Quando si scatena la crisi dei subprime negli Usa, volutamente viene evidenziata come crollo di carattere finanziario per lo scoppio delle bolle speculative immobiliari e finanziarie; ma è semplicemente la punta dell’iceberg che evidenzia un blocco dell’economia reale nei processi stessi dell’accumulazione, cioè sono questi stessi meccanismi che permettono la crescita capitalistica che si sono inceppati già dai primi anni ’70 e che dimostrano che la crisi è irreversibile. La difficoltà di riattivare un nuovo e profittevole modello di accumulazione rende questa crisi unica, mettendo in seria discussione lo stesso modo di produzione capitalistico, quindi è di carattere sistemico.
E’ evidente che con le privatizzazioni, con l’attacco al costo del lavoro, al sistema del Welfare, ai diritti, con la finanziarizzazione dell’economia, hanno cercato di fuoriuscire o almeno di coprire la crisi internazionale del capitale che si porta dietro il carattere della strutturalità e sistemicità. Così si fa più aspra e diretta la competizione globale alla ricerca della centralizzazione della ricchezza in poche mani,con scenari sempre più frequenti di guerra economica- finanziaria,guerra commerciale , guerra sociale verso le classi subalterne e guerra militare espansionista per la conquista e il dominio sulle risorse energetiche sempre più scarse per sostenere i ritmi del processo di accumulazione internazionale .
Tutto quello che appare come qualcosa di nuovo, come il possibile default degli Usa in realtà vede l’origine dal 1971 con la fine degli Accordi di Bretton Woods. Da tale data gli Usa decidono in base al potere politico e militare di imporre il proprio modello di sviluppo basato sull’import attraverso l’indebitamento, facendo così pagare il costo agli altri: debito privato, debito pubblico, e consumo sostenuto dal mix tra debito interno ed esterno, avendo molto deboli i cosiddetti fondamentali macroeconomici e una economia reale che già da allora mostrava i caratteri della crisi strutturale e sistemica.
Già a partire dagli anni ‘80 si era verificato in Europa, anche se in maniera diversificata nei differenti paesi, un vero e proprio intenso processo di privatizzazione, con l’intento di ridimensionare la presenza pubblica nell’intero sistema produttivo. Le azioni dei Governi di questi anni confermano la volontà di attuare un programma completo di dismissione delle aziende pubbliche, con la motivazione ufficiale di risolvere i problemi produttivi ed economici. A ciò hanno fatto eccezione alcuni paesi, ad esempio la Francia e in parte la Germania, che hanno difeso la presenza pubblica nei settori strategici, strutturando in tal modo un modello produttivo più forte ed equilibrato nella competizione globale.
Nonostante i dati indicassero nell’Italia un paese con un significativo impatto sul PIL dei settori pubblici e una conseguente cautela, qualitativa e quantitativa, nei processi di privatizzazione, risulta invece che l’illusoria chimera della riduzione del debito pubblico, ha fatto sì che si procedesse in modo estremamente rapido e senza porsi particolari limiti. Dati ufficiali confermano che gli incassi da dismissioni dell’Italia superano di gran lunga quelli di altri paesi “veterani” delle privatizzazioni (ad es. Gran Bretagna).
2. Questo processo si è avviato in concomitanza alla costituzione del Mercato Unico Europeo (1992) e poi dell’Unione Europea con i pesanti sacrifici imposti al mondo del lavoro.
Dopo la caduta del muro di Berlino si apre una fase di guida unipolare del mondo basata sullo strapotere politico e militare Usa, che con l’imposizione dell’acquisto dei titoli del debito imponevano il sostenimento della loro crescita basata sull’import e sull’economia di guerra.
Poi si apre la fase che a suo tempo definimmo non di globalizzazione ma di competizione globale, centrata non sul modello importatore degli americani ma con l’Europa che cerca i suoi spazi di affermazione economica puntando sul ruolo internazionale, con una forte posizione di esportatore svolto dalla Germania. Lo stesso modello di economia basata sulla esportazione viene realizzato dalla Cina,che grazie ai suoi avanzi nella bilancia dei pagamenti decide di diventare il maggior compratore del debito statunitense.
Il modello tira e ovviamente accade che le banche tedesche e lo Stato cinese acquistano i titoli degli Usa e, in parte, anche degli altri membri dell’Europa che devono subire lo strapotere tedesco, e con questo si realizza la costruzione dell’Unione Europea come nuovo polo imperialista che, pur mancando di grande forza interna politica e militare, impone la logica economica-finanziaria con guida tedesca.
E’ così che la stessa costruzione dell’Europolo, basata sui parametri di Maastricht, altro non rappresenta che la definizione di uno scenario di un confronto aperto e diretto dei paesi europei alla partecipazione da protagonisti a quella economia globalizzata che misura lo scontro per la definizione delle aree di influenza e di dominio delle tre ipotesi liberiste: quella statunitense, quella giapponese-asiatica e quella europea guidata dall’asse franco-tedesco[1].
La forza di questi due paesi non deriva dalla politica ma dalla solidità dei rispettivi sistemi produttivi ; la Germania infatti, ha mantenuto un ruolo centrale dello Stato ed è tra i principali esportatori mentre la Francia, oltre a possedere un apparato militare molto aggressivo (si pensi alle guerra contro la Libia) , vede lo Stato impegnato in molte grandi imprese.
Gli intensi processi di competizione globale dell’economia a livello mondiale hanno portato, quindi, la Germania, con un asse privilegiato verso la Francia, a cercare una ipotetica soluzione dei problemi della concorrenza internazionale con la costruzione di un’area economica e monetaria incentrata sull’esigenza esportatrice del modello tedesco, con una nuova divisione internazionale del lavoro che va ad assegnare ai paesi dell’eurozona mediterranea il ruolo di importatori ed erogatori di servizi, delocalizzando il proprio sistema industriale verso i paesi dell’Est europeo per risparmiare molto sul costo del lavoro, avendo al contempo una manodopera specializzata.
Ma applicando la stessa moneta a paesi nei quali l’accumulazione del capitale si basa sulle esportazioni e a paesi strutturalmente importatori, la politica monetaria è incapace di conciliare le necessità dei primi ( a cui necessita una moneta stabile per permettere l’accumulazione a lungo termine basata sulle esportazioni) e agli altri (che richiedono svalutazioni periodiche per facilitare l’aggiustamento esterno). Alla fine, la politica applicata difenderà ovviamente gli interessi dei più forti, in questo caso dei paesi esportatori dell’Europa centrale, rispetto ai deboli paesi europei della periferia mediterranea.
3. Va detto che la politica monetaria della BCE si è impostata soprattutto sulle necessità della Germania in quanto le politiche tedesche di moderazione fiscale e salariale hanno provocato una diminuzione della domanda interna e tutto ciò ha richiesto dei tassi di interesse bassi per non diminuirla ancora di più. Tutto ciò ha comportato un abbassamento dei tassi reali nei paesi europei periferici, contraddistinti da una inflazione strutturalmente superiore alla media europea.
Lo scoppio della bolla immobiliare ha provocato perdite disastrose tra le famiglie che sono diventate insolventi e per riparare a questo sono stati necessari vari interventi dello Stato per salvare le banche da fallimenti.
La diminuzione dell’occupazione e l’aumento dei costi hanno provocato enormi deficit nei bilanci statali; la perdita di fiducia dei creditori verso i paesi periferici ha fatto sì che la differenza dei rendimenti tra i titoli tedeschi e i titoli di questi paesi periferici sia stato sempre più alto.
I bassi tassi di interesse hanno avuto come conseguenza in questi paesi la crescita molto alta dell’edilizia accompagnata da aumenti salariali e dei prezzi; in Irlanda ad esempio negli anni 1998-2007 si è avuto un aumento dei prezzi delle case di oltre il 180%; in Spagna si è avuto un aumento simile; anche la produttività di questi paesi periferici è cresciuta in alcuni casi anche più della Germania ma essendo aumentati anche i salari nominali, si è persa competitività rispetto alla Germania che registrava un aumento dei salari nominali inferiore all’aumento della produttività.
Da ciò si capisce chiaramente perché la Germania controlli le variabili del patto di stabilità, in quanto la sua crescita è incentrata sull’export e perché necessita il deficit dei paesi europei dell’area mediterranea, i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia , Spagna), compresa anche la Francia. Infatti l’acquisto da parte della Germania dei titoli del debito pubblico di questi paesi rappresenta una forma di investimento dell’eccedente tedesco accumulato. Insomma, il surplus della bilancia commerciale tedesca è reso redditizio dall’investimento del debito dei paesi europei con bilancia commerciale in deficit. Ed è proprio il sistema bancario tedesco che gestisce tale eccedente compreso quello di altri paesi del Nord Europa.
4. Le rendite finanziarie, a cui vanno aggiunte quelle immobiliari e di posizione, sottraggano le risorse alla produttività reale, incanalandosi soltanto in processi di accelerazione speculativa che necessariamente trovano poi il momento di esaurimento del ciclo nel rappresentarsi dello scoppio delle bolle speculative stesse.
Va ricordato che il debito dello Stato, da sempre definito “debito pubblico”, è in questi ultimi tempi chiamato “debito sovrano” per un’operazione di terrorismo massmediatico rivolto ad ottenere nuovi sacrifici dai lavoratori, in particolare di quelli pubblici, in termini di ulteriori riduzioni di salario diretto, indiretto e differito in nome della difesa della sovranità per evitare i “fallimenti” degli Stati; ma il primo vero obiettivo è abbattere l’economia pubblica, il Welfare, e di attaccare profondamente e definitivamente i diritti dei dipendenti pubblici.
Quindi, oggi, creare nell’opinione pubblica l’idea che gli Stati siano sull’orlo del fallimento, significa occultare la crisi economica generale di accumulazione del sistema capitalistico, il disastro dei mercati creditizi e finanziari, creando al contempo la necessità della socializzazione delle perdite del sistema bancario attraverso il denaro delle imposte e tasse dei lavoratori e il taglio dello Stato sociale e del costo del lavoro.
Si capisce chiaramente perché la campagna di terrorismo massmediatico, sul debito pubblico trasformato in debito sovrano, ha semplicemente un obiettivo politico che è ancora quello di indirizzare contro lo Stato,contro l’economia pubblica, la critica feroce della gente comune ,e allo stesso tempo salvare il sistema di impresa e bancario con la socializzazione delle perdite, a carico dello Stato e così via, liberalizzando, privatizzando, destrutturando e demolendo i diritti in primis dei pubblici dipendenti, tagliando salari e Welfare, e infliggendo un altro duro colpo al potere di acquisto di lavoratori e pensionati.
Si pensi inoltre che vi è un’Europa debole e divisa, un’Unione Monetaria che non è ancora né economica né politica, ed anzi tale stretta sul debito degli Stati ha proprio come obiettivo quello di dar giustificazione e concretezza alla costruzione dello Stato politico sovranazionale europeo.
5. La lettera di Mario Draghi della Banca Centrale Europea inviata al nostro Paese mostra chiaramente le linee di intervento richieste dall’Europa, meglio imposti dai potentati economico-finanziari dell’Europolo.
Tra le altre cose risulta chiaro dalla lettera che ci troviamo di fronte alla nascita di una classe dirigente di stampo sovranazionale europeo; l’Europa dell’Est prima ed ora dell’Ovest, compresa anche l’Italia sono degradate ad un ruolo di secondo piano rispetto alle “grandi” potenze rappresentate da Germania e Francia. Considerando che gli Stati europei stanno via via perdendo la loro autonomia a causa dei diktat dell’Unione Europea è sicuramente contraddittorio pensare che il problema sia l’aumento del debito pubblico e non invece la perdita completa della indipendenza di ogni Stato, sapendo al contempo che nell’Europolo circa il 60% del debito è di natura privata.
E’ evidente la diversificazione delle forme di debito e come nella struttura del debito estero non sia certo la percentuale del debito governativo o sovrano quella maggiormente preoccupante. Ciò che è in atto è semplicemente lo spostamento dei debiti dai bilanci da alcuni grandi mostri bancari, assicurativi, industriali e finanziari a quelli pubblici.
Si insiste sulla necessità di tagliare la spesa sociale evocando il falso problema che l’Europa in generale è un sistema in deficit, mentre invece risulta chiaro l’opposto cioè l’assenza di un debito estero europeo, anche se ciò è il risultato di partite compensatorie in cui il creditore per eccellenza, cioè la Germania insieme a qualche paese del Nord Europa, è il detentore dei titoli del debito dei PIIGS e di altri paesi fortemente indebitati.
Va considerato però che vi sono paesi che sono fuori dalla UEM e dalla UE con elevati disavanzi e debiti pubblici come Giappone, Gran Bretagna, e Stati Uniti : ad esempio il Giappone ha un debito pubblico che supera il 200% del PIL e quello degli Stati Uniti supera il 100%, e allora perché questi paesi non subiscono attacchi speculativi come i paesi dell’eurozona?
Tra le differenze esistenti va senza dubbio segnalato che mentre Giappone e Usa hanno una banca centrale che può acquistare titoli direttamente dallo Stato, stampando dollari o yen, nel caso in cui i mercati rifiutino di farlo anche se così vanno incontro ad un aumento dell’inflazione; la Banca Centrale Europea segue solo la regola della fissazione del tasso di crescita della moneta per evitare problemi di inflazione. Va detto poi che l’area dell’euro è considerata debole e incerta perché non adatta a sostenere crisi economiche che colpiscano uno o più paesi al suo interno.
L’euro è servito per rinforzare i padroni esportatori dei paesi centrali dell’Europolo, cioè il polo imperialista europeo, e per indebolire la posizione commerciale e subordinare la dinamica di accumulazione nei paesi periferici del Mediterraneo alla divisione internazionale del lavoro imposta dai paesi centrali; in tal modo Portogallo, Italia, Grecia e Spagna (PIIGS con l’aggiunta dell’Irlanda) si convertono sempre più in riserve di servizi turistici e residenziali, o di servizi generali alle imprese, sottomessi ad un processo di deindustrializzazione più o meno accelerato.
Per questo non si può avere una uscita dalla crisi che non pregiudichi sempre più i lavoratori, in particolare quelli pubblici, senza modificare le regole del sistema monetario e finanziario vigente.
Una via europea che in nome di un mal figurato progresso, di un liberismo sempre più selvaggio, si apre all’incontro-scontro con l’economia mondiale lasciando un sempre maggior numero di persone senza protezione, nella miseria, aumentando le diseguaglianze economico-sociali nel nome della gigantesca mistificazione europea.
6. E’in considerazione di quanto scritto in precedenza che va interpretata l’azione dell’Unione Europea, che non dotata ancora di una autonoma capacità politica, impone ai paesi deficitari le stesse regole dei piani di aggiustamento strutturale che il Fondo Monetario Internazionale. (FMI) ha applicato negli ultimi 30 anni per fare “strozzinaggio” sui paesi sud-americani e condizionarne le modalità di sviluppo, facendo così giocare ora in Europa come allora in America Latina, un ruolo centrale alle regole della Banca Mondiale oltre a quelle del FMI.
L’acutizzarsi della crisi del debito degli Stati dell’Unione Europea ha fatto sì che si mettesse mano ai bilanci imponendo un continuo attacco all’economia pubblica e ai salari e diritti dei pubblici dipendenti, tagli alla spesa sociale allo scopo di sostenere le banche e le speculazioni dei privati; la caratteristica di questa fase è quella del trasferimento consistente di ricchezza da una parte all’altra nelle società europee.
La politica dell’austerità non è una soluzione, perché come segnalano molti analisti, la riduzione degli investimenti riduce l’accumulazione a lungo termine, e la riduzione del consumo pubblico restringe la domanda globale e pertanto la crescita a breve termine, al punto che l’aumento della disoccupazione e la chiusura delle imprese riducono la base impositiva fiscale e il problema del deficit, lontano dal correggersi, si aggrava. La politica di aggiustamento pertanto persegue il solo scopo di risolvere il problema di liquidità nel quale è caduta la Banca europea, mediante un trasferimento massiccio di redditi dai lavoratori al capitale, per via diretta con l’attacco contro le condizioni di lavoro e il salario, e per via indiretta con la riduzione dei trasferimenti sociali.
L’idea di abbandonare l’Unione Economica e Monetaria della UE (UEM) e tornare alle monete nazionali del passato non può neppure questa essere considerata un’alternativa per i Paesi della periferia europea mediterranea, poiché la debolezza estrema di un’eventuale moneta nazionale di fronte al capitale finanziario globale non permetterebbe una regolazione efficace del ciclo e del cambio strutturale in questi Paesi. Quindi i paesi dell’Europolo non hanno a disposizione strumenti economici efficaci per far fronte alla crisi economica.
Rimane pertanto alle organizzazioni conflittuali dei lavoratori di porsi domande che hanno una forte valenza politica che si impone con superiorità rispetto a qualsiasi scelta economica.
Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili, sarebbe una alternativa realizzabile?
Ciò permetterebbe di mantenere un margine di negoziazione con le istituzione comunitarie e con la Banca Centrale Europea?
Si può creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di accumulazione favorevole ai lavoratori ?
Noi pensiamo che l’uscita dall’euro dovrebbe realizzarsi in forma concertata, in primo luogo tra i paesi della periferia mediterranea con quattro momenti intimamente relazionati senza i quali tale processo potrebbe risultare un disastro per tutti.
I quattro momenti sono: a) La determinazione di una nuova moneta comune all’Europa mediterranea (a titolo esemplificativo potremmo chiamare questa moneta “LIBERA”, cioè una moneta appunto libera dai vincoli monetari imposti nella costruzione dell’euro); b) La rideterminazione del debito nella nuova moneta dell’area periferica (a titolo esemplificativo tale area la potremmo chiamare ALIAS. – Area Libera per l’Interscambio Alternativo Solidale) relazionata al cambio ufficiale che si stabilisce; c) Il rifiuto e azzeramento almeno di una parte consistente del debito, a partire da quello con le banche e le istituzioni finanziarie, e l’imposizione di una rinegoziazione dello stesso residuo; d) La nazionalizzazione delle banche e la stretta regolazione (incluso la proibizione momentanea) della fuoriuscita dei capitali dall’area stessa, e la nazionalizzazione dei settori strategici (energia, trasporti, telecomunicazioni,ecc.).
Tutti questi elementi si devono però realizzare simultaneamente, per evitare la decapitalizzazione dell’intera regione periferica e per assumere un controllo adeguato sulle risorse disponibili per gli investimenti a carattere sociale con un ruolo prioritario degli interessi dei lavoratori pubblici e con un rilancio di una efficiente economia pubblica.
La nazionalizzazione delle banche in una situazione di insolvenza e di dipendenza dall’aiuto pubblico è anche un requisito per evitare la fuga dei capitali e per eliminare la drammatica e storica tradizione capitalistica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
Tutto ciò è quindi possibile solo con un serio governo di indirizzo dello sviluppo che non può prescindere dal fondamentale ed efficiente ruolo pubblico nei servizi essenziali e nei settori strategici dell’economia.
Una parte del debito pubblico è il risultato dell’attuazione dei governi per appoggiare capitali locali fortemente indebitati, in primo luogo le banche però anche le imprese (a inizio del 2011 dei 4,7 mila miliardi di euro di debito esterno di Portogallo, Spagna, Italia e Grecia, circa il 32% era debito sovrano governativo, 4% delle autorità monetarie, 38% delle banche, 17% di altri settori imprenditoriali e 8% debiti generati all’interno dei gruppi multinazionali). Questo intento fallito di stabilizzazione portato avanti dai governi con le risorse di tutti i cittadini deve ottenere una compensazione. La nazionalizzazione dei settori strategici delle comunicazioni, energia e trasporti non solo può essere un prezzo giusto, ma allo stesso tempo potrà portare le risorse per realizzare una strategia di rilancio produttivo a breve termine che permetta di creare le condizioni affinché milioni di disoccupati nei Paesi della periferia europea mediterranea comincino a produrre ricchezza sociale nel minor tempo possibile.
7. L’uscita dall’euro, quindi dall’Eurozona o Europolo, è un’opzione e un passo verso la soluzione dei gravi squilibri strutturali delle economie periferiche che non sono semplicemente squilibri finanziari ma son innanzitutto di carattere produttivo: una struttura di base industriale in declino, un uso eccessivo e inefficiente enorme della forza lavoro, una concentrazione scandalosa di ricchezza e di patrimonio.
Con il non pagamento del debito pubblico è quindi il sistema bancario-finanziario che bisogna aggredire e danneggiare nei suoi interessi economici e politici, in tal modo si possono di conseguenza favorire gli investimenti in beni comuni, in servizi sociali, in nazionalizzazioni delle imprese dei settori strategici, aumentando di conseguenza i salari diretti, indiretti e differiti.
Per le organizzazioni sindacali conflittuali e i movimenti sociali anticapitalisti, che agiscono in Europa, si tratta di acutizzare le contraddizioni contrapponendosi direttamente alle regole dei potentati dell’Europolo.
La capacità di resistenza e negoziazione è molto maggiore se realizzata congiuntamente, in particolare se ci si è rafforzati strutturalmente con la nazionalizzazione delle banche e dei settori strategici. La nazionalizzazione di tali settori dovrebbe permettere di realizzare utilità attraverso usi sociali così come l’ampliamento intenso dell’accesso ai sistemi di comunicazione ed energia in particolare per quelle fasce più povere della popolazione locale e per i Paesi alleati della nuova area ALIAS in una pratica di una nuova strategia di sviluppo globale solidale, con una ripresa del protagonismo di classe che sappia aprire con le lotte vertenze su riforme strutturali che sappiano creare organizzazione di classe.
Pertanto risulta imprescindibile per l’affermazione di una nuova moneta e di una politica orientata in favore dei lavoratori, contare su una nuova area fuori dalle regole dell’Europolo, uno spazio produttivo nel quale si possa stabilire una nuova divisione del lavoro basata sui principi di uno sviluppo sociale collettivo solidale e un benessere qualitativo.
E’ ovvio, quindi, che tale proposta da credibile diventa realizzabile concretamente rilanciando il protagonismo nelle lotte dei lavoratori europei, ristabilendo la supremazia della politica sull’economia, trasformando così la crisi dell’Europolo in una forte ripresa di iniziativa del sindacalismo di classe, così accumulando forze nel conflitto sociale e sedimentando organizzazione di classe a partire da lotte rivendicative per riforme strutturali fondate su un programma minimo di classe ( come la ripresa della battaglia sulle 35 ore, il reddito sociale, il diritto alla casa, la fine di ogni forma di precariato, la tassazione del fattore capitale in ogni sua forma, la patrimoniale, il rafforzamento di un Welfare universalistico per i nuovi bisogni , una adeguata pratica di difesa dei beni comuni in un’ampia ed efficiente politica di sviluppo a compatibilità socio-ambientale, ecc.); battaglie, quindi, per un programma minimo, che comunque nel rivendicare salario e diritti sia in grado di invertire i rapporti di forza nel conflitto capitale-lavoro, riconquistano così terreno di potere a favore dei lavoratori.
Con questa proposta si può quindi aprire una ipotesi di dibattito e un percorso di pratica di lotte con un obiettivo diretto e raggiungibile, ma nello stesso tempo realizzare una possibilità concreta per i Sud del mondo che possano trovare nei PIIGS , e in generale nei paesi dell’area mediterranea, l’esempio di un percorso capace di sparigliare le carte del consociativismo cogestore della crisi.
8. Su questo e altri interrogativi politico-economici su cui i sindacati di classe in Europa sono chiamati a misurarsi sul piano teorico e della possibilità concreta di creare mobilitazioni e percorsi di lotta sindacale e sociale, il Centro Studi CESTES-PROTEO si rende da subito disponibile per fornire il proprio contributo di studio, ricerca, elaborazione politico-economica, auspicando confronti e intense collaborazioni con gli altri centri studi dei sindacati di classe per giungere a costituire un forte e attivo centro di ricerca di analisi-inchiesta della FSM europea.
Per ribaltare la logica economico-finanziaria imperialista è assolutamente necessario un cambiamento radicale socioculturale (quello che in termini gramsciani si chiama un cambio di egemonia che modifichi il senso comune), che inverta le relazioni causali tra l’economia e la politica, come già si sta sperimentando, ad esempio nei paesi dell’area dell’ALBA. (Alleanza Bolivariana per i popoli di Nuestra America), e in particolare in Bolivia dove i movimenti sociali, di indios, i contadini, i minatori hanno determinato nuove forme di economia plurale e solidale attraverso lo strumento politico della democrazia partecipativa.
Ricostruire così quella coscienza ed identità di sé del mondo del lavoro nella dimensione e nella pratica dell’internazionalismo di classe: da ciò deve derivare la decisione di avviare corsi di formazione politico-sindacali e di formazione sindacale propriamente detta come passaggio fondamentale per dare forza al progetto del sindacalismo di classe in Europa. Tale lettura è propedeutica al rafforzamento delle lotte ed ai processi di sedimentazione organizzativa in tutti i livelli ed ambiti possibili che sono, di quelle lotte, il prodotto permanente e strategico di un progetto sindacale di classe in Europa. Solo così il pensabile può diventare praticabile poiché da subito è possibile inceppare i meccanismi di potere dei centri-polo, delle aree del sistema di dominio del modo di produzione capitalista, come sta tenacemente realizzando l’alternativa bolivariana dell’ALBA.
Ciò deve necessariamente essere accompagnato dall’idea forte che solo una formazione politico-culturale complessiva può costituire uno strumento valido per le nuove sfide che il sempre più aspro conflitto capitale-lavoro richiede in Europa.
Un’occasione per appassionarsi a creare una opportunità di un altro mondo possibile “qui ed ora”, che dimostri che si può realizzare concretamente un diverso vivere solidale e autodeterminato attraverso percorsi di lotta di un movimento di classe realmente indipendente che si ponga strategicamente, ma con pratiche ed obiettivi tattici immediati, il fine del superamento del modo di produzione capitalista.
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