G.Pala, Classe, salario, Stato.
Ti svegli la mattina presto per studiarti i mercati asiatici, gli unici ormai di qualche interesse. Lo fai andando a dormire presto, con i bimbi, perché tanto Wall Street non ti interessa, è tutta carta straccia, e poi tua moglie pensa che un film di Tim Burton valga di più dei tuoi studi, forse a ragione. Capita così che la mattina presto assisti agli sconvolgimenti industriali e monetari provenienti da quell’area, mentre l’Occidente continua imperterrito a guardare a New York, con i suoi 50 mila senzatetto. E poi ti vedi le prime pagine dei giornali economici e capisci già l’andazzo della giornata. Succede così che un giorno qualunque in prima pagina sul Sole 24 Ore il corrispondente da Pechino Francesco Sisci, uno che vive in quel paese da 30 anni, ha studiato in quelle università e ha contatti diretti con la dirigenza, ti informa di un piano decennale 2013-2023 di 5 mila miliardi di euro finalizzato all’urbanizzazione di 400 milioni di persone in città medio piccole, dell’ordine di 1-2 milioni di abitanti. Ti vengono in mente tante cose.
Soprattutto quando vieni informato che il piano ha come fulcro la riforma dell’hukou, quel sistema in vigore dal 1958 che non permette al proletariato migrante nelle grandi città di usufruire dei diritti di cittadinanza.
Ebbene, quel sistema verrà smantellato, e a centinaia di milioni di persone daranno diritti sociali quali l’istruzione, l’alloggio popolare e la sanità gratuita, una grande discriminazione viene meno.
Salario sociale globale di classe, prestazioni universali per decine e decine di milioni di persone, le stesse che in Occidente invece stanno via via smantellando. Tocca leggere il giornale padronale per saperlo, i siti di sinistra non ne parlano affatto, parlano dei grillini…
Qualcosa era nell’aria, da anni: alla fine della prima decade del ventunesimo secolo la dirigenza cinese svoltava con la contro-controriforma sanitaria, che stabiliva il ritorno alla sanità pubblica, gratuita e universale, un percorso decennale che veniva inaugurato con la decisione di costruire 1200 ospedali regionali. Poi dal 2005 iniziava un percorso di reflazione salariale, con aumenti del salario nominale del 15% annuo. Nel 2010 il colpo di grazia: il Consiglio di Stato decide la costruzione di 6 milioni di alloggi popolari, chiaro segno che lasciava presagire la riforma dell’hukou.
Ora si va oltre, molto al di là dell’immaginario: il piano da 40 trilioni di yuan, per l’appunto 5 mila miliardi di euro, prevede l’urbanizzazione di 400 milioni di persone e contemporaneamente un forte aumento della produttività agricola. Tutto tiene, città e campagna, l’obiettivo è basare la crescita futura reflazionando la domanda interna: dalla debolezza esterna, per l’appunto dell’Occidente, alla forza interna.
Chi finanzierà tutto ciò? Ebbene, l’ampliamento delle prestazioni universali gratuite, dalla casa alla sanità, unite alla reflazione del salario nominale, aumenterà la massa salariale che verrà canalizzata in parte nel risparmio e in parte nel consumo. Se pensiamo che il 65% dei lavoratori italiani ha redditi insufficienti per sopravvivere ci possiamo rendere conto di quel che accadrà. La massa di risparmio del proletariato cinese, anche attraverso una riforma pensionistica che assumerà anch’essa il carattere di prestazione universale, verrà canalizzato su un fortissimo ampliamento di obbligazioni di Stato finalizzati al piano. Ma già oggi la massa di risparmio di quel popolo ha dimensioni gigantesche, pari a 10 mila miliardi di dollari.
Un’altra fonte di entrata per il piano sarà il collocamento azionario di quote minoritarie di centinaia di imprese pubbliche in modo che si sviluppi un florido mercato finanziario parzialmente aperto all’esterno.
Del resto gli occidentali vivono di “fiat money”, di liquidità delle banche centrali che non sanno dove collocare: la Cina gli offre gentilmente questa possibilità, l’importante, in ogni caso, è reflazionare il mercato interno; se poi lo si fa anche con capitali esteri ben venga, c’è in ogni caso lo scudo nazionale delle riserve valutarie, dell’ordine di 3300 miliardi di euro, a proteggere gli interessi di quel Paese. Va da sé che ciò presuppone un’ulteriore tappa verso l’internazionalizzazione della moneta cinese e, quindi, una minore incidenza dell’uso del dollaro e dell’euro nelle transazioni commerciali che passa anche attraverso una forte diminuzione dei surplus delle partite correnti e della bilancia commerciale. Il piano, infatti, ha come fulcro una massiccia operazione di aumento delle importazioni, inizialmente di materie prime e successivamente di beni tecnologici legati all’edilizia e all’ambiente, una politica commerciale capace di trascinare l’intera economia mondiale mediante la rivoluzione del mercato e del commercio mondiale. A beneficiarne saranno inizialmente paesi produttori di materie prime come Australia, America Latina e Africa e successivamente i paesi produttori di beni tecnologici e di beni di consumo, in cui potrebbe incunearsi il nostro stesso Paese, se non fosse che qui si va dietro al feroce anticinese Casaleggio…
Si conferma in tal modo il dato storico del panorama economico post-crisi: in Occidente la “fiat money” produce capitale fittizio e deflazione salariale, uniti all’abbattimento del salario sociale globale di classe e alla miseria del proletariato e della “classe media” che provocano un corto circuito economico di natura depressiva; in Oriente l’universalizzazione delle prestazioni sociali è alla base di un nuovo modello di sviluppo delle forze produttive e di accumulazione che trascina con sé l’intero mercato mondiale.
C’è da aggiungere in ogni caso che l’accumulazione dell’ultimo trentennio in Cina, caratterizzata da un vero e proprio “comunismo di guerra”, e il successivo salto verso la reflazione del mercato interno sono stati possibili solo attraverso un forte aumento medio annuale dei tassi di produttività totale dei fattori produttivi mediante una fortissima qualificazione della forza lavoro dove ha giocato un ruolo fondamentale la possente spesa in istruzione e ricerca. La ricchezza sociale che ne è conseguita, resa possibile anche dal fatto che il 72% del valore aggiunto industriale è generato dai colossi pubblici, con una tassazione statale alla fonte che diminuisce fenomeni di elusione ed evasione fiscale e che ha permesso di avere bilanci statali in salute nonostante massicce spese in investimenti, offre la chance di quello che l’editorialista del Financial Times Martin Wolf consigliava al popolo cinese, cioè di “rilassarsi un po’ e divertirsi dopo tanto lavoro”….Questa ricchezza sociale porta con sé fenomeni redistributivi attraverso l’ampliamento delle prestazioni universali che ha come effetto la generazione di un forte risparmio da parte del proletariato industriale cinese e un portentoso processo di aumento della domanda interna, non solo investimenti ma anche consumi domestici. Forse non è socialismo, come tanti a sinistra pontificano, ma non c’è ombra di dubbio che, contrariamente agli occidentali, quella gente sa perfettamente come si utilizzano le leve per lo sviluppo delle forze produttive e per i processi di accumulazione che si diramano per tutto il mercato mondiale mediante una forte diminuzione dei surplus delle partite correnti, che nel giro di 7 anni sono passati dal 10 al 2% del pil cinese, nel mentre la tanto decantata Germania l’aumentava dal 5,7 al 6,5%, imponendo ai paesi europei una feroce deflazione salariale e l’austerità, a modo di dire dei deficienti sicofanti “economisti” austro monetaristi e chicagoan, “espansiva”…
Curioso poi il fatto che tali massicce politiche fiscali espansive da parte della dirigenza cinese vengano accompagnate da una feroce lotta all’asset inflation, non ultimo l’aumento dal 2 al 20% delle tasse sui profitti di compravendita di immobili, attraverso un’epocale sterilizzazione monetaria da parte della People’s Bank of China, nel mentre l’Occidente si dà allegramente alla “fiat money”, alla moneta fiduciaria: la prima accumula mega impianti industriali, scuole, ospedali, alloggi popolari e una sorte di nuova Inps, la seconda accumula invece autentica “carta straccia”.
Ancora, ma se non saranno il dollaro e l’euro la base dell’internazionalizzazione dello yuan, su quale asse sarà basato questo processo? Ebbene, la risposta si può trovarla nella decisione presa dalla banca centrale cinese, che nell’autunno del 2012 comunicava l’acquisto nei prossimi anni di 10 mila tonnellate d’oro, aumentando la quota del metallo giallo rispetto al totale delle riserve valutarie, ora ferma ad un misero 2%. La storia si ripete: come nella strategia di Baffi del periodo ‘60’-’70, l’accumulo d’oro si accompagna all’universalizzazione delle prestazioni sociali; immaginate un’Italia degli anni settanta all’ennesima potenza, questa sarà la Cina ora guidata da Xi Jinping che ha annunciato il piano decennale da 5 mila miliardi di euro.
Era un’Italia protesa verso la modernità mediante le lotte sociali, che fu ricacciata nel giro di qualche decennio in una sorte di feudalesimo post-industriale dominato dalla rendita e dalle mafie da parte di una delle peggiori borghesie del mondo, che ha il “demone” del fisco e che ha “suicidato” un intero Paese.
Chissà perché in Cina non si parla mai di fisco, tema all’ordine del giorno da vent’anni nella feudale Italia assieme al costo del lavoro. Un Paese che parla solo di tasse o di “costo del lavoro” è un Paese che non ha più niente da dire o da proporre.
Forse la dirigenza cinese studierà la decadenza italiana per non fare gli stessi errori, almeno si spera.
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