* Il Megafono Quotidiano
Ci sono atti e gesti che dicono più di tante parole e programmi. Annullare la parata del 2 giugno, di fronte alle macerie del terremoto, non equivale ad accogliere la posizione di chi, come noi, annullerebbe la parata ogni anno (la parata, non la festa della Repubblica). Significherebbe riuscire a mettere, almeno per una volta, in secondo piano la glorificazione dell’apparato militare rispetto al dolore umano. Certo, Giorgio Napolitano riuscirà non poco a spiegare che il terremoto, le vittime, gli operai schiacciati si commemorano proprio riandando alla radice della “res-pubblica” e quindi con il 2 giugno. Ma lo farà con l’esibizione della forza muscolare, dell’interezza dello Stato ribadita dai fucili e dai cannoni, lo farà con la retorica nazionalista, quanto mai fuori tempo in epoca di mondializzazione. E lo farà, consapevolmente, mettendo in primo piano un’astratta unità nazionale, uno “stringiamoci a coorte” che servirà a sfuocare le responsabilità, a non distinguere colpe e buchi di un sistema di protezione nazionale che non prevede nulla, che non riesce a salvare neanche mezza vita salvabile, in grado solo di intervenire “dopo”, per assistere, curare, allestire tende. Che poi restano in piedi per anni e anni. Tutto questo verrà dimenticato il 2 giugno, sui sanpietrini dei Fori imperiali in cui lo Stato sembrerà esserci, si mostrerà forte e sicuro per mascherare la propria debolezza e le proprie colpe. Ma in fondo la parata del 2 giugno è sempre stata questo. Una ragione in più per disertarla.
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