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In questa sede preferiamo sublimare il dolore per la morte del Presidente Chávez, con un’analisi del processo rivoluzionario tuttora in corso in Venezuela. Lo facciamo cercando, con tutti nostri limiti, di adottare un approccio scientifico e usando, come cartina di tornasole, i documenti prodotti dalla stampa borghese, anziché le analisi più vicine a noi, come impostazione.
Ci riferiamo al volume di Aspenia, il numero 59, dedicato specificamente al Nord e Sud America, pubblicato dopo le elezioni in Venezuela e prima dell’aggravarsi della malattia di Chávez. Teniamo presente che Aspenia è una delle più quotate pubblicazioni italiane in campo geopolitico, se non altro perché fa riferimento all’Aspen Institute, un think tank statunitense al cui interno ci sono facoltosi industriali e personaggi come Kissinger. In Italia Aspenia è collegato al gruppo del Sole 24 Ore, ha un sito frequentato e alcune pubblicazioni periodiche su tematiche specifiche.
Noi abbiamo trovato molto interessante un articolo presente nella rivista in questione e dedicato al Venezuela del dopo-voto, a firma di Michele Testoni. Titolo “Il Venezuela e il futuro del modello chavista”. Si tratta di un articolo interessante sia perché riassume le opinioni della compagine imperialista sul Venezuela bolivariano sia perché conferma, come ci diceva Luciano nella nostra scorsa iniziativa dopo le elezioni in Venezuela, che quel voto popolare, favorevole ancora una volta a Chávez, abbia rappresentato un momento importante, forse decisivo, per il Latino America, anche nella percezione della parte avversa.
Sgombro subito il campo da dubbi: l’articolo in questione non è in favore di Chávez e aggiungiamo pure “per fortuna”, dato che sarebbe stato imbarazzante il contrario, con le forze imperialiste improvvisamente pro- Chávez. Allo stesso tempo, però, pone alcuni punti fermi molto interessanti:
1) vengono riconosciute le conquiste sociali dall’inizio della “rivoluzione bolivariana”, nel merito dell’aumento del livello medio dei salari e delle pensioni; dimezzamento della disoccupazione; forte diminuzione dell’indigenza; incremento dei tassi di alfabetizzazione e scolarizzazione; estensione dell’assistenza sanitaria gratuita; miglioramento della qualità della vita anche nei quartieri più poveri di Caracas, ad esempio mediante la nascita di mercati agricoli a prezzi contenuti. Per assurdo, nel senso che comunque si parla di un punto di vista liberal-democratico, veniva detto che”sì, esiste una maggioranza di media chavisti [cosa peraltro assolutamente falsa, un vero luogo comune], ma c’è un pluralismo nell’informazione e anche nel sistema partitico”. Quanto sopra è molto importante, perché evidenzia come anche la destra sia costretta ad ammettere la natura popolare del consenso chavista, mentre fino a poco tempo fa parlava solamente di manipolazione mediatica nei confronti della popolazione incolta e di intimidazione contro il ceto medio.
2) In continuità con quanto sopra, e a conferma di quanto ci avevano raccontato i compagni partecipanti come osservatori alle elezioni venezuelane, veniva ricordato come il consolidamento del governo di Chávez avesse costretto la desta venezuelana a cambiare, fino a snaturare, in un certo senso, il suo candidato. Capriles, infatti, non si poneva come il classico rappresentante di quell’élite filoamericana legata alla cosiddetta “diplomazia del dollaro”, ma come un amministratore locale vincente, dal momento che governava nello Stato di Miranda (“il più sviluppato del Paese”, veniva detto, omettendo che era lo Stato dove si addensavano i ceti più abbienti), dotato di affabile retorica e capace di aggregare le forze destrorse. Per dirne una, in politica interna Capriles diceva di ispirarsi a Lula e alla sua economia di mercato aperta a capitali stranieri, non agli “zozzoni” storici della destra latinoamericana, non a un Menem, a un Pinochet… Non a caso, viene detto nell’articolo, Capriles perde ma ottiene un buon risultato elettorale, dal momento che i voti di scarto rispetto a Chávez scendono a 1,6 milioni, rispetto ai 3,1 milioni delle elezioni del 2006.
3) Se anche la destra deve snaturarsi, vuol dire che Chávez non è stato un “accidente della storia”, una semplice parentesi – per quanto felice – ma abbia dato vita a un modello, che viene riconosciuto anche dall’articolo in questione – e ciò rappresenta uno dei punti più interessanti. L’autore dell’articolo inserisce il Presidente Chávez in un elenco, a ben vedere un po’ sgangherato, di leader politici latinoamericani accomunati dalla difesa degli strati più poveri della rispettiva popolazione mediante un programma di nazionalizzazioni che togliesse i capitali produttivi dalla disponibilità delle grandi multinazionali. In questo elenco venivano messe insieme figure piuttosto differenti, in quanto molto complesse: José Martí, Rubén Darío, Allende, Perón, Fidel… ma l’opinione interessante si ha quando si inquadra Chávez in un percorso di anticolonialismo e di antimperialismo, che pensiamo dia la giusta misura, soprattutto agli occhi di un liberale, della sua figura.
Si scrive espressamente: “La politica estera chavista non si inquadra in una logica antioccidentale perché antidemocratica, bensì in una logica antiamericana perché anticolonialista”: poche parole, senza tanta retorica rivoluzionaria, che aiutano a definire al meglio il Presidente Chávez.
4) Quest’ultimo, infine, era considerato un avversario politico molto serio perché non limitava l’antimperialismo al Venezuela o comunque a una cerchia periferica di Paesi limitrofi: veniva ricordato come passaggio essenziale per capire i progressi della politica chavista il recente ingresso del Venezuela (estate 2012) nel Mercosur, cioè nell’organizzazione regionale di integrazione economica, fondata da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay. Chi pensava al gruppo ALBA come a una realtà tutto sommato ancora periferica non poteva negare come l’ingresso del Venezuela in un’organizzazione già strutturata e vigente da quasi 30 anni fosse una piena legittimazione internazionale per Chávez e il sintomo di come il chavismo stesse diventando un modello per l’intero Latinoamerica.
4) Ovviamente l’articolo di Aspenia non è pensabile come panegirico per Chávez: presenta anche numerose critiche, che si dividono in due tipi. Ci sono quelle generiche, che si fondano su luoghi comuni mai dimostrati perché forse mai dimostrabili. Ad esempio, quando si parla della politica interna del Venezuela di Chávez si cita “un connubio – tutto latino – di assistenzialismo statalista, corruzione e machismo” (una frase buttata là con nonchalance, se non fosse molto offensiva, indimostrata e soprattutto decisamente razzista). Altre critiche, invece, sembrano apparentemente più circostanziate, soprattutto quando riferite a dati socio-economici: è nient’altro che apparenza, perché anche queste opinioni vengono presentate omettendo aspetti significativi ai fini di una corretta interpretazione. Si dice: il Venezuela ha avuto una brusca contrazione del suo Pil negli ultimi tempi (e si omette che, in un clima di crisi economica generale e di conseguente minore richiesta di petrolio, avere comunque un +2,8% di Pil, quanto è stato nel 2011, è una cifra incredibile per i Paesi occidentali, sempre che si consideri questa misurazione come utile). Si dice: tra il 2009 e il 2011 il bolivar, la moneta venezuelana, è stata svalutata del 100% rispetto al dollaro (poi però, quando ci si lamenta che in Europa l’euro è troppo forte rispetto al dollaro non si capisce quale sia la giusta politica monetaria). Si dice: la bilancia commerciale venezuelana rimane comunque positiva, ma l’inflazione è scattata al 28%, ma si omette di ricordare come economie dinamiche abbiano comunque l’inflazione crescente (“fisiologica”), di gran lunga preferibile rispetto alla stagnazione europea.
Un’altra critica che veniva presentata, e che troviamo riecheggiare anche nella presunta “opposizione di sinistra” a Chávez – su cui tanto ci sarebbe da dire ma che preferiamo non trattare in questa sede – riguarda la dipendenza del Venezuela dal petrolio. Ora, tutto ciò sarà sicuramente vero, ma nessuno ci convincerà che il problema odierno del Venezuela sia rappresentato dal fatto che non ci sono le pale per l’energia eolica oppure i pannelli fotovoltaici: ci sembra veramente un modo capzioso di affrontare la questione venezuelana.
Infine, un ultimo aspetto su cui abbiamo concentrato la nostra attenzione, perché terribilmente attuale: il dopo Chávez. L’articolo, come detto, è scritto prima della morte del Presidente, quando però erano già note le sue delicate condizioni di salute. L’Autore, quindi, azzarda alcuni ragionamenti su un possibile dopo-Chávez adesso tristemente attuale: Maduro è considerato un fattore di continuità rispetto a Chávez, forte di una affidabilità anche in campo internazionale e di un consolidato rapporto con le altre cancellerie, dal momento che era a capo della diplomazia venezuelana sin dal 2006. In campo interno, pronosticava l’Autore, non è escluso che debba allentare la presa su alcuni elementi cardini del chavismo, a fronte dell’attuale crisi economica. Il modello chavista, conclude l’articolo, ha raggiunto una legittima interna ed esercita una chiara influenza regionale, non si sa, però, quanto possa essere sostenibile senza Chávez.
Senza girarci troppo intorno, è la domanda che si fanno, magari silenziosamente, tanti compagni. Noi siamo fiduciosi e lo siamo perché abbiamo visto e letto l’incredibile risposta popolare alla malattia e alla morte del Presidente. Noi, come tutti i sinceri rivoluzionari, avevamo augurato lunga vita al Presidente Chávez. Se non fosse morto Chávez avrebbe governato (almeno) fino al 2019, quando avrebbe avuto 65 anni. Eppure siamo convinti che nel 2019 festeggeremo lo stesso, insieme a tutto il popolo venezuelano, i venti anni della “rivoluzione bolivariana”. Hasta siempre Presidente, chi ha tanti compagni non muore mai.
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