1) Chi ha in mente le strofe di questa canzone?
“Il 30 giugno è un giorno che passera alla storia/perché la Resistenza coperta fu di gloria/ E poi poi poi ci chiamavano teddy boys”
Si tratta di un pezzo, che ha contribuito a comporre l’epica popolare sulla rivolta di Genova del 1960, intolato E poi ci chiamavano Teddy Boys raccolto nell’antologia di Canti popolari socialisti e comunisti curato da Leoncarlo Settimelli e Laura Falavolti per le edizioni Savelli nel lontanissimo 1976. Il testo della canzone lo si può trovare su
http://www.ildeposito.org/
L’aria di questo pezzo era ricavata da una canzone del fronte della prima guerra mondiale, dedicata sarcasticamente al generale Cadorna, in modo da saldare di fatto l’immaginario popolare delle generazioni del Carso e dell’Isonzo, dove fu operato il massacro concentrico più devastante di proletari e contadini italiani di tutto il ‘900, con quelle dei giovani che si affacciavano alla politica nell’Italia del secondo dopoguerra. E’ interessante però fare un’analisi dei contenuti dell’epica popolare presente in questa canzone. E soprattutto del conflitto che è ricomposto in queste strofe. Per comprendere di cosa stiamo parlando bisogna capire che la figura del giovane come Teddy Boy rappresenta una rottura antropologica nel tessuto popolare e proletario italiano degli anni ’50. Si tratta infatti del primo movimento giovanile di massa importato dall’Inghilterra, che da allora detterà fino a oggi anche in Italia stili e modi di comportamento giovanili diversissimi tra loro, sostanzialmente alieno a qualsiasi tradizione culturale e popolare italiana. Oltretutto i Teddy Boys ascoltavano principalmente musica americana, l’ondata dei gruppi inglesi sarà patrimonio di successivi movimenti giovanili, aumentando così la distanza dalla sinistra di fatto culturalmente antiamericana almeno fino al ’68. Le generazioni di giovani popolari e proletari degli anni ’50, periodo durissimo per le forze comuniste e il sindacato, sono così viste con un certo sospetto dalla sinistra italiana proprio per questa marcata alterità culturale e il rischio di una conclamata spoliticizzazione. La rivolta del luglio ’60, con l’insurrezione dei giovani con le magliette a strisce (un capo di abbigliamento tipicamente giovanile dell’epoca) marca però il protagonismo politico di questi nuovi soggetti entro i canoni della cultura dell’antifascismo militante. Quel “e poi ci chiamavano teddy boys” assume così una intonazione canzonatoria verso tutti quei soggetti, compresa la sinistra ufficiale, che avevano indicato i giovani del periodo come frivoli e spoliticizzati senza comprenderne il potenziale di rivolta. Oltretutto la rivolta di Genova del ‘60, vista dal lato del protagonismo dei Teddy Boys italiani, si pone in un segno politico marcatamente opposto rispetto all’originale modello comportamentale britannico. Anche i Teddy Boys inglesi infatti avranno la loro rivolta ma si tratterà di quella contro gli immigrati neri a Notting Hill del 1958 (episodio citato da Julian Temple in Absolute Beginners). Genova 1960 riporta quindi le masse proletarie e giovanili entro l’epica popolare antifascista, il Teddy Boy è ora la prosecuzione del partigiano in area metropolitana.
Che quest’innesto di cultura giovanile nella sinistra tenga nell’epica popolare dell’epoca ce lo conferma il film di Pasolini Uccellacci Uccellini che, guarda caso, comincia con una scena da Teddy Boy, i giovani che ballano davanti ad un Juke-Box, e finisce ai funerali di Togliatti. Anche stavolta il giovane spoliticizzato, americanizzato finisce per essere una delle figure che partecipa alla composizione dell’epica proletaria e popolare. Essere giovane, rivoltarsi in piazza ed essere compiutamente accettato nell’epica popolare a sinistra, che è un canone fondamentale del riconoscimento collettivo dell’epoca, torna ad essere naturale dopo i sospetti scriscianti degli anni ’50.
2) Le cose si complicano terribilmente con il ’68, l’epica popolare non sembra tenere più tutte le figure sociali che affollano la scena. Anche perché, nonostante che il ’68 e gli anni ’70 rappresentino l’ultima grande stagione di produzione di canzoni e memorie di pura epica popolare, altri linguaggi, altre codificazioni simboliche irrompono sulla scena. In parallelo a straordinarie mutazioni della composizione sociale.
Se ne accorge lo stesso Pasolini che, con le famose frasi su Valle Giulia, quelle “dalla parte della polizia” che vengono continuamente reiterate anche ai nostri giorni, compie un’operazione rivelatrice delle inquietudini che si riversano sulla struttura narrativa dell’etica popolare del periodo. Infatti Pasolini, dopo gli scontri tra studenti e forze dell’ordine a Valle Giulia, promuove un altro genere di epica popolare, riprodotto poi dai media, che mette positivamente in primo piano la polizia ed espelle i giovani da un ruolo positivo nella narrazione. Un paradosso, visto il protagonismo creativo dei giovani nel ’68, compiuto per salvare proprio la struttura narrativa dell’epica popolare: gli unici elementi di popolo presenti a Valle Giulia sono per Pasolini i poliziotti mentre gli studenti sono visti come appartenenti ad una condizione aliena al popolo se non direttamente borghese. Eppure salvare l’epica popolare, vista con gli occhi degli anni ’60 e ’70, è un’operazione importante. Perché l’epica connette, tiene assieme enormi strati sociali. Non ha un ruolo di intrattenimento, come pensa il materialismo ingenuo, piuttosto con il dispiegarsi dei suoi canoni narrativi si opera una diretta e decisiva connessione sociale. Nelle culture popolari è la parola dell’epica che tiene assieme i comportamenti di interi sociali ed è proprio questa tenuta ,a causa di una concentrazioni impressionante di mutazioni, che ha difficoltà a seguire l’accelerazione dei cambiamenti nel tessuto sociale italiano.
Pasolini salva così i canoni narrativi di quest’epica recuperando un ruolo narrativo positivo alla polizia. I giovani del ‘68 probabilmente per il loro insopportabile carico di alterità rispetto ai canoni classici dell’epica popolare, che li fa frettolosamente collocare come appartenenti tout court alla classe borghese, si trovano fuori da un ruolo positivo entro questi schemi narrativi.
Si radicalizza così una frattura tra giovani ed epica popolare, quella di massa che si intrecciava nei linguaggi e nei comportamenti della sinistra istituzionale, della quale si intravedevano i sintomi prima della rivolta di Genova del 1960. Con delle significative novità: i giovani non sono più spoliticizzati, Teddy Boys, ma politicizzati e quindi rappresentati come agenti della borghesia che combattono una lotta contro il popolo a parti solo formalmente rovesciate. La visione della polizia da parte di Pasolini è sociologicamente romantica quanto lo è il tentativo di salvare, togliendo un ruolo positivo ai giovani, l’epica popolare. I poliziotti dell’epoca di Pasolini hanno già poco del popolo: si tratta degli ultimi ma della società dei consumi che cercano la strada più breve, in una società a piena occupazione, per pagarsi le rate del mutuo della macchina nuova, dell’acquisto del frigorifero. Per entrare insomma non nel popolo ma nella società dei consumi individualizzata. Ma l’operazione di Pasolini funzionerà però ben oltre il contesto che l’ha prodotta. Infatti, nel corso dei decenni, e anche nelle settimane scorse, i poliziotti nella retorica della sinistra istituzionale sono sempre il popolo. Mentre ai giovani tocca il ruolo narrativo e politico degli alieni. Anche se, basta dare un’occhiata al loro profilo sociologico, sono proprio i poliziotti ad essere alieni a qualsiasi legame sociale strutturato. Basta leggere il libro, ampiamente simpatizzante per le forze dell’ordine, Acab di Carlo Bonini per capire che i disagi e le patologie del poliziotto sono amplificate proprio dalla assenza sistematica di legame organico con qualsiasi contesto sociale. Se c’è un alieno insomma, indossa la divisa blu. Ma la potenza oggettivante degli schemi narrativi mediali e istituzionali ci dice altro.
Il remake Pasolini e le forze di polizia sarà però regolarmente reiterato, e con successo di audience, da tutti i media degli ultimi decenni. L’epica popolare della sinistra istituzionale scopre così con Pasolini un nuovo vettore, televisivo dei suoi significati ben più potente della storia orale e tramandata. Un vettore nel quale la storia orale della sinistra verrà in qualche modo tramandata ma anche utilizzata, scomposta, frammentata e montata entro un format narrativo completamente nuovo. Si guardi alla breve serie televisiva de La meglio gioventù: contiene un linguaggio generalista incapace di far intuire la profondità dello scenario del ’68, secondo i canoni intimistici del cinema italiano sopravvissuto al collasso strutturale del primi anni ’80. Si pensi, ad esempio, alla fiction, tanto per parlare di un linguaggio popolare, di Nonno Libero dove la figura del sindacalista esiste solo per dare una sfumatura al format ma non per capire quanto essere stati sindacalisti sia servito ad essere nonni e, tantomeno, a dare un profilo di storia collettiva a un personaggio. Le leggi dell’audience sono qualcosa di diverso dalle necessità di tenuta della cultura della sinistra istituzionale. Tanto che, senza problemi, le frasi di Pasolini in tv sono state riportate anche da esponenti del centrodestra. L’audience segue leggi di efficacia non di comprensione e sviluppo delle tradizioni culturali.
Ma la stessa Valle Giulia costituisce un sedimento storico importante nella cultura dei gruppi e della nuova sinistra in Italia. Perché costituisce un mito entro una linguaggio costruito con i canoni, qui pienamente restaurati, della canzone dell’epica popolare (in cui il cantautore riadatta la funzione epica del cantastorie). Quel “non siam scappati più” di Paolo Pietrangeli dedicato ai manifestanti di Valle Giulia riporta, oltretutto con strofe gentili, l’epica della resistenza degli studenti alla polizia, della capacità dei giovani di sfidare e sconfiggere la durezza della repressione. E’ una stagione, prevalentemente interna ai gruppi e alla nuova sinistra, di riscoperta, catalogazione, reinterpretazione del canto popolare e di forte sviluppo della storia orale. Mentre la sinistra storica si trovava, giocoforza con partiti composti da milioni di elettori, ad adattare in qualche modo l’epica popolare ai linguaggi mediali (e Pasolini ripreso dai media è l’esempio più importante dell’adattamento di un’ epica) quella alternativa scriveva storie nuove entro canoni tradizionali. Con la fine degli anni ’70, e la crisi dell’epica popolare come strumento di acculturazione e comunicazione collettiva, tutto questo patrimonio della sinistra non istituzionale esce di scena ed entra negli archivi. Pasolini no, adattato e montato per le generazioni successive di piattaforme mediali. Perché, con un lento percorso di penetrazione nella società italiana, è a partire dalla fine degli anni ’70, che i linguaggi egemoni nella società vengono costruiti dalla televisione. L’epica popolare allora non poteva che sopravvivere che entro un formato mediale. Pasolini sopravvisse. Ben oltre anche l’altro importante filone dei linguaggi dei gruppi e della nuova sinistra: quelli alternativi, innovativi costruiti attraverso l’evoluzione delle forme di stampa e delle tecnologie della comunicazione.
Da Valle Giulia si apre quindi un conflitto mai chiuso, e mai piu’ ricomposto come invece a Genova ’60, nella cultura della sinistra italiana. Due epiche popolari differenti, entrambe all’interno della cultura di sinistra, forniscono immaginario e categorie di lettura sui giovani opposte rispetto allo stesso evento: gli scontri di Valle Giulia del primo marzo 1968. E nel ‘77 questo conflitto, sempre originato dal problema della codificazione dei comportamenti giovanili, precipiterà proprio all’interno della sinistra. Ma questa è un’altra storia.
3) La costruzione dell’epica popolare passa così dalla narrazione collettiva alla televisione con il tornante tra gli anni ’70 e ’80. Non siamo certo vicini all’epoca di internet, che ha permesso di far uscire l’epica popolare dagli archivi e di immetterla nei linguaggi della comunicazione istantanea, e quindi i tratti epici, quelli che si imprimono nell’immaginario di una popolazione, passano solo se mediati dai format televisivi. Questa mutazione di paradigma di comunicazione contribuisce strutturalmente alla ridefinizione del patrimonio cognitivo e comportamentale della popolazione italiana. Non perchè la intrattiene in modo diverso rispetto al passato ma perché contribuisce a determinare nuove leggi generali di connessione sociale tramite la simbolica e i messaggi che fa circolare.
In questo contesto fatto di processi di connessione sociale, profondamente mutato rispetto ai decenni precedenti, cambiano anche le modalità di rappresentazione del mondo giovanile. In un modo, nonostante i diversi lustri di spoliticizzazione giovanile di massa a partire dall’inizio degli anni ’80, che finirà per condizionare la politica a sinistra e la sua stessa capacità di concettualizzare non solo i giovani ma proprio la società. E’ infatti da quel periodo che i giovani cominciano ad essere rappresentati con canoni che, scherzo dei processi storici, sono stati costruiti a suo tempo dalla stampa britannica proprio per regolare l’allarme sociale attorno ai giovani a partire dal periodo dei Teddy Boys. Stiamo parlando del moral panic che è una strategia prima giornalistica, poi più generalmente mediale, di rappresentazione dei giovani che emerge proprio a partire dagli anni 50. Viene localizzata in Inghilterra, come i Teddy Boys, si diffonde sul pianeta e quindi anche in Italia. E in contemporanea con la generale scomparsa dei giovani delle classi popolari, e quindi della loro rappresentazione, dalla scena politica
Possiamo quindi affermare che la narrazione sui giovani per oltre un trentennio nella cultura generalista italiana è mediata dal moral panic. Ma cosa è il moral panic? Quali modalità di connessione sociale promuove a differenza dell’epica popolare?
Il testo capitale per comprendere questo fenomeno non è stato mai tradotto in Italia, potenza della miseria dell’editoria nazionale, è quello di Stanley Cohen, Folks Devils and Moral Panic. Si tratta, secondo Cohen, di quel fenomeno di codifica dei comportamenti giovanili, promosso originariamente dalla stampa locale britannica e successivamente dai grandi media generalisti, diffuso in termini di panico presso la popolazione dei lettori. Che, in un periodo di grande diffusione della stampa popolare britannica, coincideva sostanzialmente con il territorio. I comportamenti giovanili, a partire dall’epoca dei Teddy Boys per arrivare alle successive, vengono quindi rappresentati alla popolazione con degli stili narrativi del terrore atti a suscitare panico e paura nei lettori. Aumentando così la tiratura delle copie (funzione commerciale) e attivando i dispositivi di controllo amministrativo, di scienza di polizia del territorio (funzione politica). Perché la paura richiede e legittima l’intervento dei dispositivi di controllo.
Questi stili narrativi costruiscono moral panic riadattando anche tattiche comunicative della vecchia propaganda militare, cercando di capire quale sia il folksdevil della popolazione a cui stanno parlando. E qui si capisce molto del salto di paradigma comunicativo, e del rapporto, tra epica popolare e moral panic. Il folksdevil era infatti la figura capace di suscitare terrore, e necessità della richiesta collettiva di un capro espiatorio, nel linguaggio e nell’epica popolare. La comunicazione mediale altro non fa che sostituirsi all’epica popolare, o a sussumerla, nella costruzione di quei folksdevil capaci di creare panico morale nei lettori e quindi richiesta di intervento disciplinare e di controllo sul territorio.
E, a partire dalla stampa locale britannica degli anni ’50, il folksdevil assume caratteri giovanili. E’ uno degli effetti delle mutazioni antropologiche nelle società occidentali del dopoguerra. Teddy Boys, poi rockers e mods, poi con il tempo punk, hooligans e oggi le youth gangs. Non importa qui tanto costruire criteri di informazione sui fenomeni ma piuttosto stereotipi del panico: il folksdevil, quando è in grado di provocare panico è così una figura produttiva sia per il mercato editoriale, e poi per l’audience pubblicitaria televisiva, che per la legittimazione dei dispositivi di controllo del territorio.
In Italia il folksdevil, e la relativa produzione di moral panic, almeno per un ventennio a partire dagli anni ’80 è ricavato dalla stampa e dalla tv su figure sostanzialmente spoliticizzate. Tossici, ultras, giovani automobilisti del sabato sera, definiscono il folksdevil prima delle ondate migratorie degli anni ’90. Quando anche per il folksdevil de giovane bianco risulta difficile farsi spazio sui dispositivi di costruzione del moral panic, e di oggettivazione mediale del panico, a causa della nuova serie di personaggi rappresentati come provenienti dallo spazio alieno. Albanesi, zingari, marocchini, romeni: per i giovani risulta difficile persino farsi spazio nella concorrenza tra folksdevil spoliticizzati.
Nonostante si applichi sulla spoliticizzazione il moral panic non solo ha effetti politici ma mostra soprattutto una concezione e una politica della connessione sociale. L’epica popolare, come dicevamo, non era precisamente intrattenimento. Questo può pensarlo il materialista ingenuo, per il quale lo spettacolo è sovrastruttura, che non comprende le leggi della costruzione del legame sociale. L’epica popolare era infatti uno strumento di connessione di valori, comportamenti, pratiche e rapporti sociali, che tendeva ad estendersi, in modo spontaneo e reticolare, sulla superficie della società tramite la circolazione della parola narrata. Il moral panic è una tattica mediale, prima giornalistica poi televisiva, che rielabora l’immaginario popolare per estendersi a sua volta, nella produzione di profitto e in rapporto con il potere di controllo, sulla superficie sociale. Con la differenza che la produzione di significati, e quindi il potere della connessione sociale non è prodotto spontaneo e reticolare ma frutto della verticalizzazione della costruzione dei contenuti formalizzata nelle redazioni. Che detengono le strategie del potere di connessione quindi un potere politico. E prima che intervenisse Internet a cambiare la morfologia stessa del potere di connessione sociale il potere del moral panic mediale era particolarmente saldo.
A partire da Genova 2001 il folksdevil assume inediti, per l’Italia, caratteri politici di massa. Il black bloc come folksdevil funziona, oltre la sua stagione per così dire naturale, perché è efficace per produrre panico. Anche se oggi non esistono i black bloc ciò che accadrà in piazza da Genova 2001 in poi sarà rappresentato con questo genere di folksdevil. Non è la realtà, ovviamente, che interessa ai media ma l’efficacia comunicativa dell’effetto panico creato dalle figure messe in scena. Basti ricordare che, unica figura di folksdevil politicizzata del dopo anni ‘70, l’autonomo è stato messo in onda dai media in replica almeno fino agli anni ’90 ben oltre quindi la stagione che l’aveva prodotto. Il black bloc crea quindi effetto panico quando il teddy boy creava epica e legame popolare.
Le figure giovanili nel panorama mediale e comunicativo italiano durante gli anni zero assumono quindi inediti carattere di folksdevil di rivolta di massa. Non c’è solo Genova 2001, che produrrà il folksdevil blocco nero, ma anche le grandi rivolte spettacolarizzate degli stadi: Avellino 2003, Raciti, Sandri. La figura del giovane, dopo l’immissione di folksdevil dall’esterno (l’ìmmigrato, irregolare e privo del permesso di soggiorno) acquista di nuovo una consistenza specifica in termini di panico morale. In questo modo non alza solo l’audience ma legittima la costruzione di nuovi dispositivi di controllo e favorisce la produzione giuridica sugli stadi, sulla linea Amato-Maroni, che oggi viene auspicata anche per la politica.
Il moral panic incontra così la stagione dei movimenti che si costituiscono con la concezione del primato dell’opinione pubblica. Che i movimenti da almeno due decenni si siano strutturati come forma di pressione dell’opinione pubblica, a differenza delle forme antagonistiche del passato, è un dato ormai consolidato [http://www.senzasoste.it/
Quello che è meno consolidato, e poco comprensibile ai movimenti, è cosa significa operare su uno spazio di connessione sociale dove predomina il moral panic come strumento strutturale di crescita dell’audience per scopi di raccolta pubblicitaria e di regolazione politica dei comportamenti. Infatti i movimenti, nel tentativo di agganciare i filoni più importanti di opinione pubblica, costruiscono figure positive, lanciate anche dagli stessi media, che finiscono per essere regolarmente messe all’angolo, sul piano della regolazione mediale, quando i dispositivi di comunicazione mettono in campo i folksdevil e costruiscono moral panic. In questo modo, quando lo spazio della connessione sociale è egemonizzato dalla forma attuale dell’opinione pubblica, i movimenti sono sempre subordinati al comportamento dei media: o perché hanno bisogno di essere lanciati dal mainstream o perché contro di loro si scagliano i folksdevil. E, quando accade qualcosa di serio, invece di disporsi per decostruire il potere di connessione sociale dei media generalisti il grosso dei movimenti si scatena contro le figure di piazza che più somigliano al folksdevil. Se c’è un fenomeno che spiega la dimensione minore, nonostante i numeri, e perdente di certi movimenti è proprio questo. L’incapacità di disporsi per strutturarsi, ed è un lavoro politico complesso, per decostruire il potere egemonico di connessione dei grandi media generalisti. Che non è “informazione”, come l’epica non era solo intrattenimento, ma potere vero e proprio di connessione sociale, di mantenimento e sviluppo di gerarchie, controllo, frammentazione della società. Questa incapacità ha portato invece alcuni movimenti ad una vera e propria caccia al giovane che somiglia al folkdevil proprio perché accusato di neutralizzare l’unica forza di pressione a loro disposizione: quella dell’immagine “positiva” presso l’opinione pubblica.
Allo stesso tempo chi usa consapevolemente nelle piazze il potere di rappresentazione del folksdevil, costruendo pratiche che lo evocano, non è in grado di rompere il dispositivo che gli rende visibilità solo nelle forme di rappresentazione del panico.
Il punto però, a differenza dell’epoca in cui la sinistra dei gruppi costruiva una propria epica popolare assieme a nuovi linguaggi, è che il governo dell’opinione pubblica, e del potere di connessione sociale, non è in mano ai movimenti e, salvo alcune vittorie tattiche, nemmeno a internet. E’ in mano ad un dispositivo generalista, costituitosi all’incrocio della politica e del mercato, che in questo scenario ha un vantaggio strategico su ogni movimento.
Non c’è quindi da stupirsi se in mezzo secolo la visione ufficiale a sinistra dei giovani e dei giovanissimi che si rivoltano è passata dalle magliette a strisce, con annessa e concezione epica e romantica, a quella de “quindicenni in testosterone”, vera e propria animalizzazione di una generazione simmetrica a quella operata dai folksdevil nelle operazioni di panico morale. L’egemonia mediale ufficiale non è quindi tanto un’operazione di marketing ma interviene sui processi di oggettivazione dei comportamenti. E con successo.
Non siamo quindi di fronte tanto a cambiamenti nella storia del costume e nemmeno delle mutazioni di una sovrastruttura ideologica ma proprio a un nuovo paradigma nelle modalità dei processi di reificazione dei soggetti sociali. Questi linguaggi, dell’epica popolare come del moral panic non sono semplici narrazioni. Sono parte integrante della struttura cognitiva di una società in base alla quale si elaborano linguaggi, persino categorie astratte, scelte esistenziali e politiche e, fondamentale, costruzioni dell’oggetto e rappresentazioni del soggetto come reale. Entro un scenario di decenni dove il linguaggio egemone nella popular culture è sostanzialmente cambiato. Si è passati da una egemonia dell’epica popolare, nella sfera della politica, ad una del moral panic. I risultati si vedono: i quindicenni da epici passano ad essere fonte di terrore da contenere. Anche a sinistra perché ciò che rende l’oggetto VERO è passato, a sinistra, in diversi decenni da essere mediato dall’epica popolare alla mediazione dell’egemonia delle strategie di moral panic.
CONCLUSIONE
L’analisi politica per essere efficace deve essere in grado di capire e di prevedere le dinamiche sul campo. E qui non c’è solo il problema che vuole una forma della narrazione piuttosto che un’altra spostare di molto queste dinamiche a causa del suo potere di connessione sociale. Ma anche quello della comprensione e dell’individuazione dei comportamenti di massa. Se la reificazione delle dinamiche sociali passa attraverso la mediazione cognitiva del folksdevil ,diviene assolutamente impossibile rappresentare la complessità sociale in atto. E, di conseguenza, inutile ogni tentativo di trasformare sezioni strategiche di complessità sociale in potere di trasformazione reale. Dove la rappresentazione è schematica , addirittura mediata da categorie cognitive prodotte dall’avversario, la politica è crudamente inefficace.
Tra il 14 dicembre 2010 e il 15 ottobre 2011 in Italia, come per alcuni fenomeni degli anni zero, abbiamo visto cosa succede quando si esercita una certa pressione delle periferie, sociali e urbanistiche ,sul centro dei compoartamenti codificati come politici. Spesso, da un punto di vista sociologico si pensa ormai che la reazione alla crisi sia esclusiva preoccupazione della middle class impoverita e preoccupata dagli effetti della globalizzazione economica e finanziaria. Middle class impoverita che ha i propri codici di comportamento e di pressione politica nel modello, ormai classico, di pressione sulla sfera dell’opinione pubblica. Modello messo in evidente crisi dalla pressione delle periferie, dal loro tentativo di trovare uno sbocco di visibilità nella sfera politica. I problemi generati da queste dinamiche sono molteplici e sono tutti politici. Dopo il 15 ottobre, da posizioni politiche anche diverse tra loro, è partito l’epiteto di “sociologo d’accatto” verso chi, in diversi modi, cerca di comprendere quali dinamiche sociali effettivamente stiano emergendo in questo paese. Il timore verso la sociologia è presto spiegato: si ha paura che l’analisi di un fenomeno sia un processo di giustificazione. Bisogna ricordare prima di tutto che, da oltre un secolo, le radici stesse delle correnti correnti sociologiche principali si danno nella separazione dall’analisi delle dinamiche sociali dai giudizi di valore. Ma c’è anche l’altro problema: non ci si rende conto che i giudizi ritenuti oggettivi, nei confronti delle fasce giovanili che escono dalle periferie (urbanistiche e sociali) sono, come abbiamo visto, mediati da apparati cognitivi ideologici che indirizzano verso un solo risultato: la sovrapposizione tra giovane e folksdevil. C’è quindi da comprendere che, nella mutazione della rappresentazione dei giovani dall’epica popolare al fenomeno del moral panic non emerge solo un problema banalmente comunicativo. Ma uno legato alla costruzione di un intero paradigma del politicoe nelle dinamiche di connessione sociale.
per Senza Soste, dalla banlieue di Livorno, il sociologo d’accatto nique la police
27 ottobre 2011
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