggere il mondo dalla distruzione delle armi nucleari di Saddam. Tutto irrilevante, benché ardenti partigiani da ogni lato possano cercare di convincersi del contrario.
Ci restano due possibilità: o Bush e soci sono colpevoli del “crimine internazionale supremo”, inclusi tutti i mali che hanno prodotto come conseguenza, oppure decidiamo che i processi di Norimberga furono una farsa e che gli alleati si siano resi colpevoli di omicidio giudiziario.
La Mentalità Imperiale e l’11 Settembre
Pochi giorni dopo l’assassinio di Bin Laden, Orlando Bosch è morto pacificamente in Florida, dove risiedeva col suo complice Luis Posada Carriles e molti altri affiliati del terrorismo internazionale. Dopo essere stato accusato di decine di crimini terroristici dall’Fbi, Bosch ottenne il perdono presidenziale da Bush I, malgrado le obiezioni del dipartimento di Giustizia che arrivò alla conclusione “inevitabile che sarebbe pregiudizievole per l’interesse pubblico che gli Stati Uniti costituissero un rifugio sicuro per Bosch.” La coincidenza di queste morti richiama alla mente la dottrina di Bush II – “già… una norma non scritta delle relazioni internazionali,” secondo l’illustre specialista di relazioni internazionali di Harvard Graham Allison – che revoca “la sovranità degli stati che forniscono rifugio ai terroristi.”
Allison si riferisce alla dichiarazione di Bush II, diretta ai talebani, che “coloro che danno rifugio ai terroristi sono altrettanto colpevoli dei terroristi stessi.” Questi Stati perciò hanno perso la loro sovranità e sono oggetto legittimo di bombardamenti e terrore – per esempio, lo stato che ha dato rifugio a Bosch e ai suoi affiliati. Quando Bush proclamò questa nuova “norma non scritta delle relazioni internazionali,” nessuno si acorse che stava invitando all’invasione e alla distruzione degli Stati Uniti e all’uccisione del suo presidente.
Nulla di tutto ciò, naturalmente, rappresenta un problema se rigettiamo il principio di universalità del giudice Jackson, e adottiamo invece il principio secondo cui gli Stati Uniti si sono auto-immunizzati contro il diritto internazionale e le convenzioni – come, di fatto, il governo ha messo in chiaro di frequente.
Vale anche la pena di riflettere sul nome che è stato dato all’operazione Bin Laden: Operazione Geronimo. La mentalità imperiale è così radicata che pochi sembrano essere capaci di intuire che la Casa Bianca glorifica Bin Laden chiamandolo “Geronimo” – il capo indiano Apache che guidò la coraggiosa resistenza agli invasori delle terre Apache.
La scelta casuale del nome riporta alla mente la disinvoltura con cui diamo alle armi mortali i nomi delle vittime dei nostri crimini: Apache, Blackhawk… potremmo reagire diversamente se la Luftwaffe avesse chiamato i suoi aerei da combattimento “Ebreo” o “Zingaro”.
L’esempio menzionato ricadrebbe nella categoria dell’ “eccezionalismo Americano,” non fosse per il fatto che la disinvolta soppressione dei propri crimini e praticamente onnipresente tra le potenze, tranne quelle che sono sconfitte e costrette a riconoscere la realtà.
Forse l’omicidio era percepito dall’amministrazione come un “atto di vendetta,” come conclude Robertson. E forse il rigetto dell’opzione legale del processo riflette la differenza tra la cultura morale del 1945 e quella di oggi, come suggerisce ancora. Qualsiasi fossero i motivi, difficilmente avevano a che fare con la sicurezza. Come nel caso del “crimine internazionale supremo” in Iraq, l’omicidio di Bin Laden dimostra che la sicurezza non è una priorità alta nell’agenda dello stato, contrariamente a quanto generalmente sostenuto dalla dottrina.
traduzione di Paola Lepori
da Peace Reporter
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