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La Palestina tra speranza e delusione

L’ultimo atto di questo tira e molla: improvvisamente, proprio dopo pochi giorni dall’allargamento del governo di Salam Fayyad, considerato da tanti una provocazione e quindi la fine del dialogo tra Fatah e Hamas – con la conseguenza di una radicalizzazione delle divisioni – le due maggiori organizzazioni palestinesi ci hanno sorpreso con un nuovo accordo firmato al Cairo. Una intesa, questa, che sancisce l’inizio dell’attuazione dell’accordo di Doha.

Quali sono le novità di questo ultimo accordo?
La prima, a sentire molti commentatori palestinesi, è la contemporaneità tra la formazione di un governo di unità nazionale e l’inizio del lavoro della commissione elettorale a Gaza. Una novità che avrebbe il merito di togliere cosi ogni pretesto alle parti. La seconda novità prevede che in caso di impossibilità ad indire le elezioni nei tempi concordati, per cause di forza maggiore, le parti si rivedono per esaminare la possibilità di formare un nuovo governo di unità nazionale, presieduto questa volta da una personalità indipendente, il cui nome deve trovare l’accordo sia di Fatah che di Hamas. La terza novità è la la necessità di garantire una diffusa libertà di espressione nel periodo che precede le elezioni legislative.
Novità fino ad un certo punto, visto che a leggerle con attenzione ci si accorge che il tutto sembra nient’altro che un ritorno all’accordo di Doha. Scherzi a parte, in realtà tutti sperano in una ritrovata “serietà” da parte delle due forze politiche. I palestinesi sono da tempo saturi di queste dichiarazioni, vogliono vedere fatti concreti, potranno credere e dare fiducia alla classe politica solo quando vedranno la commissione elettorale al lavoro a Gaza e la formazione di un governo che porta diritto verso le elezione. Finché non si realizzano queste condizioni il dubbio rimane sovrano.
A questo punto però una domanda è d’obbligo: cosa ha impedito l’attuazione dell’accordo di Doha? Formalmente le responsabilità vanno ricercate negli accorgimenti messi in atto dall’ufficio politico di Hamas, tali da rendere l’attuazione impossibile. Oltre a questo c’è il problema della rappresentanza del gruppo dirigente del partito islamico visto che ancora non si sono completate le elezioni per il suo rinnovo. Fra l’altro, non è stato rinnovato il mandato di Khaled Mashaal come capo dell’ufficio politico, ne è stato scelto uno successore.
Ma la causa principale dell’implementazione degli accordi di Doha vanno ricercate negli stessi contenuti. Un accordo firmato in fretta e furia, saltando punti essenziale come la riforma dell’Olp, il programma politico unitario, l’unificazione degli apparati di sicurezza. Ci si è limitati alla formazione del governo che doveva preparare le elezioni.
Resta quindi il nodo da sciogliere: quale sarà il programma politico del nuovo governo? Sarà quello del presidente come ha dichiarato lo stesso Abu Mazen subito dopo l’accordo di Doha? Oppure sarà senza programma politico come vorrebbe Hamas, dato che la politica spetta di competenza all’Olp e non all’Anp? E se dopo le elezioni si dovesse confermare la politica di Hamas che cosa cambierà nella posizione di Usa, Israele e degli altri padri influenti della comunità internazionale, che hanno sempre minacciato di boicottare il governo, tagliandogli gli aiuti economici, se non si impegna a rispettare le condizioni del Quartetto? Dubbi e preoccupazioni che sono l’amaro regalo della divisione e degli accordi mai attuati, e lasciano molto pessimismo in tutti.
Per cercare di capire cosa succederà nelle prossime settimane è utile provare ad indagare cosa ha spinto Hamas e Fatah a firmare l’ultimo accordo del Cairo.
Primo; sicuramente la risposta di Netanyahu alla lettera di Abu Mazen, deludente, come largamente previsto, non solo nella forma ma anche nella quotidianità, dove l’occupazione continua a porre i palestinesi davanti ad una realtà coloniale. C’è inoltre l’allargamento del governo israeliano al partito di Kadima, questo accordo ha fatto si che l’attuale esecutivo sia il più forte nella storia di Israele. Dall’altra parte, l’amministrazione statunitense, impegnata nella campagna elettorale per il rinnovo del Presidente, non ha nessuna intenzione di esercitare alcunché di pressione sul governo di Tel Aviv, tanto meno di presentare nuove proposte per la ripresa del negoziato. Infine, Obama è contrario a qualsiasi iniziativa palestinese presso l’Onu per il riconoscimento dello stato. Questi elementi hanno messo la leadership palestinese di fronte al muro di gomma, rappresentato dal punto morto dove sono arrivate i negoziati. Se questa situazione perdurerà nel tempo, la stessa credibilità della leadership palestinese e la sua legittimità fra il popolo verrà messa in discussione. E non è un caso che il nuovo governo, formatosi due settimane fa, non ha presentato né promesso una soluzione.
Secondo; Hamas in questi mesi ha scommesso sulla cosiddetta “primavera araba” e sull’ascesa dell’islam politico. Il partito islamico è infatti convinto che l’effetto di tutto ciò sulla Palestina non può che migliorare la sua posizione nello scacchiere della regione. Sembra però che la realtà sia ben differente e che le speranze siano state velocemente deluse: semmai ci sia stato l’effetto ha iniziato il suo graduale tramonto proprio a partire dalla fase delle elezione presidenziale in Egitto. Per rendersene conto basta guardare le pressioni egiziane su Hamas – arrivate sia dai Fratelli musulmani che dai servizi segreti – che hanno consigliato ai dirigenti di Hamas moderazione e flessibilità e soprattutto che hanno praticamente imposto un reintegro nella legalità palestinese, e quindi la riconciliazione con Fatah. Questo perché l’Egitto dopo le elezioni avrà bisogno di lunghi tempi per risollevarsi in piedi, ed ha necessità di sostegno economico esterno e regionale per la stabilità e la sicurezza interna. Il Cairo ha l’obbiettivo di uscire bene di questa transizione, senza commettere errori che potrebbero risultare fatali.
Terzo; l’apparato di sicurezza “mokhabarat” egiziano ha giocato un ruolo essenziale nell’ultimo incontro tra Fatah e Hamas, e naturalmente anche nelle sue conclusioni. Anche i militari cercavano un successo prima delle elezioni, per riaffermare il loro ruolo futuro in patria e nella regione.
E’ chiaro quindi che il successo del nuovo accordo è condizionato alla volontà politica che le parti avranno per la sua attuazione. Serve la consapevolezza che entrambi dovranno accettare di pagare il prezzo dell’unità, lasciando da parte gli interessi e i progetti settari di partito in favore di un progetto nazionale condiviso, che segua gli interessi generali. Un programma che sia un po’ più concreto di quello di Fatah e più flessibile di quello di Hamas. Un programma che impegna tutti a rispettare i diritti e gli obbiettivi dei palestinesi, basandosi sul diritto internazionale e le risoluzione dell’Onu. Ma prima di tutto si deve condizionare in futuro l’impegno palestinese a firmare accordi all’impegno di Israele ad attuarli e rispettarli. In caso contrario si dovrà riesaminare e considerare estinti gli stessi accordi di Oslo.
Quarto; continuare la riforma dell’Olp, in modo che sia rappresentativa di tutto l’arcobaleno politico palestinese e suo punto di riferimento.
Infine, l’accordo del Cairo dovrà rafforzare quello precedente di Doha, al fine di ripristinare l’unità nazionale, su un progetto di liberazione nazionale condiviso e partecipato, che si fondi sulla resistenza come strumento per mettere fine all’occupazione.
In attesa di tutto questo, però, i palestinesi non possono che rimanere ottopessimisti, cioé aspettano i risultati del lavoro della commissione elettorale giunta per la prima volta a Gaza nei giorni scorsi e vogliono vedere i risultati concreti dalle prime consultazioni per la formazione del nuovo governo di unità nazionale.

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