Su tale punto la generalità dei compagni viene colta parzialmente impreparata perché tale tema è da tempo uscito dall’ordine del giorno delle varie soggettività di movimento e di classe; infatti, negli ultimi anni, esso ha ceduto il passo ad altre elaborazioni politiche che, concependo forme di “proprietà” tipo il cosiddetto comune o generiche forme di partecipativismo nella gestione dei cosiddetti beni comuni, hanno portato, in buona o in cattiva fede, ad eludere determinati temi, come il potere politico, i quali sono centrali per qualificare il carattere di classe della proprietà stessa.
Innanzitutto, sul piano teorico, bisogna riaffermare che non tutte le forme di intervento pubblico in economia, ivi comprese le nazionalizzazioni e la pianificazione economica, sono automaticamente di carattere socialista; lo stesso si deve dire riguardo le forme di partecipazione operaia e popolare (reale o formale, parziale o totale) alla direzione di aziende, banche, beni comuni o altri enti. Tali assunti sono chiaramente dimostrati se si osserva la storia passata e contemporanea del capitalismo e del socialismo.
Sul carattere della pianificazione economica, vale la pena riportare una citazione che perfettamente esplica la caratteristica qualitativa che essa deve avere per essere considerata socialista, sgomberando il campo dalla suggestione che basti la generica proprietà statale o comune sui mezzi di produzione: “Esiste una legge economica fondamentale del socialismo? Sì, esiste. In che cosa consistono i tratti essenziali e le esigenze di questa legge? I tratti essenziali e le esigenze della legge economica fondamentale del socialismo potrebbero formularsi all’incirca in questo modo: assicurazione del massimo soddisfacimento delle sempre crescenti esigenze materiali e culturali di tutta la società, mediante l’aumento ininterrotto e il perfezionamento della produzione socialista sulla base di una tecnica superiore. [….] Si dice che la legge economica fondamentale del socialismo è la legge dello sviluppo pianificato, proporzionale dell’economia nazionale. Questo non è vero. Lo sviluppo pianificato dell’economia nazionale, e quindi anche la pianificazione dell’economia nazionale, che rispecchiano più o meno fedelmente questa legge, di per sé non possono esprimere nulla, se non si conosce verso quale meta procede lo sviluppo pianificato dell’economia nazionale, oppure se la meta non è chiara. La legge dello sviluppo pianificato dell’economia nazionale può avere la dovuta efficacia solo nel caso che esista una meta verso la cui attuazione procede lo sviluppo pianificato della economia nazionale. Di per sé, la legge dello sviluppo pianificato dell’economia nazionale non può indicare questa meta. [….]Per quanto riguarda la pianificazione dell’economia nazionale, essa può ottenere risultati positivi solo se si osservano due condizioni: a) deve rispecchiare esattamente le esigenze della legge dello sviluppo pianificato della economia nazionale; b) deve uniformarsi interamente alle esigenze della legge economica fondamentale del socialismo” (Stalin, “Problemi economici e sociali del socialismo in URSS”).
D’altronde di esempi di nazionalizzazioni votate non al “massimo soddisfacimento delle sempre crescenti esigenze materiali e culturali di tutta la società” ve ne sono tantissime nella storia del capitalismo: dal keynesismo, che rappresenta il sostentamento della domanda e della produzione tramite le commesse pubbliche, alla pianificazione nazista e fascista, fino alle recenti statalizzazioni di banche da parte di alcuni governi occidentali. Tutte queste forme di intervento dello stato in economia sono sempre stati volti a sostenere i grandi monopoli finanziari in crisi di valorizzazione dei capitali investiti con il classico metodo della socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti. Allo stesso modo, talvolta i capitalisti stessi hanno cercato di coinvolgere i lavoratori nell’azionariato delle aziende o, più spesso, di fondi collocati sui mercati finanziari in maniera da legarli alla logica del profitto e da far loro perdere ogni coscienza di classe; naturalmente, il potere reale nella direzione dell’azienda o del fondo trasmesso ai lavoratori è ininfluente o gestito da sindacati complici, mentre il rischio d’azienda o della speculazione grava fortemente sulle loro spalle (ad esempio, spesso essi legano l’ammontare della loro pensione all’andamento borsistico del fondo). Ma perché accade questo, cioè che la proprietà statale e quella dei lavoratori nei frangenti storici descritti sono sempre state usate contro i lavoratori stessi? Non certo perché esse sono state gestite male o non sono state messe abbastanza “in comune”, bensì perché il potere politico centrale è sempre stato detenuto da emanazioni dirette dei monopoli finanziari, i quali orientavano a loro favore la gestione economica, anche ove essa fosse pianificata dallo stato.
La centralità del potere politico e del ruolo delle varie soggettività di classe in gioco nella società è particolarmente evidente nel caso in cui si crei una dualità di potere all’interno dei luoghi della produzione fra borghesia e lavoratori, in coincidenza con picchi della lotta di classe; si parla, ad esempio, dei casi dei soviet russi fra il 1905 e il 1917, dei consigli di fabbrica a Torino nel primo dopoguerra, delle successive esperienze consiliari del post-’68 sempre in Italia (che hanno avuto luogo mentre lo stato aveva accentrato nelle proprie mani anche buona parte del sistema bancario e anche dei settori produttivi strategici), fino a risalire alle moderne forme di partecipazione operaia e popolare e autogestione in America latina. In tutte queste occasioni, il capitalismo ha risposto in maniera molto varia (dalla repressione più brutale, fino all’assecondamento tattico, come quando Agnelli propose ai lavoratori della FIAT di cogestire l’azienda in una cooperativa, sempre ai tempi dell’Ordine Nuovo) e l’esito dello scontro di potere è sempre stato determinato dall’agire concreto della soggettività politica dei lavoratori: nel caso in cui essa è riuscita a convogliare il protagonismo del lavoratori in un progetto di rivolgimento dei rapporti sociali l’esito è stato rivoluzionario (non è intenzione di questo articolo discorrere del funzionamento deficitario del potere sovietico dopo la rivoluzione, in regime socialista) o foriero di avanzamenti materiali, nel caso in cui essa è stata inadeguata o connivente col nemico si è verificata una catastrofe e un arretramento di lungo periodo.
L’unica evidenza empirica valida in ciascuna di queste fasi storiche è che, in regime di potere centrale detenuto dalla borghesia, mai la dualità di potere lavoratori-padroni nelle unità produttive trova una sintesi equilibrata per lungo periodo e, men che meno, è possibile costruire oasi di potere operaio permanente in regime capitalista; ciò è valido anche per quel che riguarda il metodo cooperativo e l’autogestione, in cui c’è perfetta corrispondenza fra lavoratori e proprietari dell’azienda (anche qui, non si intende trattare del ruolo della produzione cooperativa in regime socialista). Alla fine, lo scontro si risolve sempre in una rottura politica che stabilisce la vittoria completa di una soggettività sull’altra o, comunque, la cristallizzazione di un equilibrio ampiamente favorevole ad uno dei due attori sulla scena; ciò avviene, come detto, sia per repressione diretta dei lavoratori, sia per cooptazione delle loro rappresentanze, sia per semplice stanchezza e necessità di sottostare alle leggi del mercato. Pertanto, le sincere suggestioni “bene comuniste”, nel caso in cui tendano, nella loro fraseologia, a bypassare questo scontro, che è scontro di classe, e si percepiscano come fuori da esso, nella logica dell’”oasi felice” appena esposta, si ingannano, poiché esse ne sono pienamente immerse e ne subiscono i meccanismi; spesso, l’inconsapevolezza con cui subiscono tali meccanismi e le risposte elaborate, che non ne colgono la centralità, le portano alla sconfitta senza nemmeno rendersi conto dei motivi.
E’ in questo quadro pratico-teorico che devono essere collocate oggi le vertenze dell’ILVA, delle molteplici fabbriche in crisi, ma anche della struttura ospedaliera del San Raffaele e del monte dei Paschi di Siena. Sicuramente la nazionalizzazione è la rivendicazione primaria da avanzare e torna prepotentemente all’ordine del giorno; tuttavia occorre anche porsi, da parte della soggettività di classe (che questo articolo non si occupa di definire nelle sue articolazioni e caratteristiche in questa fase), diverse domande: a quale obiettivo può essere volta la nazionalizzazione nell’attuale situazione politica italiana? cosa si può ottenere da essa? che ruolo devono svolgere i lavoratori? cosa faremmo noi se avessimo noi il potere (questo specie per quanto concerne la propaganda diretta alla generalità dei lavoratori e a tutta l’opinione pubblica)?
Naturalmente, non è possibile dare risposte univoche per ciascun caso, né questo articolo ha la pretesa di essere minimamente esaustivo in tal senso: un polo siderurgico è differente da una banca e da una struttura ospedaliera.
D’altra parte, quel che è certo, è che sono da respingere le istanze di nazionalizzazione che si affacciano negli ambienti liberisti, da quelli maggioritari a quelli più folkroristici, tipo Oscar Giannino, e che riguardano il Monte dei Paschi di Siena e l’ILVA: il primo, sul modello di quanto ampiamente fatto nel 2008 negli USA, verrebbe nazionalizzato per un periodo di tempo di limitato, necessario a liberarlo dai titoli tossici tramite la pressione fiscale sui contribuenti, per poi svenderlo di nuovo ai privati; stesso discorso per la seconda, per la quale la nazionalizzazione (ipotesi, in verità, più tiepida) dovrebbe servire a scaricare su lavoratori e contribuenti i costi immensi della bonifica. Per quel che riguarda il San Raffaele, nella mentalità dei liberisti nostrani, naturalmente, essendo una struttura ospedaliera, può essere lasciata marcire.
Per contrastare derive del genere, è importantissimo rivendicare e lavorare affinché si stabilisca un ruolo almeno di controllo da parte dei lavoratori su ogni aspetto della contabilità e della produzione (per quel che riguarda le industrie); naturalmente, le forme concrete in ciò possa avvenire e se essi sapranno anche assurgere al ruolo di contendenti del potere dei padroni nei luoghi di lavoro sarà la pratica a stabilirlo, assieme alla positiva interazione con la soggettività d’avanguardia della classe, il cui compito, come si sa, è quello di proporre sbocchi politici. Nulla di tutto ciò, però, sia chiaro, è semplice, e tutto va sempre verificato nel livello di coscienza dei lavoratori; non c’è avanguardia in grado di pre-ordinarlo in forma chiusa a tavolino, come spesso si vede fare alle espressioni più “dogmatiche”, estremiste e settarie del marxismo.
Per quel che riguarda la proposta politica strategica, questo è il terreno in assoluto più inesplorato e in cui il dibattito è più arretrato, anche perché riguarda il terreno più complicato di tutti, ossia la transizione al socialismo. Chi scrive, sostiene la proposta dell’ “ALBA euromediterranea”, ampiamente argomentata ed elaborata da Contropiano, dal Cestes e dalla Rete dei Comunisti. A tali elaborazioni si rimanda.
* Rete dei Comunisti, Napoli
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