Si tratta di un tentativo fallito per le contraddizioni insanabili che questo processo genera da sé. Fallimento riconosciuto da tutti. Parallelamente anche la tesi storiografica e politologica sulla presunta estinzione degli stati-nazionali mostra tutta la sua debolezza scientifica. L’inferenza logica cercata e, da taluni, auspicata era, conseguentemente, l’impossibilità e quindi l’inutilità della presa del potere. Mancando il luogo, lo spazio, della direzione politica, l’inversione di rotta è impossibile era affermato come Verbo, per cui meglio guardare a soluzioni possibili (cioè compatibili col modo di produzione capitalista). Qualcuno ringrazia per tanta grazia; certamente non i lavoratori né tutti quelli che hanno a cuore margini più ampi di partecipazione democratica e collettiva alle scelte politiche. Crisi della sovranità si dice. E sia. Crisi, però, non significa estinzione o annichilimento ma trasformazione possibile: nulla è già scritto.
La costruzione economica dell’Europa, sotto la spinta della globalizzazione capitalistica, ha determinato un vuoto politico sempre più marcato ma gli Stati europei, com’è sotto gli occhi di tutti, non si sono disintegrati, hanno parzialmente alienato un surplus o un residuo di sovranità: quelli che si candidano alla guida del nuovo polo imperialistico europeo, infatti, alienano il surplus funzionale alla creazione della nuova entità statale, mentre gli altri, che ne costituiscono il serbatoio iniziale, alienano invece il loro residuo di sovranità. La sovranità oggi in crisi, infatti, è una ‘signoria’ che con l’affermazione dello stato moderno nella storia dell’Europa occidentale aveva definito i contorni dello stato; prima rappresentato (incarnato) dal monarca, quale unico soggetto legittimato all’esercizio del potere durante la transizione dal feudalesimo al capitalismo, poi, dopo l’Ottantanove, la stessa sovranità dello stato non è più identificabile col corpo del re ma anche con quella delle repubbliche sia borghesi sia democratiche. Oggi, la contraddizione tra capitalismo e partecipazione politica ‘democratica’ è ormai una vera emergenza, nel senso letterale dell’emersione.
Fino a poco tempo fa, il pensiero borghese aveva, nei fatti, sostenuto il vincolo indissolubile tra democrazia e mercato capitalistico e in forza di questo aveva anche ‘giustificato’ le guerre e il colonialismo. La realtà della crisi della mondializzazione capitalistica sta lacerando questa mistificazione ideologica e rimettendo la politica al centro delle scelte; consentendo anche di parlare, con forza, di una nuova transizione e di una nuova sovranità. Era il marzo del 1843 quando la censura voleva chiudere la Gazzetta renana e Marx, nel tentativo (vano) di evitarlo, si dimette da capo redattore. Figura nuova, inedita nel panorama degli intellettuali fino allora circolanti in Europa, Marx si rituffa nello studio. Meno male. Nasce così il manoscritto Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico che sarà poi pubblicato a Mosca tra il 1927 e il ’32. Una sintesi, in realtà, era già apparsa col titolo Per la critica della filosofia del diritto di Hegel agli inizi del 1844 in un doppio fascicolo degli Annali franco-tedeschi. Sintesi molto importante perché, come nell’altro scritto (Sulla questione ebraica) che componeva il doppio fascicolo degli Annali, si segna il progressivo affinamento della critica nei confronti dell’alienazione politica: la francese rivoluzione democratico-borghese è considerata sì un grande passo avanti per l’umanità ma ancora parziale perché non in grado di cogliere il nocciolo che impediva alla democrazia liberale di tramutarsi in democrazia vera. La proprietà non poteva essere aggredita. Lo stato – spiega Marx – è l’esito della società civile borghese moderna (l’aggettivo tedesco bürgerlich, infatti, significa sia civile sia borghese). Nessun hegeliano superamento[1], quindi, ma prolungamento: lo stato è sempre il luogo dove maturano e si svolgono i rapporti materiali di esistenza. Vale la pena lasciare la parola a Marx: «Su che cosa si fonda una rivoluzione parziale, una rivoluzione soltanto politica? Sul fatto che una parte della società civile si emancipa e perviene al dominio generale, sul fatto che una determinata classe intraprende la emancipazione generale della società partendo dalla propria situazione particolare»[2].
A Parigi, da febbraio a giugno del 1848 e più in là fino al colpo di Stato di Luigi Bonaparte del 2 dicembre 1851, la lotta tra due ‘frazioni’ della borghesia (quella industriale e quella finanziaria) e dei loro alleati consente al più maturo movimento di classe europeo di essere l’avanguardia dei moti che attraversavano l’intero continente e, nonostante il tragico epilogo, di squarciare il velo che ammantava la repubblica borghese[3]. Eppure, come scriverà Engels, «il 1848 non fu che giuoco di ragazzi, in confronto con la furia del 1871»[4]. All’idea e alla pratica parziale, con cui la borghesia francese si era fatta Nazione nella rivoluzione dell’ottantanove, il proletariato – classe generale – oppone gli interessi concreti (non astratti, non parte del tutto cioè) della nazione intera e quelli di un internazionalismo con funzione d’emancipazione per l’umanità tutta. Così, davanti alla guerra franco-prussiana, il movimento operaio non allontanerà da se la responsabilità di una diversa sovranità nazionale: «E’ giusta questa guerra? No! E’ nazionale questa guerra? No! Essa è esclusivamente dinastica. In nome della giustizia, della democrazia e dei veri interessi della Francia, noi aderiamo completamente ed energicamente alla protesta dell’Internazionale contro la guerra»[5]. Lo Stato, dunque, non è mai un luogo pacificato: è sempre attraversato dal conflitto (con sconfitte e vittorie) delle classi in lotta. Il rapporto tra società civile e stato – come chiarirà Gramsci – è, allora, sì un caso della relazione dialettica tra struttura e sovrastruttura ma di una dialettica vera, dove cioè il nesso non è meccanico e si aprono quindi tutti gli scenari possibili dettati dalla battaglia per l’egemonia. Ogni società è, infatti, organizzata e una o più d’una delle organizzazioni di cui si compone «prevalgono relativamente o assolutamente, costituendo l’apparato egemonico di un gruppo sociale sul resto della popolazione (o società civile), base dello Stato inteso strettamente come apparato governativo-coercitivo»[6]. Per Stato, allora, non possiamo intendere solo il consueto apparato politico-rappresentativo, com’è dimostrabile dal fatto che buona parte dei principali avvenimenti nella vita politica di un paese non sono ascrivibili alle iniziative degli organismi politici e istituzionali che derivano dal suffragio universale, ma da organismi ‘privati’ che vanno comunque intesi come apparato privato di egemonia o società civile al fianco dell’apparato governativo strettamente detto.
Se lo stato borghese ancora oggi – nonostante quel che dice l’ideologia dominante – non ha vinto la sua guerra, non l’ha vinta perché la parzialità su cui si fonda non può averne la forza sufficiente e necessaria. L’insanabile contraddizione del modo di produzione capitalista ha, infatti, pure a livello sovrastrutturale, il suo riflesso dialettico (e non deterministico) nello stato e nella politica. L’oggettività dei rapporti di forza tra le classi non è da intendersi nel senso che questi rapporti sono dati una volta per sempre, ma nel senso che vanno ‘registrati’ di volta in volta nel grado storico d’avanzamento dello stato di conflitto. Il materialismo storico, d’altra parte, non è (e non voleva essere) la ‘metafisica della materia’; per cui è solo metaforicamente che possiamo parlare di storia naturale dell’umanità o paragonare i fatti umani ai fatti naturali. Nella politica, inoltre, pur con tutte le cautele con cui è necessario utilizzare il lessico delle strategie militari, la ‘guerra di movimento’ è funzionale solo a conquiste non decisive, al contrario è la ‘guerra di posizione’ quella che garantisce le vittorie decisive; perché è lì che si mobilitano tutte le risorse dell’egemonia e dello Stato. Quando, cioè, lo Stato borghese vede messo in forse il punto di equilibrio diseguale raggiunto, passa all’assedio della ‘guerra di posizione’.
Ma l’assedio da parte delle classi in lotta è reciproco e in quest’assedio, che è lo spazio della politica, bisogna usare tutte le armi della critica. Perché, come scriveva Marx, «la forza materiale dev’essere abbattuta dalla forza materiale, ma anche la teoria diviene una forza materiale non appena s’impadronisce delle masse»[7]. Mobilitare tutte le risorse dell’egemonia e dello Stato, infatti, è funzionale alla lotta di classe, della borghesia quanto del proletariato. Il tema delle alleanze, come anche quello delle riforme, sono dunque un altro aspetto della lotta di classe tanto nel lavoro teorico quanto nella battaglia politica. Un adeguato criterio storico-politico, relativo al rapporto tra politica e lotta di classe, ci obbliga a distinguere tra classe ‘dirigente’ e classe ‘dominante’. Una classe è dirigente rispetto alle altre classi con cui si allea, è dominante, invece, nei confronti di quella cui si oppone. Infatti, prima di diventare dominante, una classe può (deve) essere dirigente. Per questo la capacità di esercitare egemonia politica ed essere attrezzati ad alleanze per dirigere la lotta è una necessità che il complessivo movimento di classe dei lavoratori non può trascurare; tanto meno durante una crisi, qual è quella attuale, sistemica.
La posta in gioco della contesa in atto dentro lo stato moderno e contemporaneo è quindi, ancora una volta, la presa del potere: qual è la soggettività, cioè, che deve esercitare la sovranità. La conquista del potere e l’affermazione di un nuovo mondo produttivo sono, infatti, inscindibili: abbattere il potere politico della borghesia è un passaggio obbligato per la successiva trasformazione del modo di produzione. Nessun estremismo, come ammoniva Lenin può, però, aggirare questo nodo, nessuna scorciatoia e nessuna intransigenza dogmatica. Prendere tatticamente in considerazione ipotesi di riforma serve sia ad accrescere la massa critica dell’insieme delle forze che vanno dirette nella lotta per un mondo migliore, sia a distinguere il senso di una riforma progressiva e democratica (perché dentro una possibilità realmente alternativa) dal riformismo di maniera o conservatore insito in tutte le concezioni liberali riformistiche che Gramsci considerava sottoposte a una storia a disegno. Perché lì, nel riformismo dei liberali, è chiesto che le forze in lotta si moderino entro i limiti della conservazione dello Stato liberale, mentre, nella realtà della lotta, «i colpi non si danno a patti» e ogni antitesi deve necessariamente porsi come radicale negazione della tesi: vero motore del cambiamento.
Abbiamo individuato un metodo e una prospettiva: la politica, così, è tornata al centro e l’alternativa all’orizzonte.
[1] Hegel aveva individuato nello Stato il superamento necessario della contraddizione dialettica tra famiglia e società civile. Un complesso sistema dei bisogni che questa rappresentava ma che non riusciva a soddisfare pienamente in conseguenza della generazione, avvenuta al proprio interno, della plebe. È su questa parzialità della società civile e sul suo presunto superamento nello Stato che riflette Marx.
[2] K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel.
[3] Cfr.: K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 e Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte.
[4] Introduzione (nell’edizione tedesca del 1891) alla Guerra civile in Francia (1871) di Marx.
[5] Primo indirizzo del Consiglio generale sulla guerra franco-prussiana in K. Marx, La guerra civile in Francia.
[6] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Volume secondo, Quaderno sei, § (136).
[7] K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel.
* Rete dei Comunisti
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