Le vittime si contano a decine, come a decine si contano i blitz e le retate poliziesche. Ogni giorno si sequestrano armi da guerra e quantitativi industriali di droga. Il tutto nell a sostanziale indifferenza generalizzata della città.
Dai livelli istituzionali a quelli ecclesiastici, dalle organizzazioni sindacali ai partiti, dalle associazioni degli industriali a quelle dei commercianti l’unico grido che, puntualmente, si alza è la richiesta parossistica di nuovi poliziotti, di più blitz e di più arresti.
Molti dimenticano che solo nelle provincie di Napoli e Caserta, volendo far partire il conto dagli inizi degli anni ’80 – ossia da quel terremoto del 23 novembre 1980 che segna uno spartiacque nell’evoluzione nella cartografia sociale degli affari e degli equilibri di potere in questi territori – da queste parti il numero dei morti i camorra arriva a sfiorare la spaventosa cifra di 6000 unità.
Nei giorni scorsi l’agguato consumato all’interno di una scuola elementare di Scampia, mentre i bambini preparavano le recite di Natale, ha – di nuovo – scatenato l’ipocrita esecrazione circa la violenza gratuita e l’assenza di morale tra i delinquenti. Tutti gli opinion maker della dis/informazione organizzata fanno a gara a chi pronuncia frasi e dichiarazioni le più bellicose possibili mentre nulla – assolutamente nulla – è stato fatto, e sarà fatto, sul versante degli interventi strutturali afferenti il miglioramento della qualità della vita di chi popola questi slum.
Da anni pochi e coraggiosi attivisti politici e sociali, con modalità controcorrente, denunciano questo allucinante stato di cose scontrandosi con le vestali dell’anticamorra, alla Saviano, e con l’union sacrè statuale e militarista.
In tal senso, a testimonianza di un lavoro politico di lunga lena, ripubblichiamo un intervento dell’aprile 2007 sul vecchio sito di Contropiano, che ci mostra l’attuale permanenza di alcuni nodi strutturali circa il corso sociale e materiale delle organizzazioni criminali e circa l’immanenza di quell’articolato puzzle di contraddizioni che sostanziano le forme di vita e di potere in una particolare area metropolitana: quella partenopea!
* Rete dei Comunisti, Napoli
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NAPOLI: dacci oggi il nostro morto quotidiano!
Sulla quotidiana mattanza nell’area metropolitana napoletana.
(4 Aprile 2007)
Con la fine del mese di marzo del 2007 il numero dei morti ammazzati a Napoli ed in provincia è giusto il doppio di quello registrato negli stessi mesi dell’anno passato. Non passa giorno che in un quartiere della città o nei comuni dell’hinterland non si spari; non passano 24 ore che un nuovo nome non si aggiunge al triste bollettino statistico dei “deceduti per fatti di camorra”.
Cosa sta succedendo? Come mai nonostante le quotidiane azioni repressive da parte di polizia e carabinieri (una media di oltre 120 arresti al giorno nella provincia di Napoli, la più alta d’Italia, con le carceri, di nuovo, in sovraffollamento a pochi mesi dall’Indulto) non si interrompe la scia di sangue che bagna le strade della città?
Proviamo ad esporre un ragionamento che potrebbe – al di là dei soliti stereotipi con i quali l’informazione (deviata) interpreta le cronache partenopee – aiutarci a comprendere la fenomenologia con la quale impattiamo:
• da anni le varie formazioni camorristiche che si contendono il territorio ed il volume di affari che si addensa nell’area metropolitana napoletana non sono riconducibili a nessun centro di comando unico, a nessuna organizzazione verticalizzata ma agiscono e si combattano tra loro in una sorta di competizione generalizzata per conquistarsi quote di mercato nelle varie attività (le cosiddette piazze della droga) in cui sono impegnate;
• di volta in volta dentro il divenire di questo scontro si disfano e si ricompongono alleanze e patti che, alla verifica sul campo e nelle continue ridefinizioni dei margini di profitto, saltano e si ricompongono attorno a personaggi, gruppi e cordate che, fino ad un giorno prima, erano considerati nemici da sterminare;
Questo magma umano e sociale, questo enorme grumo di interessi è profondamente innervato nella composizione sociale dei quartieri della città, si riproduce e si generalizza continuamente. La movimentazione di tale galassia provoca una spirale il cui riverbero è inarrestabile nonostante i morti e gli ergastoli comminati a centinaia. Inoltre la vita di merda che conducono i vari guaglioni, con buona pace dei (pochi) frammenti di esistenza vissuti tra seduzioni consumistiche e ritmi iper/accelerati prima di cadere o sotto i colpi del nemico di turno o terminare la propria gioventù tra quattro mura di un carcere (spesso speciale e con il 41/bis), è una consuetudine ordinaria per migliaia di ragazzi.
Tale dato oggettivo – a tratti paradossale – è il tema che si consuma attualmente ed è l’elemento costitutivo del vero e proprio fenomeno di massa costituito dalla moderna camorra.
Una nuova specificità che i sociologi ed alcuni investigatori definiscono: O’ Sistema a testimonianza di una continua, e per taluni aspetti, virtuosa simbiosi che vige tra funzioni di comando politiche e reticoli di valorizzazione capitalistica in una miriade di comparti che spaziano dalle “classiche” attività criminali (la droga, la prostituzione, il pizzo..) a quelle “nuove” (la falsificazione ed il taroccaggio delle grandi griffe, della musica, delle schede telefoniche, la compenetrazione nel settore degli appalti e la presenza massiccia nelle varie speculazioni borsistiche anche a livello internazionale…).
Persistono, inoltre, a conferma di una modalità di relazioni sociali e culturali abbastanza specifica, codici comunicativi particolari che costituiscono un humus ed un contenitore (immateriale) dove o’ sistema trova linfa e continua legittimazione tra centinaia di migliaia di persone.
Si evidenzia – quindi – la vigenza di una forma criminale e di massa che attraversa profondamente Napoli, la regione Campania ed i territori del Meridione d’Italia. Un involucro, di massa e complesso, al cui interno è possibile tratteggiare una segmentazione sociale e gerarchizzata, la quale costituisce una parte importante della struttura economica e sociale delle forme del capitalismo per come si configurano e si articolano nella città partenopea e nella sua grande area metropolitana.
Questo assunto, fatto propria anche da molti analisti borghesi, esclude e getta alle ortiche lo stereotipo giornalistico e politicista il quale cataloga, ipocritamente, i fenomeni criminali come escrescenze a fronte di un corpo societario sano. Questa consapevolezza toglie ogni patina buonista alimentata dalle vestali della democrazia borghese e squaderna – finalmente – l’autentico verminaio dentro cui convivono, si scontrano e si alimentano, vicendevolmente, imprenditoria “legale” ed “illegale”, forme di governance trasversali ed ultra/sofisticate, intrecci e sodalizi economici transnazionali e moderne dinamiche di blindatura repressiva delle società.
Queste dinamiche si autoriproducono in una città dove i processi di ristrutturazione, dopo aver stravolto e cancellato le precedenti composizioni sociali, hanno trasformato – velocemente – il territorio in una sterminata area metropolitana dove si registrano picchi inauditi di ricchezza, emersione di vecchie e nuove povertà ed assenza di identità forti.
Un area metropolitana dove al dato strutturale della persistenza di una disoccupazione di massa e di una dilagante precarietà (in alcune zone della Regione la nuova forza/lavoro migrante, priva di qualsiasi diritto politico e sindacale, è terreno di azione della criminalità) si è sommata l’azione disgregatrice delle camorre e di una violenza che pervade l’intero arco della vita delle persone.
Certo Napoli non è uno spazio liscio, come ci viene descritta da una certa sociologia impressionistica e romanzata; a Napoli non sono assenti contraddizioni o complessificazioni sociali proprie di una metropoli imperialistica. Non possiamo negare – però – che, negli ultimi anni, è andato avanti un oggettivo processo di generale imbarbarimento e, per taluni aspetti, di schizofrenia delle relazioni sociali, delle forme della politica e delle modalità di rappresentazione della governance.
Un processo che, si badi bene, non è caduto dal cielo ma è la conseguenza dell’addensarsi di mali e ritardi atavici dello sviluppo capitalistico nelle nostre aree a cui si sono addensati gli effetti delle politiche economiche e sociali degli ultimi decenni.
Come leggere, altrimenti, volendo esemplificare un aspetto concreto ma anche simbolico di questa schizofrenia, la irrisolta (anche dal punto di vista degli interessi capitalistici) vicenda dei rifiuti che attanaglia l’intera Regione e non trova nessuna soluzione percorribile se non una confusa gestione dell’emergenza che di volta in volta si manifesta in questo o quel territorio?
Come interpretare quella sorta di (oscura) socializzazione, praticata su quasi due terzi del territorio campano, in cui crescono alienazione, solitudine e presenza delle istituzioni totali accompagnate da uno spaventoso consumo di psicofarmaci in ogni fascia di età e tra tutti i ceti sociali. Un buco nero che, per quanto attiene i settori subalterni della società, viene riempito da O’ Sistema, dalle sue regole, dai suoi codici comportamentali e dall’elargizione di vere e proprie quote di reddito di esistenza verso fasce di popolazione espropriate da qualsivoglia elemento di cittadinanza.
A fronte di questo scenario la quotidiana contabilità dei morti, dei feriti e delle mille violenza che si susseguono non sono altro che la metrica di un rapsodico avvilupparsi di una città ripiegata e sottomessa a questa terribile dimensione di vita e di riproduzione.
Eppure le lotte sociali, i momenti di esplosione di rabbia e di mobilitazione non mancano. Napoli non è una città normalizzata ed il conflitto – per quanto spurio e convulso – riemerge puntualmente segnalando i punti di crisi e di sofferenza. Quello che è assente è una trama di ragionamento unitario ed espansivo capace di rappresentare adeguatamente queste esigenze di difesa delle proprie condizioni di vita e le allusioni ad un possibile, quanto necessario, riscatto ed emancipazione collettiva.
Intanto, però, aumentano le sirene securitarie e i fremiti verso la militarizzazione della città e dei rapporti sociali. Si percepisce e cresce, a dismisura, una insana pulsione autoritaria anche nei ceti popolari della metropoli i quali sono sempre più disorientati e spaesati dentro il gorgo di questi avvenimenti. Non è un caso che a Napoli CGIL, CISL, UIL hanno fatto uno Sciopero Generale – si badi bene uno Sciopero e non una manifestazione – contro la criminalità mentre tacciano ed avallano le scelte e i provvedimenti antisociali del governo nazionale e delle amministrazioni locali. Tutto ciò a dimostrazione di come le derive repressive ed autoritarie non sono più temi e cavalli di battaglia delle destre ma – nel palesarsi della crisi – sono diventate argomento fatto proprio da qualsiasi schieramento politico.
Ritorna – come sempre – il rompicapo teorico e politico per quanti, a vario titolo, sono protagonisti di lotte e mobilitazioni a carattere sociale e non vogliono abdicare ad una funzione di trasformazione dell’esistente. Una sfida la quale, se vuole porsi all’altezza dei problemi sul tappeto, deve assumere e coniugare, nelle forme e nei modi che potranno evidenziarsi, la questione dell’alternativa quotidiana e di prospettiva alle camorre ed all’insieme dei sistemi criminali. Un passaggio obbligato che non può essere né quello dell’adesione alle ricette dei vari specialisti anticamorra i quali, a Napoli come altrove, sono collocati dentro il comando capitalistico del territorio e né, soprattutto, le campagne di tolleranza zero ispirate e gestite dalla governance bipartizan.
La ripresa del conflitto su tutto l’arco dei problemi attinenti il lavoro, il tempo, lo spazio urbano e la vita dei soggetti sociali, la vigenza di un opzione politica di autonomia e di indipendenza dalle compatibilità capitalistiche, la ricostruzione e la riqualificazione di una identità e di un senso comune antagonistico ai modelli dominanti ed alla parossistica quanto insana competizione tra gli individui possono essere idee/forza per sottrarci dall’insieme dei poteri (quelli statuali e quelli camorristici).
Si dirà – qualcuno già lo afferma – che queste sono idealità da libro dei sogni e che dobbiamo accontentarci di ridurre il danno dentro il contesto difficile in cui operiamo e viviamo. A questi maestri della realpolitik (guarda caso, volutamente e da sempre, esperti di tattiche e principianti di strategia) possiamo opporre un insieme di lotte, vertenze, esperienze di autorganizzazione le quali, senza nessun formalismo organizzativistico, devono trovare le modalità di una loro messa in rete per moltiplicare la loro potenza d’urto, la loro capacità espansiva per tentare di sottrarsi alla depotenziante azione di sussunzione normalizzante perpetrata, in maniera speculare ed asimmetrica, dalle istituzioni e da O’ Sistema.
Altre scelte ci condannerebbero, anche inconsapevolmente, al triste ruolo di ragionieri delle morti quotidiane accompagnate da epitaffi pseudo/sociologici.
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