Anzi queste stanche ed abusate contumelie contribuiranno a rendere sempre più asfittico e sideralmente distante dalla società reale il cosiddetto dibattito che pure, in tanti, stanno auspicando dopo l’autentica mazzata rappresentata dai risultati elettorali.
Sembra rivivere, in scala ridotta, da un lato i lamenti e le convulsioni del dopo Sinistra Arcobaleno e dall’altro un sentimento di snobbistica rassegnazione e di distanza verso un popolo ed un paese ritenuti abbindolati dalle mirabolanti capacità extrasensoriali del Cavaliere di Arcore.
Quasi nessuno si sta onestamente interrogando su quel composito e, sicuramente, diversificato 60% del corpo elettorale che in varie forme ha detto no ai ricatti dell’Unione Europea e alle conseguenti ricette antisociali di lacrime e sangue che né derivano.
Eppure è da questo dato che occorrerebbe ripartire per provare, anche tendenzialmente, a dare corpo, voce e rappresentanza agli interessi dei settori popolari della società.
Infatti, al momento, l’unico dato certo è esemplificato dal fatto che questi segmenti sociali – al di là dei risultati elettorali – saranno le vittime sacrificali di un corso della crisi capitalistica che proseguirà ad avvilupparsi in una dinamica di recessione e di continua svalorizzazione della forza lavoro non solo in Italia ma nell’intero spazio europeo.
Naturalmente nessuno si illude che il mugugno espressosi nelle urne possa, automaticamente, trasformarsi in coscienza, lotta ed organizzazione conseguente alla bisogna dei compiti che la fase politica richiede.
Troppe sono le lacerazioni e gli sconvolgimenti intervenuti nella società ed enormi sono i fattori di vera e propria competizione/concorrenza che i poteri forti del capitale hanno istillato, in decenni di ristrutturazioni, tra i lavoratori e l’insieme del vecchio e nuovo proletariato ovunque dislocato.
Non sarà, quindi, facile o scontato un auspicabile processo di ricomposizione e riconnessione delle lotte e delle istanze di protagonismo che, pure, non sono mancate nei mesi scorsi lungo, in Italia come altrove, tutto l’arco delle contraddizioni sociali.
In tale contesto la proposta, avanzata dalla Rete dei Comunisti, di Rompere l’Unione Europea assume una valenza teorica, politica e culturale su cui vale la pena aprire una discussione franca ed approfondita tra i settori politici, sociali e sindacali che – particolarmente a Sud del continente o a ridosso di esso – agiscono nei posti di lavoro, nelle aree metropolitane e nell’insieme della società.
Mai come ora mentre la nuova divisione internazionale del lavoro, prodotto della accresciuta competizione globale interimperialistica, scandisce i gradi di una più feroce gerarchizzazione sociale in tutta Europa è tempo che le classi in difficoltà, a partire da quelle dei paesi PIIGS e della sponda Sud del Mediterraneo, ritrovino e sperimentino le forme più appropriate per far avanzare un movimento politico di rottura dalle gabbie dell’Unione Europea in direzione di un superamento del capitalismo.
Attorno a questa parola d’ordine – a tale idea/forza – è ipotizzabile l’agglutinamento di un nuovo e più articolato blocco sociale dentro cui i comunisti possono ritrovare una loro ragione sociale ed una più efficace funzione avanzata ed espansiva finalmente fuori dalle abusate alchimie politiciste ed istituzionaliste.
Una processualità agente, in parte già in atto in vari paesi, in cui l’azione di tipo sindacale, sociale, metropolitana e meticcia troverà una rinnovata riqualificazione oltre l’economicismo, il vertenzialismo, il localismo e tutte le oggettive derive con cui, anche inconsapevolmente, i conflitti sono costretti a fare i conti sotto i colpi dell’avversario di classe.
Una proposta che può dare senso comune e credibilità ad un internazionalismo vero ed adeguato allo sviluppo capitalistico e delle forze produttive del XXI° Secolo.
* Rete dei Comunisti
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