Hugo Chávez si ama o si odia, senza vie di mezzo. E sia l’amore sia l’odio obnubilano, rendendo difficile farsi strada al lume della ragione.
È sempre stato così, fin dal 1998, l’anno in cui irruppe come «un magnifico uragano» sulla scena politica venezuelana. «Tutti i rivoluzionari di qua, tutti gli escuálidos di là», gridava allora alle masse infervorate dei suoi sostenitori. E, nel fondo, né gli anni turbolenti di potere, né il golpe subito e scampato nel 2002, né la recente malattia lo hanno cambiato. In questi 14 anni è andato al voto 14 volte e ha sempre vinto – in elezioni considerate pulite -, eccetto una volta, nel referendum costituzionale del 2007, quando perse per un niente e accettò la sconfitta – al contrario di quanto i suoi detrattori credevano e probabilmente speravano.
Oggi si presenta di nuovo al giudizio dei venezuelani, fiaccato dal brutto tumore che lo ha colpito nel 2011 (ufficialmente «superato», su cui incombe però un mistero di stato), ma combattivo e focoso come sempre.
Questa, a giudizio di molti, sarà l’elezione più importante e più incerta fra tutte le altre. La prima in cui la sua vittoria non è scontata.
La prima elezione in cui l’opposizione sembrerebbe aver messo da parte i connotati nettamente golpisti di questi anni, aver superato le divisioni interne, aver presentato un candidato – il rampante quarantenne Henrique Capriles Radonski – con un minimo di credibilità. Capriles è un giovanotto genuinamente e legittimamente di destra nonostante i suoi camuffamenti elettorali, con l’obiettivo di pescare fra i tanti indecisi e i delusi dal chavismo, lo spingano a definirsi di centro-sinistra e a millantare come modello il brasiliano Lula (che però sta con Chávez). Ricco di famiglia, deputato in parlamento a 26 anni, governatore dello stato di Miranda (quello che comprende Caracas) strappato ai chavisti, candidato presidenziale. Secondo i suoi avversari in gioventù ha fatto parte del gruppo di estrema destra «Tradición, Familia y Propriedad», di certo ha partecipato attivamente all’effimero golpe contro Chávez dell’aprile 2002. Assicura che con lui espropriazioni e nazionalizzazioni finiranno, ma anche che continueranno le « misiones boliviarianas» – i popolarissimi programmi sociali di Chávez -, rendendole però «più efficienti». L’anti-chavismo interno e internazionale ha fatto del suo meglio per pompare Capriles. Teodoro Petkoff, l’ex-guerrigliero comunista degli anni ’60 passato armi e bagagli alla destra liberista, ha scritto che il candidato dell’opposizione è riuscito «a scatenare l’euforia, l’emozione e la passione», il Washington Post di ieri lo definiva uno sfidante « charismatic». L’anti-chavismo militante ha fatto del suo meglio anche per demonizzare a dovere, come sempre, il « caudillo rosso». Sempre Petkoff, molto ascoltato e apprezzato negli ambienti della sinistra rosa europea si è lanciato in una previsione assai azzardata: «… è possibile affermare con poco margine di errore che Henrique Capriles Radonski vincerà le elezioni presidenziali del 7 ottobre». Un po’ più prudente, il latino-americanista della Repubblica si dice sicuro (e spera) che «comunque sia, l’autunno del comandante invincibile è cominciato». In inglese si chiama wishful thinking . Questa notte o domani si saprà se Chávez ha vinto ancora. Noi speriamo che vinca. Non siamo ciechi e non guardiamo al Venezuela chavista come al paradiso né a Chávez come a un vice di dio in terra ( «Primero Dios y despues mi Comandante») . Forse o senza forse il «socialismo del secolo XXI» ha bisogno di essere meglio definito e praticato; forse o senza forse la «democrazia partecipativa» deve essere partecipata non solo in basso ma deve arrivare anche al vertice, nei piani alti della burocrazia di governo e di partito dove invece spesso sembra prevalere il verticalismo e il burocratismo (oltre che la corruzione); forse o senza forse il chavismo ha il suo limite vero nel messianesimo, nella solitudine e insostituibilità del líder máximo ; forse o senza forse nella «rivoluzione chavista» ci sono sintomi e pericoli di un bonapartismo che apre sempre la strada a una transizione burocratica verso la contro-rivoluzione; forse o senza forse le « misiones» chaviste alleviano le condizioni delle masse povere ma non risolvono il problema strutturale della povertà (la destra brasiliana e molti intellettuali anche di sinistra dicevano le stesse cose del programma «Fame zero» di Lula); forse o senza forse Chávez ha fallito nel cambiare il modello economico tutto-e-solo petrolio (95% delle entrate, importato più dell’80% dei prodotti alimentari); forse o senza forse ci sono sperperi e corruzione da parte della avida « boliborguesia» , la nuova borghesia bolivariana; forse o senza forse il problema della violenza che ha fatto di Caracas una delle città più pericolose del mondo, non è stato affrontato come si doveva; forse o senza forse l’«iper-presidenzialismo» di Chávez è eccessivo anche se finora le sue 13 vittorie elettorali su 14 elezioni le ha vinte a colpi di democrazia (e democrazia elettorale pulita, come l’occidente comanda) e semmai i golpisti erano nella «opposizione democratica»; forse o senza forse Chávez ha una retorica troppo bellicosa, ha troppo bisogno di nemici interni (« los escuálidos» ) ed esterni («l’imperialismo nord-americano») e dopo tanti anni la guerra stanca per cui molti chavisti pare siano migrati verso un terzo Venezuela che non è quello di Chávez né quello degli anti-Chávez: i «Ni-Ni », i Né-Né che nelle speranze di Capriles e di molti potrebbero decidere il voto. Ma una cosa è chiara: di fronte, in Venezuela, durante questi 14 anni – e anche oggi – ci sono due modelli contrapposti, antagonisti. Uno è quello incarnato, con tutti i suoi limiti, da Chávez, l’altro è quello rappresentato da Capriles. Ognuno scelga quello che vuole. Noi, a occhi aperti, scegliamo Chávez. Come ha detto uno, il suo «è stato il primo governo a usare le risorse del petrolio per risolvere i problemi sociali e preoccuparsi dei poveri». Salute, scuole, case, alimentazione, salario minimo, leggi sul lavoro. Paese pericoloso, sì, ma anche quello in cui la mortalità infantile è stata dimezzata, quello (dati Onu) con il minor livello di diseguaglianza dell’America latina e in cui la povertà urbana è passata dal 49% del ’99 al 29% del 2010, quello che ha usato il petrolio (magari con metodi spicci) come strumento di sostegno ad altri paesi latino-americani (Cuba ma non solo Cuba) e leva all’integrazione regionale, quello che ha cercato di rompere il vecchio schema nord-sud con l’altro sudsud (con Cina, Iran, India, Russia, Sudafrica…). E, last but not least , quello che ha cercato di contrastare la (nefasta) presa Usa in America latina. Hugo Chávez, con il suo stile flamboyant e con tutti i suoi limiti, è stato l’uomo che ha dato (dato, non ridato) il diritto di cittadinanza e i «diritti politici» (che non si esauriscono nel diritto di voto) a chi non li aveva mai avuti in Venezuela.
da “il manifesto”
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