Il nuovo Mandela
Uri Avnery
Di Palestina non si parla più ma l’estensione degli insediamenti dice che la questione è esplosiva. Oggi Marwan Barghouti, imprigionato da Israele da 10 anni, è la personalità che può unire tutti i palestinesi. Dal carcere fa appello a una terza Intifada, di massa e non violenta, contro l’ipocrisia dei «negoziati» internazionali. Come il leader sudafricano anti-apartheid, da dietro le sbarre potrebbe rivelarsi decisivo
Marwan Barghouti ha preso posizione. Dopo un lungo silenzio, ha spedito un messaggio dal carcere. Alle orecchie degli israeliani il suo intervento suonerà sgradevole, ma per i palestinesi, e per gli arabi in genere, ha un significato preciso.
Il suo messaggio potrebbe diventare il nuovo programma del movimento di liberazione della Palestina. La prima volta incontrai Marwan nel periodo dell’ottimismo dopo-Oslo (gli accordi di «pace» del 1993, ndt). Allora si stava affermando come leader della nuova generazione di palestinesi, giovani attivisti cresciuti all’interno dei Territori occupati, uomini e donne che si erano fatti le ossa durante la prima Intifada. È un uomo di bassa statura fisica e grande personalità. Quando l’incontrai, era già il leader di Tanzim («Organizzazione»), i giovani del movimento Fatah.
L’argomento delle nostre conversazioni allora fu la preparazione di manifestazioni e altre azioni non violente basate su una stretta collaborazione tra i palestinesi e gruppi di pacifisti israeliani. Si puntava alla pace tra Israele e un nuovo Stato di Palestina.
Quando – con gli assassinii di Yitzhak Rabin e Yasser Arafat – il processo di Oslo morì, Marwan e la sua organizzazione divennero degli obiettivi. I leader israeliani che si susseguirono in quegli anni – Binyamin Netanyahu, Ehud Barak e Ariel Sharon – decisero di porre fine all’agenda politica basata sulla soluzione dei due Stati. La brutale operazione «Scudo difensivo» (lanciata dal ministro della difesa Shaul Mofaz, il nuovo leader del partito Kadima) prese di mira l’Autorità palestinese: le sue infrastrutture furono distrutte e molti dei suoi attivisti vennero arrestati.
Il processo farsa
Marwan Barghouti fu messo sotto processo. L’accusa sostenne che, in quanto leader di Tanzim, fosse responsabile di diversi attacchi «terroristici» in Israele. Si trattò di un processo farsa, più simile a un’arena di gladiatori che a un procedimento giudiziario. L’aula era piena di sostenitori della destra che strillavano, presentandosi come «vittime del terrorismo». Gli attivisti di Gush Shalom all’interno del tribunale protestarono contro quel processo, ma non ci fu permesso di avvicinarci all’imputato.
A Marwan furono comminati cinque ergastoli. L’immagine di lui che solleva i polsi ammanettati al di sopra della testa per i palestinesi è diventata un’icona nazionale. Quando ho reso visita alla sua famiglia a Ramallah, era appesa nel soggiorno. In carcere Marwan Barghouti è stato immediatamente riconosciuto come il capo di tutti i prigionieri di Fatah. Ma è rispettato anche dai militanti di Hamas. I leader detenuti di Fatah e Hamas hanno pubblicato diversi appelli congiunti in favore dell’unità e della riconciliazione tra palestinesi. Appelli circolati abbondantemente all’esterno e che sono stati accolti con ammirazione e rispetto.
I membri della famiglia allargata dei Barghouti giocano un ruolo molto importante nelle vicende palestinesi, nell’intero spettro politico, dai moderati agli estremisti. Uno di loro è Mustapha Barghouti, un medico che guida un partito politico moderato con molti legami all’estero che incontro regolarmente durante le manifestazioni a Bilin e altrove (una volta gli ho detto che quando ci ritroviamo, piangiamo: per i gas lacrimogeni). La famiglia Barghouti ha le sue radici in un gruppo di villaggi a nord di Gerusalemme.
Oggi Marwan Barghouti è considerato il candidato più autorevole per la leadership di Fatah e la presidenza dell’Autorità nazionale palestinese dopo Mahmoud Abbas. È una delle poche personalità attorno alle quali tutti i palestinesi – quelli di Fatah come quelli di Hamas – possano unirsi. Dopo la cattura del soldato israeliano Gilad Shalit, mentre si discuteva dello scambio di prigionieri, Hamas aveva messo Marwan Barghouti in cima alla lista di detenuti palestinesi di cui chiedeva la liberazione. Una mossa davvero originale, dal momento che Marwan appartiene alla fazione rivale e vituperata (gioco di parole con «rival» e «reviled», ndt).
Ma il governo israeliano cancellò il suo nome dall’elenco e rimase irremovibile nella sua decisione. E quando Shalit venne finalmente rilasciato, Marwan rimase chiuso nella sua cella. Sicuramente è stato giudicato più pericoloso di centinaia di «terroristi» di Hamas, con «le mani sporche di sangue».
Per quale motivo?
I cinici direbbero: perché vuole la pace. Perché sostiene la soluzione dei due Stati. Perché è in grado di unire il popolo palestinese per raggiungere quell’obiettivo. Tutte buone ragioni, per Netanyahu, per tenerlo dietro le sbarre.
E allora cosa ha detto Marwan al suo popolo questa settimana?
Chiaramente il suo atteggiamento si è irrigidito. E presumibilmente lo stesso è successo all’intero popolo palestinese.
«Spezzare ogni collaborazione»
Marwan ha fatto appello a una terza Intifada, una rivolta di massa non violenta sulla scia delle primavere arabe.
Il suo manifesto rappresenta un chiaro rifiuto della politica intrapresa da Mahmoud Abbas, che mantiene una collaborazione limitata ma importante con le autorità d’occupazione israeliane. Marwan invita a spezzare tutte le forme di collaborazione, siano esse economiche, militari o di altro tipo.
Un punto centrale di questa cooperazione è la collaborazione quotidiana dei servizi di sicurezza palestinesi (addestrati dagli Stati Uniti) con le forze di occupazione israeliane. Un accordo che è riuscito a bloccare gli attacchi palestinesi nei Territori occupati e in Israele, garantendo – di fatto – la sicurezza dei sempre più numerosi insediamenti israeliani in Cisgiordania. Marwan invita anche a un boicottaggio totale di Israele, delle istituzioni israeliane e dei prodotti israeliani nei Territori occupati e nel mondo intero. I prodotti israeliani dovrebbero scomparire dai negozi della Cisgiordania e al loro posto dovrebbero essere promosse le merci palestinesi.
Nello stesso tempo Marwan si batte per porre fine ufficialmente alla pagliacciata chiamata «negoziati di pace». Un termine che in Israele già da tempo non viene più utilizzato. È stato prima sostituito da «processo di pace» e poi da «processo politico» e ultimamente da «problema politico». La semplice parola «pace» è diventata un tabù per la destra e la maggior parte della sinistra. Vero e proprio veleno politico. Marwan propone di ufficializzare l’assenza di negoziati di pace. Basta discorsi internazionali su «rivitalizzare il processo di pace», basta rincorrere personaggi ridicoli come Tony Blair, fine degli annunci di Hillary Clinton e Catherine Ashton, smetterla con le vuote dichiarazioni del «Quartetto». Dal momento che il governo israeliano ha abbandonato la soluzione dei due Stati – che in realtà non aveva mai accettato – continuare a fingere danneggia soltanto la lotta dei palestinesi.
Al posto di questa ipocrisia, Marwan propone di rinnovare la battaglia all’interno delle Nazioni Unite. Prima di tutto chiedendo di nuovo al Consiglio di sicurezza di accettare la Palestina come Stato membro, minacciando gli Stati Uniti di dover porre il loro veto praticamente contro tutto il resto del mondo. Dopo la bocciatura della richiesta palestinese a causa del veto Usa, andrebbe chiesta una decisione da parte dell’Assemblea Generale, dove la stragrande maggioranza si pronuncerebbe a favore dello Stato palestinese. Sebbene questa decisione non sarebbe vincolante, dimostrerebbe che la libertà della Palestina ha l’appoggio della stragrande maggioranza della famiglia delle nazioni e isolerebbe ulteriormente Israele e gli Stati Uniti.
Parallelamente a questo percorso, Marwan insiste sull’unità tra i Palestinesi, facendo leva sulla sua considerevole forza morale per mettere assieme Fatah e Hamas. Riassumendo: Marwan Barghouti ha perso la speranza di ottenere la libertà per i palestinesi attraverso la collaborazione con Israele, anche con le forze di opposizione israeliane. Il movimento per la pace israeliano non viene nemmeno più citato. «Normalizzazione» è diventata una parolaccia.
Non si tratta di idee nuove, ma arrivano dal prigioniero palestinese numero uno, il candidato più rappresentativo per la successione a Mahmoud Abbas, l’eroe delle masse palestinesi: vuol dire che si va verso un orizzonte più radicale, nella sostanza e nei toni.
Fedele alla pace, ai «due Stati»
Marwan resta un uomo che crede nella pace, come ha chiarito quando – in una rara recente apparizione in tribunale – ha riferito ai giornalisti israeliani che continua a sostenere la soluzione dei due Stati. Resta anche fedele alla lotta non violenta, essendo giunto alla conclusione che gli attacchi violenti dei giorni andati hanno danneggiato la causa palestinese piuttosto che rafforzarla.
Vuole bloccare il graduale involontario scivolamento dell’Autorità palestinese verso una collaborazione in stile Vichy mentre l’espansione dell’«impresa coloniale» israeliana procede indisturbata.
Non è per caso che Marwan ha pubblicato il suo manifesto alla vigilia della Giornata della terra, la giornata mondiale di protesta contro l’occupazione.
La Giornata della terra è l’anniversario di un evento accaduto nel 1976, durante una protesta contro la decisione del governo israeliano di espropriare ampie zone di terra araba in Galilea e altre parti d’Israele. L’esercito e la polizia israeliana spararono sui manifestanti, uccidendone sei. Il giorno successivo due dei miei amici ed io deponemmo corone di fiori sulle tombe delle vittime, un atto che mi costò un’ondata di odio e denigrazione raramente sperimentata. La Giornata della terra rappresentò un punto di svolta per i cittadini arabi d’Israele e in seguito divenne un simbolo per tutti gli arabi. Quest’anno il governo Netanyahu ha minacciato di fare fuoco su chiunque si fosse avvicinato ai nostri confini. Il premier israeliano ha provato a fare da messaggero per la terza Intifada chiesta da Marwan.
Da un po’ di tempo ormai il mondo ha perso molto interesse per la Palestina. Tutto sembra tranquillo. Netanyahu è riuscito a spostare l’attenzione del mondo dalla Palestina all’Iran. Ma in questo paese niente è mai davvero fermo. Mentre sembra che non stia succedendo nulla, gli insediamenti stanno crescendo incessantemente e con loro il risentimento profondo dei palestinesi, che vedono che tutto ciò si verifica davanti ai loro occhi.
Il manifesto di Marwan Barghouti esprime il sentimento quasi unanime dei palestinesi in Cisgiordania e altrove. Come Nelson Mandela nel Sudafrica dell’apartheid, l’uomo rinchiuso in prigione potrebbe rivelarsi più decisivo dei leader all’esterno.
Traduzione di Michelangelo Cocco
Il suo messaggio potrebbe diventare il nuovo programma del movimento di liberazione della Palestina. La prima volta incontrai Marwan nel periodo dell’ottimismo dopo-Oslo (gli accordi di «pace» del 1993, ndt). Allora si stava affermando come leader della nuova generazione di palestinesi, giovani attivisti cresciuti all’interno dei Territori occupati, uomini e donne che si erano fatti le ossa durante la prima Intifada. È un uomo di bassa statura fisica e grande personalità. Quando l’incontrai, era già il leader di Tanzim («Organizzazione»), i giovani del movimento Fatah.
L’argomento delle nostre conversazioni allora fu la preparazione di manifestazioni e altre azioni non violente basate su una stretta collaborazione tra i palestinesi e gruppi di pacifisti israeliani. Si puntava alla pace tra Israele e un nuovo Stato di Palestina.
Quando – con gli assassinii di Yitzhak Rabin e Yasser Arafat – il processo di Oslo morì, Marwan e la sua organizzazione divennero degli obiettivi. I leader israeliani che si susseguirono in quegli anni – Binyamin Netanyahu, Ehud Barak e Ariel Sharon – decisero di porre fine all’agenda politica basata sulla soluzione dei due Stati. La brutale operazione «Scudo difensivo» (lanciata dal ministro della difesa Shaul Mofaz, il nuovo leader del partito Kadima) prese di mira l’Autorità palestinese: le sue infrastrutture furono distrutte e molti dei suoi attivisti vennero arrestati.
Il processo farsa
Marwan Barghouti fu messo sotto processo. L’accusa sostenne che, in quanto leader di Tanzim, fosse responsabile di diversi attacchi «terroristici» in Israele. Si trattò di un processo farsa, più simile a un’arena di gladiatori che a un procedimento giudiziario. L’aula era piena di sostenitori della destra che strillavano, presentandosi come «vittime del terrorismo». Gli attivisti di Gush Shalom all’interno del tribunale protestarono contro quel processo, ma non ci fu permesso di avvicinarci all’imputato.
A Marwan furono comminati cinque ergastoli. L’immagine di lui che solleva i polsi ammanettati al di sopra della testa per i palestinesi è diventata un’icona nazionale. Quando ho reso visita alla sua famiglia a Ramallah, era appesa nel soggiorno. In carcere Marwan Barghouti è stato immediatamente riconosciuto come il capo di tutti i prigionieri di Fatah. Ma è rispettato anche dai militanti di Hamas. I leader detenuti di Fatah e Hamas hanno pubblicato diversi appelli congiunti in favore dell’unità e della riconciliazione tra palestinesi. Appelli circolati abbondantemente all’esterno e che sono stati accolti con ammirazione e rispetto.
I membri della famiglia allargata dei Barghouti giocano un ruolo molto importante nelle vicende palestinesi, nell’intero spettro politico, dai moderati agli estremisti. Uno di loro è Mustapha Barghouti, un medico che guida un partito politico moderato con molti legami all’estero che incontro regolarmente durante le manifestazioni a Bilin e altrove (una volta gli ho detto che quando ci ritroviamo, piangiamo: per i gas lacrimogeni). La famiglia Barghouti ha le sue radici in un gruppo di villaggi a nord di Gerusalemme.
Oggi Marwan Barghouti è considerato il candidato più autorevole per la leadership di Fatah e la presidenza dell’Autorità nazionale palestinese dopo Mahmoud Abbas. È una delle poche personalità attorno alle quali tutti i palestinesi – quelli di Fatah come quelli di Hamas – possano unirsi. Dopo la cattura del soldato israeliano Gilad Shalit, mentre si discuteva dello scambio di prigionieri, Hamas aveva messo Marwan Barghouti in cima alla lista di detenuti palestinesi di cui chiedeva la liberazione. Una mossa davvero originale, dal momento che Marwan appartiene alla fazione rivale e vituperata (gioco di parole con «rival» e «reviled», ndt).
Ma il governo israeliano cancellò il suo nome dall’elenco e rimase irremovibile nella sua decisione. E quando Shalit venne finalmente rilasciato, Marwan rimase chiuso nella sua cella. Sicuramente è stato giudicato più pericoloso di centinaia di «terroristi» di Hamas, con «le mani sporche di sangue».
Per quale motivo?
I cinici direbbero: perché vuole la pace. Perché sostiene la soluzione dei due Stati. Perché è in grado di unire il popolo palestinese per raggiungere quell’obiettivo. Tutte buone ragioni, per Netanyahu, per tenerlo dietro le sbarre.
E allora cosa ha detto Marwan al suo popolo questa settimana?
Chiaramente il suo atteggiamento si è irrigidito. E presumibilmente lo stesso è successo all’intero popolo palestinese.
«Spezzare ogni collaborazione»
Marwan ha fatto appello a una terza Intifada, una rivolta di massa non violenta sulla scia delle primavere arabe.
Il suo manifesto rappresenta un chiaro rifiuto della politica intrapresa da Mahmoud Abbas, che mantiene una collaborazione limitata ma importante con le autorità d’occupazione israeliane. Marwan invita a spezzare tutte le forme di collaborazione, siano esse economiche, militari o di altro tipo.
Un punto centrale di questa cooperazione è la collaborazione quotidiana dei servizi di sicurezza palestinesi (addestrati dagli Stati Uniti) con le forze di occupazione israeliane. Un accordo che è riuscito a bloccare gli attacchi palestinesi nei Territori occupati e in Israele, garantendo – di fatto – la sicurezza dei sempre più numerosi insediamenti israeliani in Cisgiordania. Marwan invita anche a un boicottaggio totale di Israele, delle istituzioni israeliane e dei prodotti israeliani nei Territori occupati e nel mondo intero. I prodotti israeliani dovrebbero scomparire dai negozi della Cisgiordania e al loro posto dovrebbero essere promosse le merci palestinesi.
Nello stesso tempo Marwan si batte per porre fine ufficialmente alla pagliacciata chiamata «negoziati di pace». Un termine che in Israele già da tempo non viene più utilizzato. È stato prima sostituito da «processo di pace» e poi da «processo politico» e ultimamente da «problema politico». La semplice parola «pace» è diventata un tabù per la destra e la maggior parte della sinistra. Vero e proprio veleno politico. Marwan propone di ufficializzare l’assenza di negoziati di pace. Basta discorsi internazionali su «rivitalizzare il processo di pace», basta rincorrere personaggi ridicoli come Tony Blair, fine degli annunci di Hillary Clinton e Catherine Ashton, smetterla con le vuote dichiarazioni del «Quartetto». Dal momento che il governo israeliano ha abbandonato la soluzione dei due Stati – che in realtà non aveva mai accettato – continuare a fingere danneggia soltanto la lotta dei palestinesi.
Al posto di questa ipocrisia, Marwan propone di rinnovare la battaglia all’interno delle Nazioni Unite. Prima di tutto chiedendo di nuovo al Consiglio di sicurezza di accettare la Palestina come Stato membro, minacciando gli Stati Uniti di dover porre il loro veto praticamente contro tutto il resto del mondo. Dopo la bocciatura della richiesta palestinese a causa del veto Usa, andrebbe chiesta una decisione da parte dell’Assemblea Generale, dove la stragrande maggioranza si pronuncerebbe a favore dello Stato palestinese. Sebbene questa decisione non sarebbe vincolante, dimostrerebbe che la libertà della Palestina ha l’appoggio della stragrande maggioranza della famiglia delle nazioni e isolerebbe ulteriormente Israele e gli Stati Uniti.
Parallelamente a questo percorso, Marwan insiste sull’unità tra i Palestinesi, facendo leva sulla sua considerevole forza morale per mettere assieme Fatah e Hamas. Riassumendo: Marwan Barghouti ha perso la speranza di ottenere la libertà per i palestinesi attraverso la collaborazione con Israele, anche con le forze di opposizione israeliane. Il movimento per la pace israeliano non viene nemmeno più citato. «Normalizzazione» è diventata una parolaccia.
Non si tratta di idee nuove, ma arrivano dal prigioniero palestinese numero uno, il candidato più rappresentativo per la successione a Mahmoud Abbas, l’eroe delle masse palestinesi: vuol dire che si va verso un orizzonte più radicale, nella sostanza e nei toni.
Fedele alla pace, ai «due Stati»
Marwan resta un uomo che crede nella pace, come ha chiarito quando – in una rara recente apparizione in tribunale – ha riferito ai giornalisti israeliani che continua a sostenere la soluzione dei due Stati. Resta anche fedele alla lotta non violenta, essendo giunto alla conclusione che gli attacchi violenti dei giorni andati hanno danneggiato la causa palestinese piuttosto che rafforzarla.
Vuole bloccare il graduale involontario scivolamento dell’Autorità palestinese verso una collaborazione in stile Vichy mentre l’espansione dell’«impresa coloniale» israeliana procede indisturbata.
Non è per caso che Marwan ha pubblicato il suo manifesto alla vigilia della Giornata della terra, la giornata mondiale di protesta contro l’occupazione.
La Giornata della terra è l’anniversario di un evento accaduto nel 1976, durante una protesta contro la decisione del governo israeliano di espropriare ampie zone di terra araba in Galilea e altre parti d’Israele. L’esercito e la polizia israeliana spararono sui manifestanti, uccidendone sei. Il giorno successivo due dei miei amici ed io deponemmo corone di fiori sulle tombe delle vittime, un atto che mi costò un’ondata di odio e denigrazione raramente sperimentata. La Giornata della terra rappresentò un punto di svolta per i cittadini arabi d’Israele e in seguito divenne un simbolo per tutti gli arabi. Quest’anno il governo Netanyahu ha minacciato di fare fuoco su chiunque si fosse avvicinato ai nostri confini. Il premier israeliano ha provato a fare da messaggero per la terza Intifada chiesta da Marwan.
Da un po’ di tempo ormai il mondo ha perso molto interesse per la Palestina. Tutto sembra tranquillo. Netanyahu è riuscito a spostare l’attenzione del mondo dalla Palestina all’Iran. Ma in questo paese niente è mai davvero fermo. Mentre sembra che non stia succedendo nulla, gli insediamenti stanno crescendo incessantemente e con loro il risentimento profondo dei palestinesi, che vedono che tutto ciò si verifica davanti ai loro occhi.
Il manifesto di Marwan Barghouti esprime il sentimento quasi unanime dei palestinesi in Cisgiordania e altrove. Come Nelson Mandela nel Sudafrica dell’apartheid, l’uomo rinchiuso in prigione potrebbe rivelarsi più decisivo dei leader all’esterno.
Traduzione di Michelangelo Cocco
da “il manifesto”
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