L’editoriale di Guido Rossi, apparso oggi sul quotidiano di Confindustria, IlSole24Ore, è un esempio raro – di questi tempi – di pensiero laico con non retoriche fondamenta nella cultura democratica migliore.
Proviamo dunque ad evidenziare e discutere dei problemi che individua, dei rischi alle porte, delle alternative che non ci sono. Consapevoli che lo scenario di crisi qui disegnato va al di là delle capacità di governo di qualsiasi potere al mondo.
Ricorriamo alla “tecnica” che i nostri lettori già conoscono, inframezzando paragrafi dell’articolo di Rossi con le nostre considerazioni, in corsivo. L’invito è a mettersi seduti, possibilmente a stampare questa pagina, perché i temi in discussione richiedono una sedia, un tavolo, una penna e qualche buon libro di fianco. Non è lettura da fare a schermo. Ma siamo anche abituati a esser sorpresi dai nostri lettori.
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Il paradosso italiano, l’ossimoro europeo
Guido Rossi
All’interno di una recessione che non accenna minimamente a finire, la democrazia gode di cattiva salute, sia in Italia, dove sembra pericolosamente declinare, sia in Europa, dove appare un fiore completamente appassito ancor prima di sbocciare. Insomma, siamo di fronte a una sorta di paradosso italiano e di ossimoro europeo.
Red. Diciamo la verità: quanti editorialisti di giornali padronali osano aprire un articolo cone queste due ammissioni? La crisi continua e la democrazia è a serio rischio, per colpa dell’”autocrazia europea” (quella che noi chiamiamo “borghesia multinazionale continentale”). Dai Colli più alti ci dicono esattamente il contrario (la “luce in fondo al tunnel” e la “democrazia formato esportazione”). Ma quando uno come Guido Rossi – ex presidente della Consob e per due volte ai vertici della Telecom privatizzata – è costretto a indicare l’espressione “democrazia europea” come un ossimoro (una contraddizione in termini, dove la prima parola smentisce la seconda e viceversa) significa che siamo già oltre la deformazione tipica di ogni discorso politico-governativo; che siamo entrati nella “neolingua” orwelliana. Qualcuno dirà che lo aveva già fatto Berlusconi. Verissimo, ma allora questa di Monti e Napolitano è la malattia divenuta cancrena, non “la cura”.
In Italia, le improvvise dimissioni del governo tecnico e la vicinanza delle elezioni hanno portato alla ribalta realtà contraddittorie. La prima di esse è un decadimento dei poteri dello Stato, alimentato da una oggettiva e soggettiva conflittualità di dubbio livello. Il potere legislativo risulta frutto di una lunga quanto inconcludente passata stagione parlamentare, più interessata al bene personale o di gruppo che al bene comune. Il potere esecutivo, nominato in stato di eccezione, s’è rivelato per sua natura instabile e ora dimissionario, offeso ma non sfiduciato. E così, un potere giudiziario a volte arrogantemente sopra le righe si è sentito in dovere di intervenire in una incompetente supplenza e, suo malgrado, come custode non legittimato dei costumi.
Red. La classica tripartizione dei poteri in regime democratico è minata in radice. Il Parlamento dei “nominati” grazie al “Porcellum” – lo sarà anche il prossimo, ricordatevene! – è popolato di personaggi che vivono ancora in un’epoca sepolta (il berlusconismo diffuso) e sognano impossibili rivincite, non rendendosi ancora conto, dopo 13 mesi, della forza con cui è stata condotta l’invasione di questo paese. Il governo di “eccezione” ci è stato assegnato da quella forza, ma è giunto al termine di scadenza per puro obbligo costituzionale (5 anni di legislatura) senza aver ancora “terminato il lavoro” (cambiare compiutamente il”modello sociale” del paese per costringerlo a forza nella nuova divisione internazionale del lavoro). Chi governa dall’esterno questo simulacro di democrazia rappresentativa è quindi alla ricerca affannosa dei modi e delle formule con cui rimetterlo sul piedistallo; le esitazioni e le “riflessioni” di Monti sono il segno più evidente di questo lavorio tutto sotterraneo. Il giudiziario, infine, storicamente chiamato per primo a supplire le deficienze o le illegalità degli altri due ha finito per produrre un’anomalia sistematica altrettanto distorsiva dell’assetto costituzionale.
Il paradosso ha come contrappeso l’indiscutibile risveglio, quasi improvviso, ma deciso, del popolo italiano per rivendicare la sua “fondamentale libertà politica”, come hanno tra l’altro evidenziato, con i loro pregi e difetti, la sorprendente partecipazione alle elezioni primarie, nonché le molte manifestazioni di protesta e disobbedienza civile dirette a rivendicare e difendere i fondamentali diritti costituzionali, primi fra tutti quelli al lavoro, all’istruzione, alla salute.
Red. La radicalità democratica di Rossi lo porta a vedere – in qualche misura giustamente – nelle proteste operaie o di piazze e nella partecipazione non scontata alle primarie del Pd una “reazione” sociale, civile, politica. Un “conato di sovranità” e partecipazione che i poteri al timone temono come la peste. Ma come, dirà qualcuno, persino le primarie? Solo chi confonde sistematicamente il dito e la luna può non capire che la voglia di partecipazione è una cosa e un’altra il “canale” in cui viene indirizzata o deviata. Le proteste sono per noi il canale giusto, le primarie solo un diversivo. Ma la “voglia di prendere parola” ha origine in entrambi i casi nell’identico fatto: la sensazione o consapevolezza di esserne stati espropriati.
La fragilità delle nostre istituzioni, al di là dei nefasti effetti della depressione economica, ha altresì provocato fenomeni che si sono aggravati nel tempo.
Il primo è quello rappresentato dal trasferimento della sovranità all’esterno dello Stato, fenomeno che Max Weber chiamava “eterocefalìa”. Ciò è avvenuto, ad esempio, con la lettera-programma della Bce inviata da Francoforte il 5 agosto del 2011 al primo ministro Berlusconi, e che poi ha costituito nei minimi dettagli il preciso programma del governo Monti, giustificato dallo slogan «è l’Europa che ce lo chiede». È così che il nostro Parlamento, riottoso a introdurre norme sulla corruzione, sulla incompatibilità dei candidati e su minime regole di decenza parlamentare, ha prontamente, senza alcuna discussione sul merito, col nuovo governo in carica, eseguito la richiesta della Bce («sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio»), introducendo il 20 aprile 2012 il nuovo articolo 81 della Carta Costituzionale sulla parità di bilancio. E però non è neppure riuscito a dotare il nostro fragile sistema democratico di una necessaria riforma elettorale.
Red. Difficile aggiungere qualcosa a una fotografia tanto precisa e dettagliata. La “testa” che programma la successione è altrove (“eterocefalia” o eterodirezione). Il destino del paese, rimanendo dentro “il rispetto degli impegni europei” è segnato. La Costituzione è bruciata nel falò elettorale con enfatica negligenza da una “classe politica” attenta al particulare e del tutto indifferente alla torsione imposta dalla Troika.
Mentre una scomposta campagna elettorale ferve, aiutata dai mass media, soprattutto alla ricerca di un nuovo Capo, fortunatamente in televisione Roberto Benigni ha illustrato i principi fondamentali della nostra Costituzione, con una preparazione e capacità espressiva che ha creato apprezzamento, condivisione, e ammirazione in milioni di italiani.
Red. L’analisi regge (“tutti alla ricerca di un capo”), la speranza fa velo alla ragione anche di un osservatore fin qui impietoso (vedere in Benigni o magari nella Littizzetto un punto di “salvezza” è decisamente eccessivo).
«L’educazione alla democrazia diviene una delle principali esigenze della democrazia stessa», come ha suggerito Hans Kelsen, ma mentre Benigni educava, in molti sponsorizzavano nuovi Capi o si autoeleggevano come tali, dimenticando l’ulteriore postulato della teoria kelseniana: «L’idea di democrazia implica assenza di capi». È così che l’irrompente populismo, accompagnato da una democrazia traballante, va minacciando la nostra vita politica, che ha da tempo abbandonato il carattere della razionalità democratica per quello di un paternalismo dispotico.
Red. Il problema è che l’”educazione alla democrazia” è compito di uno Stato e delle sue istituzioni, delle forze politiche che interpretano le soggettività in conflitto, dei “corpi intermedi” che tendono in comunicazione conflittuale classi sociali e istituzioni. Si “educa” alla democrazia ogni giorno e in ogni luogo, a partire da quei posti di lavoro che invece – per l’effetto combinato di “modello Marchionne”, riforma del mercato del lavoro, abolizione dell’art. 18, complicità sindacali diffuse – l’hanno vista espulsa.Un attore può sollecitare la nostalgia per una Costituzione ormai violata fino all’irrecuperabilità, non “educare” un popolo. Via teleschermo e una tantum.
Il populismo deriva dalla e mira certamente alla distruzione dei corpi intermedi (Grillo che strepita genericamente contro i sindacati e non accetta stranieri nel suo movimento è quasi un emblema del carattere naturalmente “destroide” della mentalità “salvifica” che finisce per incarnarsi in un Capo). Non è iniziato adesso. Tutti gli aspiranti Capi insistono sul fatto che “la politica deve fare un passo indietro”, che bisogna togliere ogni argine all’irruzione in campo della “società civile”. A destra come in quel che ancora cerca di apparire “di sinistra”.
La situazione è dunque chiaramente esposta: tanti aspiranti Capi carismatici che rifiutano un controllo dal basso anche dentro le proprie organizzazioni (Berlusconi ora comincia ad apparire un apripista dilettante) di contro a una “educazione alla democrazia” affidata a un comico, peraltro parecchio corrivo con una parte del potere. Non c’è partita, ci sarebbe da aggiungere. Se non fosse per quel tanto di “riscossa popolare” che si è vista nelle piazze.
Non è allora un caso che a ciò si accompagni un’opposizione decisa all’elemento essenziale dello stato di diritto, cioè a quella “laicità” che fin dal Rinascimento l’Italia, con i suoi pensatori, aveva posto alla base della dignità dell’uomo e della libertà dei moderni, principi ripresi poi e potenziati in Europa dall’Illuminismo. Un attacco alla laicità dello Stato è di recente venuto anche dall’omelia del cardinale Scola nell’anniversario dell’editto di Costantino del 313, che ha introdotto con malcelato rancore un riferimento alla riforma sanitaria del presidente Obama, pur dimenticando che quella critica del gruppo dei vescovi cattolici americani era stata accompagnata da una smaccata preferenza per il candidato Romney (Washington Post del 13 novembre 2012). D’altra parte i principi di una religione non possono essere imposti dallo Stato sulle scelte fondamentali dei propri cittadini nei problemi della vita, della salute, del matrimonio, della morte e della scienza. Negare la laicità significa dunque avere come norma, valori non liberamente da tutti condivisi, ma legati a una cultura religiosa particolare. Il principio era già stato rivendicato chiaramente in una lettera del 2004 dall’allora cardinale Ratzinger, oggi Benedetto XVI, al giurista tedesco Böckenförde (The New York Review of Books 5 dicembre 2012). Ma la sfida e la ripresa della democrazia alla quale deve ispirarsi il futuro governo è invece quella di difendere valori che pongono a loro riferimento la ragione e i diritti dell’uomo e che devono tutelare le varie culture, anche religiose, nella difesa della dignità di tutti i cittadini, garantiti dalla laicità dello Stato e dalla “religion civile” teorizzata da Rousseau.
Red. Nulla da aggiungere, davvero. La Chiesa reazionaria di Ratzinger appare diversa dagli integralismi più temuti solo perché contenuta, confinata e protetta da uno Stato laico. Non può insomma metter mano alle “milizie”, altrimenti avremmo anche qui dei parabolani in stile Agorà…
Il potere politico in Europa, dal quale la vita dei cittadini dei vari Stati membri fortemente dipende, si è andato sviluppando, contro il valore dei padri fondatori, su basi autocratiche, certamente laiche, ma in verità prive di democrazia. L’essenza autentica di questa è il potere del popolo, ma un popolo europeo non esiste, dacché l’Europa non è divenuta uno Stato federale democratico.
La conseguenza ben nota è che la sovranità appartiene ancora ai popoli degli Stati membri e l’integrazione monetaria e, quando avverrà, quella bancaria, sono comunque dettate da organismi burocratici, fuori di ogni base elettiva.
Red. Fin qui ben pochi, noi fra questi, avevano sollevato il problema con altrettanta nettezza e senza nulla concedere ai nazionalisti reazionari (ce ne sono involontariamente anche “a sinistra”, per difetto di profondità analitica). La natura dell’”amministrazione europea” – lo Stato è al di là da venire – è chiaramente autocratica. Ogni decisione al suo interno può essere giusta o sbagliata “tecnicamente” rispetto al funzionamento del sistema, ma completamente priva di legittimità. Invenzioni e forzature, insomma, per “formare” un nuovo modello sociale. A fronte sta però il fatto che “la sovranità” effettiva resta in capo ai popoli, presi singolarmente. Una “fusione” non si è ancora realizzata, né è prevedibile che si realizzi nell’arco di una o due generazioni. Rossi non lo esplicita, ma il richio dell’esplosione della costruzione europea è tutt’altro che da escludere. E allo stato attuale delle “coscienze” continentali il rapido precipitare verso un “nazionalismo concorrenziale” resta l’ipotesi più probabile. E terribile.
Il futuro governo italiano dovrà dunque, nel suo programma, aver prioritaria una decisa azione in collaborazione con gli altri Stati dell’Unione, per attuare l’unità politica europea e trasformarsi così da Stato membro suddito di una tecno-burocrazia in Stato federato nell’Europa democratica.
Red. Qui, di nuovo, il “principio speranza” che anima Rossi fa velo alla ludicità analitica. Il salto da Stato-suddito a membro di una comunità democratica non è nelle disponibilità di nessun governo che si muova nel “rispetto degli impegni europei”. Solo una rottura dello schema può consentire di rideterminare le carattestiche strutturali e vincolanti le”Unione attuale. Ma una rottura vera – entro le regole date – provocherebbe una crisi altrettanto violenta. La contraddizione non potrebbe essere più chiara: andare avanti così non si può, ma non si può neppure cambiare strada mantenendo i trattati sottoscritti.
Si tratterebbe di “chiedere”, per esempio alla Germania, di rinunciare ai vantaggi fin qui garantitele fìda questo euro e dai vincoli di Maastricht. Fin troppo facile prevedere la risposta.
La stessa politica depressiva dell’austerity dovrà con trasparenza e nella tutela dei diritti portare ad altre e diverse prospettive economiche. Se infatti è vero quel che sosteneva Democrito, dichiarando che «povertà in democrazia è preferibile alla pretesa prosperità in monarchia come la libertà è preferibile alla schiavitù», è bene subito aggiungere che la povertà in schiavitù è il peggio che possa capitare. Quindi se le normative di delibere e linee guida, come quella appena approvata per la riforma del diritto europeo delle società e delle imprese, provengono da meccanismi di regolazione totalmente burocratici, come la stessa Commissione europea, e hanno la precedenza sugli ordinamenti giuridici degli Stati membri, ai loro cittadini appariranno sempre qualcosa di imposto, lontano ed estraneo.
Red. La “povertà in schiavitù” è esattamente l’esito cui mirano le “riforme strutturali” imposte dalla Troika. Noi abbiamo sintetizzato questo programma con l’espressione “dovete morire” (tra tagli ai salari, alle pensioni, alla sanità pubblica, all’istruzione, alla ricerca, ai diritti del lavoro, ecc), ma il significato è lo stesso. La si può guardare dal lato sociale, come facciamo noi, o da quello societario (come fa Rossi in sede di conclusioni per un giornale che è comunque di Confindustria, la quale non è in fondo un baluardo della democrazia, tantomeno sui posti di lavoro), ma concordiamo sul giudizio finale: con i meccanismi attuali, tutte le decisioni della Troika “ai loro cittadini appariranno sempre qualcosa di imposto, lontano ed estraneo”. Perché lo sono davvero. E quindi non si dànno soluzioni in positivo che non siano in rottura totale con l’impianto che le produce.
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