Menu

Sul clima di “instabilità istituzionale”


“I risultati elettorali ci consegnano una situazione che rende estremamente complicata la formazione di un nuovo governo e che pone il Paese in uno stato di profonda instabilità istituzionale. Per questo motivo non possiamo che essere seriamente preoccupati”. (Roberto Zuccato, presidente di Confindustria Veneto)

“I mercati sono meno spaventati dell’esito del voto in Italia dei politici. (…) Molti dei processi di risanamento continueranno ad andare avanti con il pilota automatico”. (Mario Draghi, presidente della BCE)

Ciò che ci preme sottolineare è che una cosa è l’instabilità istituzionale, cioè la difficoltà per i partiti borghesi di esprimere in parlamento una coalizione in grado di ottenere la fiducia per formare un nuovo governo, altra cosa è l’ingovernabilità, vale a dire l’incapacità della borghesia, che è bene ricordare è la classe dominante in Italia, di governare. Tale possibilità è del tutto impensabile, dal momento che esistono meccanismi istituzionali che permettono, anche in caso di incapacità di trovare una maggioranza politica, alla borghesia di governare. In Italia, ad esempio, resta in carica il vecchio governo finché non se ne fa uno nuovo, almeno per quanto attiene l’ordinaria amministrazione, concetto che può essere reso molto labile. In Belgio, altro famoso esempio, non c’è stato un governo per più di un anno e mezzo, e ciò non ha impedito alla borghesia di governare. Cosa diversa, invece, sarebbe un clima di instabilità sociale e politica legato allo sviluppo ed all’approfondirsi della crisi capitalista ed all’iniziativa autonoma della classe. Ma non siamo ancora a questo.  Per intenderci non è che perché non c’è una maggioranza parlamentare che sostiene un nuovo governo la borghesia non esercita il proprio dominio di classe. Comunque gli operai vanno a lavorare e la borghesia estrae plusvalore da essi. Premettendo che non siamo feticisti, e che non abbiamo alcun culto per la violenza, ci risulta abbastanza difficile immaginare, qui in Italia ed in Europa, la possibilità di sovvertire i rapporti di potere, i rapporti sociali di produzione, tra le classi per “via parlamentare”.  Questo anche in considerazione del fatto che le borghesie nazionali, spinte dalla necessità di costruire uno “spazio comune europeo” per poter competere nel mercato globale, si sono dotate di strumenti e strutture di governo che superano gli ambiti nazionali, e che permeano tutti gli aspetti della vita politica, economica e sociale, dei paesi che compongono l’eurozona.  Proprio la crisi che attraversa tutta l’eurozona, anche i paesi nordici, sta dimostrando la determinazione della borghesia europea nel proseguire sulla strada della costruzione e del rafforzamento del polo imperialista europeo. D’altronde per la borghesia europea è la strada obbligata, non è possibile alcun ritorno indietro, se vuole continuare a contare nel mercato globale. Certo, c’è una parte della piccola borghesia, arretrata e perdente ma numericamente consistente, che auspica una fuoriuscita dall’euro. Ma è, appunto, una frazione arretrata della borghesia, che, almeno al momento, non sembra in grado di riuscire a determinare una tale svolta.

Insomma, quale che sia la maggioranza a sostegno del prossimo governo, qualunque sarà la leadership, il “pilota automatico” cui fa riferimento Draghi continuerà a marciare, proprio perché per la borghesia, per la conservazione del potere da parte della classe dominante, non c’è altra strada che l’accelerazione sul piano dell’integrazione europea. Senza una rottura in tal senso, nessuna prospettiva di cambio radicale è possibile.

A tal proposito ci preme ritornare su una proposta portata avanti dalla Rete dei Comunisti, dichiaratamente volta a ‘rovesciare il tavolo’ e a rompere con i ‘diktat dell’Unione Europea: si tratta della costruzione, previa uscita dell’Italia dall’eurozona in maniera coordinata agli altri paesi cosiddetti PIGS, di un’area di scambi solidali sul modello dell’ALBA sudamericana, con l’adozione di una nuova moneta.

Acclarato che neanche i compagni della Rete vedono, nella realizzazione di questa proposta, un immediato superamento del modo di produzione capitalistico, ma piuttosto un avanzamento su percorso della liberazione dei lavoratori come classe internazionale, ci sembra che troppo spesso però il dibattito riguardo l’uscita o meno dall’euro prenda la forma di una discussione su ciò che è meglio per “l’economia nazionale” o per un ‘sistema-paese’ i cui interessi sarebbero in blocco contrapposti a quelli di paesi i cui sistemi produttivi appaiono più forti. Ci chiediamo, dunque, in che senso e per quale motivo il ritorno ad una dimensione ‘nazionale’ o comunque parziale rispetto a quella europea possa servire da volano per il rilancio della lotta per la liberazione del proletariato. Più precisamente, ci chiediamo perché, nel giusto e doveroso esercizio di elaborazione di una proposta politica di massa, sulla cui necessità e urgenza le ultime elezioni hanno espresso un giudizio inequivocabile, una rottura dell’eurozona su una linea di frattura ‘orizzontale’ o comunque ‘intranazionale’ abbia o possa avere più efficacia per il proletariato di una rottura su una linea di frattura di classe direttamente sul piano continentale, che è quello su cui gioca la classe dominante.

Ovviamente il ‘rovesciamento del tavolo’ si costruisce a partire dalle condizioni materiali, e dalla possibilità, dunque, di partire dalla costruzione di alleanze con i settori di proletariato continentale che già oggi esprimono livelli avanzati di conflitto: questi possono coincidere, oggi, con i lavoratori dei paesi cosiddetti PIGS, ma resta una differenza tra il lavoro per costruire una doverosa alleanza tra i movimenti di lotta all’austerità laddove si sono manifestati e il lavoro per costruire un’alleanza organica soltanto tra alcuni paesi, sulla quale continuiamo ad avere perplessità anche alla luce di altre considerazioni, tipo l’effetto di regalare alla borghesia imperialista una frazione importantissima di proletariato europeo – quello che vive e lavora nel centro Europa e che è superficialmente dipinto tout court come ‘aristocrazia operaia’ – e la constatazione del carattere compiutamente imperialista delle borghesie dei PIGS e della conseguente impensabilità di replicare alleanze anti-austerity sul modello di quelle che il proletariato sudamericano ha costruito con la borghesia nazionale di quei paesi in chiave antimperialista. Insomma, non capiamo come e perché un’eventuale realizzazione di quest’ALBA mediterranea debba avere un carattere più ‘sociale’ e progressivo, e come e perché debba essere preferibile al lavoro di costruzione di un programma e un lavoro politico di massa che possa riguardare e ricomporre il proletariato europeo nella sua totalità.

Condividiamo queste riflessioni perché riteniamo giusto e urgente riaprire il confronto tra i comunisti sui passaggi necessari per l’elaborazione di un nuovo progetto politico e un piano comune di lavoro che abbia la capacità intrinseca di farci andare ‘al di là di noi’, anche al di là dunque della somma delle nostre energie; riteniamo che il quadro uscito dalle urne sia tutt’altro che stabile, e siamo convinti che la deflagrazione del Movimento 5 Stelle, che ha rappresentato la principale ‘novità’ politica, non sia tanto lontana e non debba coglierci impreparati, bensì già pronti a raccogliere istanze, conflitti, proteste all’interno di una ‘linea di massa’ che abbia realmente una capacità rigeneratrice per la sinistra e possa, realmente, ‘rovesciare il tavolo’.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *