1. Un uso corretto della teoria
Nell’ultimo mese si è accesa tra i comunisti in Italia una discussione sulle alleanze in vista delle prossime elezioni politiche. La domanda è se aderire al centro-sinistra, ovvero allearsi al Pd, oppure costruire alleanze politiche alternative al di fuori del centro-sinistra. In effetti, la seconda opzione rappresenta una rottura con una linea che, seppure in modo non sempre uniforme, è stata portata avanti per venti anni da Rifondazione Comunista e dal PdCI. Per supportare questa o quella posizione si è fatto riferimento alla teoria politica marxista, i cui fondamenti sono stati espressi da Lenin e sviluppati da pochissimi altri, tra cui Gramsci.
Va da sé che, come per ogni classico, si corre il rischio di citare impropriamente questo o quel passaggio. Eppure, un uso improprio di Lenin è particolarmente difficile se solo lo leggiamo un po’ più attentamente. Ad esempio, “L’estremismo malattia infantile del comunismo” viene qualche volta citato a sostegno della necessità dei compromessi. In merito, però, la posizione di Lenin è alquanto articolata: “Un uomo politico deve saper distinguere i casi concreti di quei compromessi che sono inammissibili e dirigere tutta la forza della critica contro questi compromessi concreti (…)
Vi sono compromessi e compromessi. Si deve essere capaci di analizzare le circostanze e le condizioni concrete di ogni compromesso.”[1] Un conto, dice Lenin, è il compromesso della socialdemocrazia nel 1914, che votò i crediti di guerra, altro conto è il trattato di pace che i bolscevichi firmarono con i tedeschi a Brest-Litovsk nel 1918. Il primo fu una capitolazione dei socialisti tedeschi e francesi davanti al proprio imperialismo, il secondo fu il modo con cui i comunisti russi salvarono il giovane e fragile stato sovietico.
Anche noi, ancorché molto più modestamente, dovremmo partire dal “calcolo ponderato e rigorosamente obiettivo di tutte le forze in campo”[2] e “riconoscere apertamente un errore, scoprirne le cause, analizzare le situazioni che lo hanno generato, studiare attentamente i mezzi per correggerlo: questo è indizio della serietà di un partito.”[3] La mia impressione è che nel dibattito in corso si tenda ad incentrarsi sulle risposte immediate, le alleanze e la tattica elettorale in generale, senza aver definito quale strategia complessiva vada adottata e senza aver analizzato la situazione concreta e la natura delle forze politiche in azione.
2. Valutazione dei governi di centrosinistra
I comunisti, gramscianamente “filosofi della prassi”, devono sempre fare un bilancio della loro esperienza e capire, sulla base di questo, se modificare, e in quale direzione, la loro prassi. Valutiamo allora la nostra esperienza ventennale, che si è basata sull’alleanza strategica con il centrosinistra, e che comprende la partecipazione a due governi a guida Prodi. Riteniamo positivi i risultati della nostra partecipazione a questi due governi? Vediamo.
Il primo governo Prodi aumentò l’Iva dal 19% al 20%, ridusse gli scaglioni e la progressività dell’Iperf, di cui portò l’aliquota massima Irpef per i ricchissimi dal 51% al 45,5%. Soprattutto diede inizio al processo di precarizzazione del mercato del lavoro italiano con la legge Treu (1997). Tale legge, secondo l’Ocse, ha inciso in termini di deregolamentazione del mercato del lavoro molto più della Legge Biagi, varata dal governo Berlusconi nel 2003. Le privatizzazioni effettuate dal governo Prodi sono state molte di più di quelle effettuate del governo Berlusconi, a partire dalla “madre” di tutte le privatizzazioni, quella di Telecom (1997).
Passiamo al Prodi II. In questo governo il ministro dell’economia Padoa Schioppa (già artefice dell’euro e successivamente membro del Consiglio di amministrazione della Fiat), si faceva paladino della bellezza del pagare le tasse e della disciplina di bilancio. In effetti, furono le aliquote dell’Irpef per i redditi più bassi ad essere aumentate[4], mentre le imposte per le imprese, l’Ires e l’Irap furono diminuite. In particolare, la tanto sbandierata riduzione del cuneo fiscale andò tutta a favore delle imprese. Sul piano della politica estera, l’Italia incrementò il numero dei suoi soldati e dei suoi mezzi offensivi in Afghanistan, dove furono impiegati in vere e proprie azioni di guerra, malgrado le continue smentite del governo. Quale fu la nostra incisività sull’operato di quel governo? Pressocché nulla. Tutti i punti più qualificanti del nostro programma elettorale, a partire dall’abolizione della Legge Biagi, furono sacrificati alla salvezza della coalizione di governo. Chi votò contro l’Afghanistan fu tacciato di tradimento in faccia al nemico (berlusconiano, mica talebano). Tutte le volte che si provò ad alzare la testa si veniva zittiti con il solito ricatto morale: “Volete prendervi la responsabilità di far cadere il governo e aprire la strada a Berlusconi?”
Dal momento che i lavoratori italiani e in particolare i nostri elettori guardano ai fatti concreti, venimmo puniti (Prc, PdCI e Verdi), perdendo 3 milioni di voti e scendendo dal 12% al 3%. Che quella debacle fosse dovuta al rifiuto – non nostro ma di Veltroni – di coalizzarsi, che cioè fosse dovuto al “voto utile” o principalmente ad esso è smentito da numerose ricerche sui flussi elettorali, che dimostrano che i nostri elettori si diressero soprattutto verso l’astensione. Solo in parte minore si diressero verso l’Idv e in misura minima verso il Pd. Su questo consiglio la lettura del mio articolo “Il voto di classe in Italia”[5]. In effetti, cominciammo a perdere voti (in assoluto e in percentuale) a partite dalle comunali del 2007, cioè durante il governo Prodi II e prima dell’Arcobaleno del 2008. Tuttavia, Prc e Pdci ignorarono tutti i segnali di disagio del nostro elettorato e continuarono a logorarsi con la partecipazione al governo, fino a che Mastella non ne staccò la spina. Tuttavia, in politica nulla è fisso e tutto e mobile. Vediamo, dunque, se oggi il Pd è in grado di esprimere una discontinuità col passato.
3. La contraddizione è tra tecnica e politica?
È stato detto che oggi la scelta sarebbe tra i tecnici e la politica. Appoggiare il Pd e Bersani rappresenterebbe il modo in cui riportare in auge la politica. Ci si scorda, però, di osservare che in Italia è ancora in vigore un meccanismo di governo parlamentare in base al quale il governo Monti ha dovuto ottenere la fiducia del Parlamento. E soprattutto ci si scorda di osservare che esiste una maggioranza politica e parlamentare che ha sostenuto il governo e ne ha votato i decreti. Il Pd, che per senso di responsabilità (verso chi?) ha rinunciato ad elezioni che avrebbe vinto a mani basse, è stato un pilastro fondamentale di tale maggioranza. Non si può negare che il Pd ha votato tutti i provvedimenti del governo, che sono stati i peggiori degli ultimi decenni: dall’aumento dell’età pensionabile al più alto livello europeo, alla riforma Fornero del mercato del lavoro, all’abolizione dell’articolo 18, all’aumento delle imposte regressive come l’Iva e alla reintroduzione dell’Imu sulle prime case.
Sempre a proposito di contraddizione tra tecnici e politici, andrebbe osservato, oltre al fatto che la riforma Fornero riprende alcune proposte Pd (ad esempio l’apprendistato che abbassa i salari di entrata), che la Legge di stabilità non è stata affatto migliorata nel passaggio in Commissione Bilancio, dove uno dei due relatori di maggioranza era Baretta del Pd, e in aula a Montecitorio. Anzi, è stata peggiorata, visto che, attraverso lo storno di risorse che sarebbero dovute andare alla riduzione dell’Irpef per i più poveri, sono state aumentate le risorse alle imprese, realizzando, attraverso un falso “salario di produttività”, la morte del contratto collettivo, la riduzione dei salari e la subordinazione dell’organizzazione del lavoro alle esigenze di profitto. Inoltre, quando è stato proposto l’aumento di un 3% di aliquota Irpef per i redditi oltre i 150mila euro, allo scopo di trovare risorse per gli esodati, Bersani si è detto contrario[6]. Particolarmente irritante è stata, poi, l’emendamento del Pd a favore del mantenimento di 223 milioni per le scuole private, a fronte di tagli consistenti alla scuola pubblica.
La questione più importante, però, è che il Pd ha approvato il più decisivo di tutti i provvedimenti: il fiscal compact e l’introduzione in Costituzione del Pareggio di Bilancio. E non certo obtorto collo, visto che Pds, Ds e Pd hanno sempre assunto posizioni in linea col mainstream europeista. Lo stesso Fassina, rappresentante della sinistra “socialdemocratica” del Pd, ha detto che si tratta di un fatto positivo in quanto consente di avere “più Europa”. Abbiamo visto cosa vuol dire avere più Europa: subordinazione delle politiche sociali e del lavoro alla stabilità dell’euro ed alle compatibilità di bilancio.
Bersani può parlare finché vuole di “rimettere al centro il lavoro” e dire che “il prossimo governo non lo decideranno i banchieri”. Le sue parole risultano poco credibili a fronte dei fatti, cioè dei provvedimenti da lui votati sul lavoro e a fronte dell’approvazione dei vincoli di bilancio che impediscono qualsiasi margine di politica di carattere veramente socialdemocratico. Senza contare il non piccolo dettaglio della propensione del Pd all’alleanza con una forza come l’Udc, come sperimentato in Sicilia, e la dichiarazione di Bersani, subito dopo le primarie: “Continuerò a sostenere la politica di rigore e credibilità che Monti ha portato”.
La domanda è, quindi, la seguente: se la formula del centrosinistra è fallita già negli anni passati, come possiamo pensare che riesca oggi, in presenza di rigidi vincoli di carattere europeo, con una blindatura del governo entro binari ben precisi e con le nostre forze che sono molto più ridotte che nel 2006?
4. Contare e non fare testimonianza. Sì, ma come?
Giustamente si dice che i comunisti devono cercare di contare e non ridursi a pura testimonianza. Contare non significa, però, partecipare ad alleanze in cui non esistono i rapporti di forza per pesare. Il rischio di ridursi a pura testimonianza sta proprio nel ripetere una linea dimostratasi errata, che ci vede ininfluenti e ci allontana dalle masse, erodendo il poco consenso rimasto. Si è detto che non si fanno alleanze “a prescindere”. Come ho scritto mesi fa[7], sono d’accordo: in politica vanno evitate le pregiudiziali. Ma in questo caso concreto dov’è il programma del centrosinistra che, ad esempio, ripristina l’articolo 18 o la precedente età di pensionamento?
Il punto è che la fase storica è cambiata. Siamo non solo all’interno della peggiore crisi del capitale dalla fine della Seconda guerra mondiale, che probabilmente durerà almeno un quindicennio, ma anche all’interno della maggiore riorganizzazione della produzione e dei rapporti di lavoro. Ad esempio, la precarietà e la disoccupazione, fenomeno collegato all’astensionismo, non sono più un dato congiunturale, ma caratteristiche strutturali e funzionali dell’accumulazione di capitale. Il fallimento del centrosinistra e della nostra strategia, pensata attorno ad esso, è dovuta proprio all’incomprensione di quanto stava accadendo e dello stato d’animo delle masse.
I mezzi di comunicazione, fortemente controllati dai grandi gruppi monopolistici, hanno avuto buon gioco a rivolgere la rabbia popolare verso la “casta”, i politici, i partiti, mentre il problema è nei rapporti di produzione. Non dobbiamo cadere nello stesso errore, sia pure in forme rovesciate, pensando che la contraddizione sia tra antipolitica e politica o tra tecnica e politica. La politica in astratto non può risolvere la situazione, perché la vera contraddizione è tra una politica, in qualunque forma si manifesti, che esprime le esigenze del capitale e una politica che esprima le esigenze del lavoro salariato. Se la politica e i partiti sono screditati non è (sol)tanto a causa dei costi della politica o della corruzione, ma soprattutto perché vengono percepiti come incapaci di frenare lo smottamento sociale. E se i partiti vengono percepiti come “tutti uguali” è proprio perché le ricette di politica socio-economica non si differenziano di molto tra centrosinistra e centrodestra, rimanendo questi all’interno di linee-guida egemoniche.
Una alleanza di una parte della Fds con il Pd avrebbe effetti perniciosi per la ripresa della sinistra in Italia e per la ricostruzione di un partito comunista. In primo luogo, perché spaccherebbe, insieme alla Fds, anche il fonte dei comunisti, scavando un solco tra di loro, e poi perché la ricostruzione di un partito comunista di massa passa per la ritessitura paziente di un rapporto di fiducia con i settori di classe più avanzati che si è rotto. Soprattutto passa per il recupero dell’astensionismo, in cui è finita una parte consistente dei nostri voti.
In definitiva, la riaffermazione di un progetto politico sta nella ricostruzione di rapporti di forza adeguati, nell’accumulo di forze. Solo se i comunisti e la sinistra non si faranno risucchiare nel centrosinistra riusciranno a fare questo e potranno provare ad occupare un’area politica che diventa sempre più ampia. Un’area che, non presidiata adeguatamente ed essendo inammissibili i vuoti in politica, rischia di essere definitivamente occupata da un ampio ventaglio di forze politiche che, seppure in modo diversificato, esprimono posizioni di estrema destra se non addirittura neofascista.
Quanto abbiamo detto non è in contraddizione con il ritorno dei comunisti in Parlamento, anzi ne è condizione necessaria. Esistono le condizioni politiche ed il terreno sociale per realizzare un sistema di alleanze alternative al Pd, che consentano di superare lo sbarramento elettorale. E soprattutto che permettano di ricostruire un insediamento sociale che è venuto meno e che garantiscano l’autonomia politica necessaria per affrontare, dentro e fuori il Parlamento, una stagione di lotte che si prospetta lunga, complessa e molto dura.
*: Domenico Moro fa parte del Comitato federale PdCI-Roma
[1] Lenin, L’Estremismo malattia infantile del comunismo, Editori Riuniti, Roma 1974, pag. 43
[2] Idem, pag. 95.
[3] Idem, pag.85.
[4] Con il governo Berlusconi per un reddito fino a 26mila euro l’aliquota Irpef era del 23%, con Prodi fino a 15mila euro rimase al 23% e per l’eccedente fino a 26 mila si passò dal 23% al 27%. Le deduzioni annullano l’aumento solo per chi ha più di due figli a carico, cosa che riguarda una minoranza di lavoratori. L’Ires, imposta sul reddito delle imprese, fu diminuita dal 33% al 27,5%. Inoltre con la legge 244/2007 si abolisce l’art. 98 del Tuir che disciplinava la sottocapitalizzazione, allo scopo di pagare meno tasse. L’Irap viene ridotta invece al 3,9% dal 4,25%.
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