La Regione Veneto nel programma operativo 2007-2013 su Competitività e Occupazione, partiva dal presupposto di una piena occupazione e delineava in prospettiva un ulteriore sviluppo economico e occupazionale. Le risorse erano destinate all’integrazione degli immigrati, che dovevano aumentare in numero perché considerati indispensabili per l’industria, e alla creazione di una manodopera specializzata. Insomma un quasi paradiso dell’occupazione e della produzione, il magico nord-est.
Nel 2008 le prime avvisaglie che qualcosa non andava ma gli esperti dissero che si sarebbe sicuramente ripreso. Nel secondo trimestre 2009 la tragedia: altro che sviluppo continuo e piena occupazione. Da 15.559.081(i) di ore di cassa integrazione richieste nel 2008 a 81.792.392 ore nel 2009. La situazione non sta migliorando e nel 2011 le ore di cassa integrazione richieste sono state 87.038.926 e nei primi due mesi del 2012 la situazione è ancora peggiorata rispetto agli stessi mesi del 2011. Aumentano stabilmente licenziamenti collettivi e individuali con iscrizione in liste di mobilità. I licenziamenti collettivi sono passati dai 6.870 del 2008 ai 10.055 del 2009 e sono arrivati a 11.816 nel 2011. Il dato maggiore si ha però considerando i licenziamenti individuali che passano da 12.753 nel 2008 a 23.238 nel 2009 e nel 2011 sono stati 22.656. Questa tipologia di licenziamento è quella delle piccole imprese e dà diritto ai benefici fiscali a favore delle aziende in caso di assunzione ma non consente ai lavoratori l’accesso all’indennità di mobilità
Improvvisamente, secondo alcuni, e naturalmente, per altri, si ha la prospettiva di decine di migliaia di persone a casa senza alcun ammortizzatore e a reddito zero. Questa situazione ha fatto muovere un accordo tra associazioni imprenditoriali, sindacati e regione per istituire forme di cassa integrazione e mobilità in deroga che è stato firmato nel febbraio 2009. L’accordo ha, come primo punto, lo scopo di “assicurare a tutti i lavoratori coinvolti nei processi di crisi un sostegno al reddito adeguato per ammontare e durata”. Nell’accordo si specifica che nessun tipo di azienda sarà esclusa da questo trattamento, in deroga alla legge, appunto.
Un modello famoso, fatto di piccole e medie imprese diffuse nel territorio. Un proliferare di capannoni di diverse misure, aree industriali e artigianali in ogni Comune, capannoni di piccoli artigiani nei centri cittadini, in mezzo alle villette, dove prima c’erano stalle sorgono imprese a conduzione familiare che man mano, chi più chi meno, si allargano. Una diffusione che ha lasciato sul terreno un inquinamento mostruoso che intacca falde acquifere e ha ammorbato terreni vastissimi. Esemplare in questo il caso della Tricom Galvanica(ii)i di Tezze sul Brenta (VI) ma anche le concerie del vicentino. Non solo Porto Marghera e la grande industria chimica, quindi, ma un inquinamento diffuso, capillare. Un inquinamento che ha pervaso anche la politica e le relazioni sociali e sindacali. Uno stretto legame tra piccoli imprenditori, spesso sindaci, e amministrazione pubblica, una continua deroga e un continuo non vedere, non sentire e non parlare. Dall’altra parte un ricordo non troppo lontano della miseria e l’improvviso arricchimento. Un rapporto diretto, quasi familiare, con il padrone. Una piccola complicità saldata dalla pratica del fuori busta, quegli straordinari che superavano abbondantemente le 30 ore al mese e sancivano un patto tra sfruttato e sfruttatore. Un sogno di continua crescita, sviluppo e arricchimento che ha fatto perdere di vista i diritti e il loro valore.
Improvvisamente quell’impresa diffusa, cantata da sociologi ed economisti, si blocca, lavoratori abituati a rimanere in fabbrica per oltre 10 ore e a lavorare pure il sabato improvvisamente non servono più. Il padrone amico sparisce: nei migliori dei casi c’è la cassa integrazione, con un improbabile sogno di tornare a lavorare, nel peggiore dei casi il licenziamento. Ovviamente è un continuo approfittare della situazione: se si abbandonano i numeri e si prova a vedere chi è stato espulso si vede che è in atto una vera e propria selezione. Gli espulsi sono per lo più lavoratori oltre i 50 anni, molto specializzati e costosi; in altri casi si tratta, al contrario, di lavoratori generici, trattati come pezzi danneggiati, sostituibili in ogni momento; molte anche le donne che lavoravano part-time e che si stanno ritrovando a ricadere nel lavoro domestico a tempo pieno. Così ad essere in cassa integrazione sono per lo più gli stessi mentre i colleghi continuano a lavorare, continuano anche gli straordinari e aumenta il non fatturato. Nessuna traccia di rotazione, nessuna traccia di solidarietà. Chi è dentro si dimostra sempre più fedele, per paura di finire fuori e chi è fuori non riesce più ad entrare da nessuna parte. Non è meno frequente però la categoria di coloro che, in quanto cassa integrati a disposizione della ditta, si sono trasformati in lavoratori a chiamata: la fabbrica telefona a casa la sera prima per dire a che ora e per quante ore uno si deve presentare al lavoro e la maggior parte corre a questa chiamata, si sentono ancora necessari, utili all’azienda, un rimedio al tedio quotidiano.
Il tedio quotidiano, anche questo è un problema. Improvvisamente questi lavoratori si trovano a casa, non devono uscire per andare al lavoro, non hanno nulla da fare tutto il giorno, da compagni di fabbrica e bravi lavoratori a bighelloni in pochi giorni. In questa situazione il lavoro nero la fa da padrone. Non solo per arrotondare il magro sussidio ma anche per sentirsi ancora qualcuno per non passare le giornate tra le mura di casa o le strade di piccoli paesi, luoghi in cui comparire in certi orari significa non lavorare e non lavorare significa non avere onore, essere un fallito: se uno non lavora è solo colpa sua! Così capita che quando l’azienda chiude e finiscono i turni entra in azione un nuovo turno, quello dei lavoratori in nero. Oppure ci si arrangia potando alberi e sfalciando giardini. Altri si uniscono a piccoli artigiani e lavorano in nero per questi. Molti di questi lavori sono rischiosi e nella maggior parte dei casi, essendo in nero, privi delle più elementari forme di sicurezza. Nei momenti in cui nemmeno il lavoro nero c’è, o per chi non lo fa, rimane la casa e la strada o, meglio, i bar. Facile in questa regione fare un salto al bar per bere un bicchiere di vino e quando le ore da riempire sono tante anche i bicchieri lo divengono. Bar in cui sono immancabili le slot machine che divengono un’attrazione irresistibile: giocate da 50 a 200 euro, perdite sostanziose da nascondere a casa: già si è dei falliti perché non si lavora, figurarsi se sapessero che uno gioca pure. E così tra un bicchiere che disinibisce e il sogno di una vincita si crea un vortice assurdo da cui diviene quasi impossibile uscire. Per un po’ la cosa la si può anche nascondere: le famiglie stanno continuando a vivere con i risparmi e queste perdite si riescono ancora a nascondere, per il momento e non per tutti.
La situazione viene gestita attraverso un’estrema burocratizzazione che determina un’insicurezza profonda nel lavoratore: il come procederà la sua situazione dipende da come compilerà documenti, seguirà procedure, rispetterà obblighi, sempre ovviamente che l’informazione che ha ricevuto sia esatta o che i regolamenti non varino nel frattempo, nel qual caso correrà il rischio di perdere anche l’ammortizzatore. Una situazione simile al carcere in cui la relazione è tra ogni singolo detenuto e la direzione e si compone di carte da compilare e farsi approvare, secondo la benevolenza del direttore. Così, ad esempio, sia la cassa integrazione che la mobilità in deroga sono rinnovate di anno in anno, non esiste un automatismo, ogni anno devono essere nuovamente approvate e messe a bilancio dalla Regione, non è un diritto acquisito ma una deroga, una gentile concessione. Oppure l’uscita anticipata dal lavoro con la promessa di una pensione e il cambiamento repentino che toglie questa prospettiva dopo che uno l’ha accettata confidando nella buona volontà della contro parte.
Ciò che colpisce è come decine di migliaia di persone che vivono una situazione simile in un medesimo territorio si percepiscano come monadi, individui singoli, e non come gruppo (se non classe) composto da portatori di interessi comuni. In questo bisognerebbe interrogare anche i sindacati che paiono troppo come calmieri sociali in una situazione simile. Accordi azienda per azienda, cantuccio per cantuccio e piani strettamente individuali per i lavoratori. Nessuna forma partecipativa, come se i lavoratori fossero troppo stupidi per poter decidere anche loro del proprio futuro. Nessun tentativo di unirli pensando a strumenti e mezzi adeguati per farlo ma un incentivare la deriva, l’espulsione completa dal diritto di cittadinanza e la più totale sudditanza alle scelte di improbabili esperti del settore e amministratori pubblici, ai loro mal di pancia e alle loro cene troppo pesanti da digerire.
*i Dati Veneto Lavoro
*ii Per maggiori informazioni http://salutetezze.blogspot.it/
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