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Squlibrio presidenziale

Un dio continua a confondere coloro che vuol perdere… E nella borghesia – o quel che c’è da quelle parti – non è che il livello di comprensione strategica sia molto più elevato. Basta guardare l’editoriale di Antonio Polito, sul Corsera, per capire che il baratro ci sta già ospitando. Ora.

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SQUILIBRIO PRESIDENZIALE
Gaetano Azzariti

Un centrosinistra allo sbando si appresta a discutere di riforme costituzionali con un centrodestra agguerrito. Può non essere piacevole dirlo per chi milita tra le file degli «sbandati», ma questa è la realtà ed è inutile nasconderla. Basta pensare al modo in cui si è aperta la discussione sulla modifica della nostra forma di governo parlamentare per avere una conferma del grave stato di confusione in cui versa il centrosinistra.
Il 22 maggio il ministro per le riforme costituzionali (esponente del centrodestra) indica le diverse ipotesi possibili: «Abbiamo di fronte due strade – scrive Quagliariello – la forma di governo parlamentare razionalizzata e il semipresidenzialismo secondo il modello francese». Consapevole dunque che alla proposta tradizionale della sua parte politica, da sempre favorevole all’elezione diretta del presidente della Repubblica, si contrappone quella della parte politica avversa che nella razionalizzazione della nostra forma di governo trova il suo ambito naturale. Veniva così definito il terreno del confronto.
È bastata una settimana, senza neppure bisogno di aprire la discussione nelle sedi parlamentari proprie, perché autorevoli esponenti del centrosinistra – l’accorto presidente del Consiglio in primo luogo – dichiarassero la resa: che si discuta esclusivamente di come eleggere il capo dello Stato, l’unica via per riformare il sistema costituzionale.
A questo punto un doppio risultato è già stato ottenuto: da un lato la rottura del fronte di centrosinistra, che sarà condannato a dividersi e a lacerarsi in scontri traumatici tra neopresidenzialisti e filo parlamentaristi; dall’altro la sicurezza per il centrodestra di aver già ottenuto il pieno successo culturale, avendo portato l’avversario storico a riconoscere la bontà delle sue tradizionali proposte.
Diventa urgente rimettere le cose al loro posto, nella speranza che non sia troppo tardi. È necessario dire ad esempio che gli argomenti di chi a sinistra auspica l’elezione diretta del capo dello Stato non sono per nulla innovativi, bensì espressione di una cultura conservatrice. È necessario dire ad esempio che il passaggio da una forma di governo parlamentare a una semipresidenziale non risolverà la crisi politica e istituzionale in cui versa l’Italia, bensì la farà definitivamente precipitare rendendo ancor più incerto il governo democratico del paese.
Un’accusa di arretratezza culturale e di miopia politica che – a sinistra – dovremmo impegnarci a dimostrare se vogliamo dare un contributo critico, ma anche costruttivo, alla prossima discussione sulle riforme della costituzione. Se vogliamo uscire dalla subalternità cui da troppi anni siamo costretti e che ci hanno portato a subire – distratti e afoni – l’egemonia altrui.
Per ora, nelle poche righe di un articolo, limitiamoci a ricordare l’essenziale. Il problema – culturale e politico al tempo stesso – delle forme di governo (tanto di quelle parlamentari, quanto di quelle presidenziali) è principalmente quello di definire un equilibrio tra i poteri e tra gli organi costituzionali. In ogni caso in cui il rapporto tra parlamento, governo e capo dello Stato volge a favore di uno solo di tali organi si produce una degenerazione e la crisi politica comincia ad avvitarsi su se stessa, con pericolosi spostamenti di potere e tendenze all’assolutismo di uno dei tre organi.
Esattamente quel che è avvenuto in Italia. Potremmo ripercorrere la storia dell’ultimo ventennio per vedere i progressivi spostamenti dei poteri tra un organo e un altro, ci renderemmo così facilmente conto di come, a fasi alterne, ora il governo, ora il capo dello Stato, hanno assunto un ruolo di dominanza, rompendo il fisiologico equilibrio tra i poteri. Da questo scompenso deriva la crisi della nostra forma di governo.
L’affermazione comunemente ripetuta di un governo senza poteri adeguati è priva di senso costituzionale: la migrazione del potere legislativo dal parlamento all’esecutivo dimostra il contrario. Tutti i governi dell’ultimo trentennio – e da ultimo con sempre maggiore intensità – hanno dettato l’agenda legislativa, relegando il parlamento in un ruolo servente. In caso sono le divisioni politiche, le debolezze strategiche, gli opportunismi dei leader a rendere instabile un esecutivo dotato di poteri in eccesso.
Immaginare che un rafforzamento del governo possa passare per un’ulteriore concentrazione dei poteri nelle mani di chi già ne ha troppi dimostra un’elevata dose di spregiudicatezza costituzionale. Non sarà rafforzando l’esecutivo che usciremo dalla crisi politica.
Per quanto riguarda più direttamente il capo dello Stato, l’ultima convulsa fase politica ha imposto una «reggenza» proprio a quell’organo che nel nostro paese svolge le funzioni di garanzia degli equilibri costituzionali. Può essere compreso che nel vuoto della politica e nella perdita di potere delle altre istituzioni il garante del sistema sia spinto a dare soluzioni alle crisi, ma dovrebbe essere anche evidente che per evitare una degenerazione degli equilibri costituzionali è necessario ristabilire quanto prima la fisiologia, puntando dunque ad un riequilibrio. Immaginare, invece, che la soluzione alla crisi della nostra forma di governo possa passare stabilizzando lo sbilanciamento e snaturando la figura di garanzia del presidente è illusorio e pericoloso.
Pericoloso soprattutto perché negli ultimi vent’anni un organo è certamente stato sacrificato e ha bisogno di essere riqualificato se si vuole evitare la degenerazione della forma di governo: il parlamento. Non può esservi strategia culturalmente consapevole e politicamente efficace che non ponga al centro della riforma istituzionale e costituzionale la questione dell’organo della rappresentanza politica.
Espandere i poteri del parlamento, rilanciare la rappresentanza politica, mettendo in discussione le chiusure prodotte nell’ultimo ventennio, dovrebbe essere il compito di riformatori consapevoli della gravità in cui versa il sistema costituzionale italiano. Una strada che appare ostruita dai tanti che non sono disposti ad andare alla radice delle disfunzioni della nostra forma di governo. Il paradosso è che questi, che sono i veri conservatori, si presentano come finti innovatori. Un ribaltamento di senso che spiega molto delle sventure della sinistra e della confusione del nostro tempo.

da il manifesto

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Il sospetto indelebile

Antonio Polito

«Il presidenzialismo rompe», titola l’Unità . E in effetti tutte le riforme sono una gran rottura per chi non vuol cambiare. Bisogna però capire se ciò che rompono era già rotto. In casi del genere anche il più prudente dei conservatori dovrebbe accettare l’urgenza del cambiamento. Ebbene in Italia da due anni e mezzo il governo non è più espressione del voto dei cittadini: prima con il Berlusconi-Scilipoti, poi con il Monti-Passera e ora con il Letta-Alfano, si è dovuti ricorrere a soluzioni in vario grado extra-elettorali. Di conseguenza il capo dello Stato, figura non eletta direttamente dai cittadini, svolge di fatto da tempo il ruolo di primo piano nella formazione dei governi e del loro programma. La legge elettorale non riesce più a dar vita a una maggioranza in entrambe le Camere. La Corte costituzionale sta per sancirne la illegittimità. Il nostro sistema politico è già rotto, che altro ci vuole a capirlo? Chi dice che non è una priorità cambiarlo usa dunque lo stesso argomento di Grillo, per il quale non era una priorità nemmeno fare un governo.

Eppure è bastato un barlume di possibile accordo tra i partiti sulla riforma costituzionale per far scattare il riflesso pavloviano di chi da vent’anni crede che riforme e berlusconismo siano sinonimi: e giù allarmi di svolta autoritaria, pericoli di scorciatoie carismatiche, mobilitazioni in difesa della Costituzione più bella del mondo, che non si tocca perché non è cosa vostra (dunque è cosa nostra?). Siccome è impossibile dipingere la Francia semi-presidenziale come una Repubblica delle banane, allora si lascia intendere che lo sia l’Italia, malata cronica di autoritarismo e sempre in cerca di un nuovo duce. Gli stessi che sostenevano l’improbabile tentativo di Bersani di reclamare Palazzo Chigi con l’argomento che in Francia Hollande aveva ottenuto l’Eliseo con il 29% dei voti al primo turno, ora inorridiscono all’idea del secondo turno e dell’Eliseo. Chi ha speso anni a raccomandare una radicale rigenerazione della nostra democrazia rappresentativa, ora si accontenterebbe di una «manutenzione». Non è questione di sistemi. Hanno respinto a turno anche il modello americano perché dà troppi poteri al presidente, l’inglese perché ne dà troppi al premier e il tedesco perché ne dà troppi al cancelliere. Ora bocciano il francese per salvare l’unico potere cui tengono: il loro potere di veto.

Qualche giorno fa il governatore Visco ha detto che l’arretramento del nostro Paese dipende dal fatto che da 25 anni non riusciamo più a «rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici» del mondo. Più o meno la data a partire dalla quale la nostra politica ha cominciato a dividersi tra chi vorrebbe cambiare tutto per non cambiare nulla e chi pensa di fargli un dispetto non cambiando davvero mai nulla. Sarebbe ora di accettare l’idea che anche una comunità, come tutti gli esseri viventi, può perire per paura di cambiare.


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