*****
Sulle manifestazioni che stanno scuotendo il Brasile da parte della sinistra di classe in Italia si stanno osservando le solite reazioni superficiali: chi semplicemente ha il culto dell’estetica degli scontri, senza porsi alcun problema politico, chi fa proclami altisonanti anti-socialdemocrazia, in riferimento al PT, magari utlizzando il linguaggio dei tardi anni ’20, chi evoca l’eterodirezione totale da parte della CIA, volta a rovesciare un governo non allineato, chi dice che “non basta indignarsi”, paragonando il movimento brasiliano agli indignados. E’ chiaro che questi approcci non possono nemmeno sfiorare la complessità e contraddittorietà del fenomeno, data la loro unilateralità a volte quasi caricaturale.
Andiamo con ordine: il PT, di ispirazione socialdemocratica, va al Governo con Lula nel 2002, ereditando una situazione molto pesante di un paese semicoloniale finito nelle grinfie del FMI, che aveva elargito un prestito triennale di 41.5 miliardi di dollari in cambio dei soliti piani di aggiustamento strutturale. All’epoca, il PT era reduce dalla stagione felice (in Sud-America ben più che in Occidente) del cosiddetto “movimento no global”, tanto da essere stato uno dei motori della costruzione del Primo Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, città nella quale governava, sperimentando, accanto alle istituzioni tradizionali, modalità di partecipazione popolare; è su tale onda di consenso popolare che Lula venne eletto, anche perché attorno a sé aveva coagulato il sostegno di tutta una serie di movimenti sociali reduci da un’aspra fase di lotta di classe negli anni precedenti per ottenere grandi riforme, specialmente nel settore agrario.
C’è da evidenziare che già negli anni ’90 il partito si era fatto promotore del Foro di San Paolo, una conferenza di partiti latino-americani di cui attualmente fanno parte il PSUV venezuelano, il MAS boliviano, il Partito Comunista Cubano e tutti i partiti che stanno dando vita alle esperienze progressiste o volte al Socialismo del XXI secolo del subcontinente.
La situazione del Brasile, come detto, era disastrata e molto complessa (basti pensare che ci troviamo di fronte ad un gigante demografico di 200 milioni di abitanti), con una differenza stridente fra settori ricchissimi e settori poverissimi, il cui destino era in mano alla criminalità organizzata; non c’è alcun dubbio che il marchio di fabbrica del Brasile di allora fossero, oltre al calcio, gli agglomerati urbani situati all’interno delle metropoli conosciuti come favelas, dove vivevano e vivono accatastati l’uno sull’altro migliaia di persone, assieme ai boss dello spaccio di droga, che vi trovavano una zona franca dove a comandare erano loro e non le autorità ufficiali, le quali non vi mettevano proprio piede.
Con queste premesse, il Governo di Lula ha disatteso quasi tutte le promesse di partecipazione popolare sulla base delle quali aveva guadagnato enorme consenso, ma sulla sua figura e il suo partito si è innestato un compromesso sociale fra una borghesia locale desiderosa di fare un “salto” nella competizione globale, una borghesia multinazionale imperialista e gli strati sociali popolari che lo avevano eletto; tale compromesso, essendo fortemente contraddittorio, per reggere ha dovuto non di rado essere “blindato” in maniera autoritaria, creando un accumulo di squilibri, oltre ad uno strato politico burocratico in grado di fare da camera di compensazione fra i differenti interessi di classe.
D’altra parte però, Lula è riuscito a sganciare in breve tempo il paese dal FMI ed ha potuto, così, avviare una poderosa politica di sviluppo industriale, grazie anche alle ingenti riserve energetiche del sottosuolo, che ha trascinato per 8 anni circa l’economia verso un boom senza precedenti, a tassi di crescita non di molto inferiori a quelli cinesi; attualmente, il Brasile è la sesta potenza industriale del mondo, dietro la Francia, ma davanti a Italia e Regno Unito, risultato nemmeno lontanamente immaginabile nel 2002; naturalmente, i risultati non sono analoghi per quel che riguarda la redistribuzione del reddito pro-capite.
Determinanti, in tale processo “virtuoso” per l’economia del paese, sono stati i vari meccanismi d’integrazione latino-americana pensati e messi in piedi su iniziativa del Comandante Chavez; essi hanno portato alla fondazione di molteplici istituti trans-nazionali in tutti i settori (Banca del Sur, Petrocaribe, Telesur, Unasur, Celac) grazie ai quali il sub-continente si è sganciato dal consenso di Washington, ottenendo incredibili benefici in termini di sviluppo delle forze produttive, crescita economica a beneficio delle classi subalterne e non solo.
In questo quadro, il Brasile rappresenta la locomotiva industriale e Lula prima, Dilma poi, si sono fatti e si fanno fra i principali artefici dei meccanismi d’integrazione e tali sono riconosciuti dai governi di tutti gli altri paesi, nonostante qualche sporadica tensione con gli stati ad impianto più propriamente socialista, come la Bolivia. Tutto sommato, Lula, assieme a Chavez (il vero ideatore di tutto), Fidel Castro e Nestor Kirckner è considerato tra i fondatori dell’integrazione latino-americana.
Altra linea di sviluppo che il paese sta seguendo è la cooperazione con gli altri paesi BRICS, cioè Russia, Cina, India e Sudafrica, con cui è allo studio la creazione di una nuova banca con fondi comuni e con meccanismi diversi rispetto alla Banca Mondiale; anche questo, naturalmente, è fattore di grave attrito con l’imperialismo (è arrivata già l’esplicita censura da JpMorgan), con il quale, però, si sono tenuti saldi i rapporti assumendo posizioni subalterne su altri scenari, come quello libico.
Sul fronte interno, sull’onda di questa poderosa crescita, il Brasile ha avviato politiche di redistribuzione che hanno fatto uscire dalla povertà assoluta vasti strati sottoproletari e proletari. Contemporaneamente, anche qui i rapporti con l’imperialismo sono stati tenuti consentendo una presenza massiccia di multinazionali straniere, con tutto il portato di devastazioni, degenerazioni nella Pubblica Amministrazione e problemi vari che ciò comporta. Nel complesso, non si sono voluti toccare gl’interessi strategici del capitalismo brasiliano, ma contemporaneamente si è riusciti anche a redistribuire una parte della ricchezza e a segnare progressi in termini di diritti sul lavoro, di scolarizzazione e di fermento culturale in generale; possiamo dire che si è avuto una sorta di compromesso socialdemocratico fuori tempo, possibile in quel contesto perché si tratta di una potenza demografica ed energetica; esso, pur nelle grandi contraddizioni, ha avuto un grande ruolo progressivo in quanto ha fatto uscire il paese dal giogo neo-coloniale e ha contribuito in maniera decisiva a far ottenere lo stesso risultato a gran parte del sub-continente e, in particolare, ai paesi dell’ALBA, in cammino vero il Socialismo del XXI secolo, i quali non avrebbero avuto una base economica sufficiente a raggiungere gli obiettivi che stanno raggiungendo senza la cooperazione orizzontale col gigante brasiliano.
Naturalmente, il compromesso ha retto finché c’è stata una situazione di crescita poderosa che consentiva di tenere testa alle immense contraddizioni; da due anni e mezzo il paese cresce a tassi vicini allo zero, e tutto il turbinìo di problemi è venuto poderosamente fuori: i margini di redistribuzione si sono contratti, la burocrazia incaricata di fare da camera di compensazione dei diversissimi interessi in seno ai governi locali e alla pubblica amministrazione ha accentuato il grado di corruzione, i servizi essenziali sono degradati. Ne è risultato un clima di conflittualità sociale latente che inizialmente ha riguardato solo settori ai margini dello sviluppo, come gli Indios che si oppongono alla distruzione della foresta Amazzonica. In queste settimane è esploso anche nel cuore delle metropoli, dando luogo alla rivolta dalle pratiche violente cui stiamo assistendo, anche con scene molto suggestive come l’assedio agli stadi in cui si gioca la Confederation’s Cup, smentendo agli occhi del mondo l’immagine di un paese cui il calcio “riempie la pancia”.
Facciamo considerazioni sociali generali, scaturite dalle posizioni espresse dai movimenti sociali (formatisi, come detto, nel fuoco di un’aspra lotta di classe, quindi più credibili delle burocrazie europee “di movimento”) sulla composizione sociale della rivolta, sulle sue caratteristiche politiche e sulle sue rivendicazioni (https://www.contropiano.org/esteri/item/17500-brasile-la-posizione-dei-movimenti-sociali): il Brasile si presenta come un paese immerso in un turbinìo sociale di vaste dimensioni con, da un lato, una grande borghesia che vuole fare un salto ulteriore nella catena imperialista mondiale, dall’altro vasti strati sociali “di giovani di classe media o medio-bassa” in ascesa, esclusi dalla partecipazione politica dalla natura per forza autoritaria del compromesso sociale dell’ultimo decennio e dalla burocrazia statale corrotta (sia quella del Pt, che quella delle opposizioni); strati sociali che, con la fine della crescita, vedono deluse anche le speranze di ulteriore crescita materiale cui erano stati abituati negli ultimi anni.
La classe operaia, invece, non partecipa alle manifestazioni. In mezzo a questa situazione si trova il PT, nella posizione scomoda di essere lo Stato che deve garantire l’ordine e di essere “incastrato” nella rete di rapporti che esso stesso ha costruito per reggere un compromesso che scricchiola pesantemente; tale rete di rapporti clientelari e burocratici, da cui provengono anche i casi di più odiosa corruzione, privilegi e disuguaglianza, impedisce anche di fare finalmente la scelta che la storia impone al PT di fare: stare con le classi subalterne o contro di esse, stare con l’imperialismo o contro di esso.
D’altra parte, gli strati sociali in rivolta sono quelli che, secondo il marxismo classico, sono più instabili, quindi la loro guida potrebbe essere presa da settori della destra, per rivolgerli direttamente contro il Governo, e da settori reazionari e fascisti più o meno legati all’imperialismo USA, che è lì pronto ad approfittare; inoltre, c’è anche il rischio che si possa far leva su una possibile voglia di occidentalizzazione culturale dei più giovani della protesta, rendendola una sorta di Tien-An-Men brasiliana; non mancano, infine, i media che stanno tentando di volgere il tutto in senso che noi diremmo “antipolitico”. I tentativi di infiltrazione non stanno mancando e costituiscono un pericolo gravissimo, poiché spesso fanno scaturire il caos gratuito.
In questo quadro turbolento s’inserisce il ruolo dei movimenti sociali, espressione obiettivamente più avanzata della sinistra di classe brasiliana (il Partito Comunista Brasiliano e il Partito Comunista del Brasile, pur partendo da posizioni opposte nei confronti del Governo, non fanno un’analisi molto diversa): essi stanno tentando di volgere le proteste verso obiettivi di riforma agraria, del sistema sanitario, dei trasporti, del welfare e di partecipazione popolare; per farlo, l’unico interlocutore politico che individuano è il Governo del PT, dimostrando una lungimiranza politica non di poco conto.
Se riusciranno ad avere parte attiva nel movimento, potranno direzionarlo verso le rivendicazioni dalle quali è partito e incalzare il PT nelle sue contraddizioni, facendogliele sciogliere, altrimenti le conseguenze non sono prevedibili; ma si può dire che non siano alle viste, purtroppo, opzioni rivoluzionarie radicali. O, almeno, esse non potranno scaturire da una precipitazione repentina della situazione per il PT, nel caso in cui quest’ultimo permanga nelle sue ambiguità. In generale, è in gioco tutto l’equilibrio continentale nel quale stanno crescendo e prosperando, fra mille difficoltà, i paesi dell’ALBA e si stanno avendo luogo meccanismi di rottura con l’imperialismo; milioni di persone potrebbero, in tempi non lunghi, di nuovo trovarsi legate alle catene del neo-colonialismo se le cose vanno male.
I segnali dati dal Governo, dopo le repressioni dei giorni scorsi, sono apparentemente conciliatori: Dilma ha tenuto un discorso in diretta TV parlando di grandi riforme in tema di sanità e servizi pubblici (accanto ai richiami scontati a non violare la legge nelle manifestazioni) e ha convocato un incontro nazionale che coinvolge Governo centrale, governi statali, sindaci delle principali città e movimenti sociali, così come chiesto da questi ultimi.
Qualche ultima considerazione va fatta nei confronti di chi critica gli atteggiamenti del tipo di quelli espressi in quest’articolo, in cui ci si discosta da complottismi assurdi, ma tuttavia, si parla di trattative e dialogo con il Governo, termini spesso rifiutati nella situazione italiana, per cui l’accusa può essere di doppiopesismo.
Chi rivolge quest’accusa paragona molto impropriamente il PT al centrosinistra di Prodi e quindi, l’utilizzo delle rivendicazioni dei movimenti in chiave di negoziazione col Governo al comportamento Bertinotti e al PRC del 2006. Ciò è totalmente privo di senso, poiché il Governo Prodi agiva nell’ambito del polo imperialista europeo ed era funzionale ad esso, mentre il Governo del PT agendo all’interno di un paese semi-coloniale, lo ha elevato da questo ruolo, facendolo emergere – sempre in chiave capitalista – mediante un compromesso sociale, ma muovendo alcuni decisi, anche se alterni, passi antimperialisti.
In tal senso si ricordi una famosa citazione di Lenin riguardo la politica estera della RSFSR:”Il compito principale che oggi noi ci proponiamo è di combattere gli sfruttatori e di conquistare alla nostra causa gli esitanti. È questo un compito d’importanza mondiale. Un buon numero di paesi capitalisti è esitante: come paesi capitalisti, essi ci odiano; come paesi oppressi, preferiscono vivere in pace con noi”. Se poi, qualcuno sostiene che il Brasile sia, allo stato, un paese imperialista e oppressore, dovrà dimostrare da quale altro paese la borghesia brasiliana estorce in maniera sistematica plusvalore, di chi mette a rischio il diritto di autodeterminazione, quale guerra di conquista abbia mai fatto negli ultimi 10 anni, ecc. A chi scrive non risulta nulla di tutto ciò.
Parallelamente, come già detto, anche i movimenti sociali che ora chiedono il dialogo col governo non possono essere paragonati ai ceti politici di movimento e di partito che si sono giocati, in buona o cattiva fede, il movimento no global per dei piatti di lenticchie all’epoca del Governo Prodi; perché il movimento sudamericano è stato ben altra cosa rispetto a quello europeo, poiché aveva ed ha maggiore radicamento sociale, un’ideologia egemone ben più aderente alla realtà ed ha raggiunto grandi obiettivi.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
Rastamen
La via pseudo-socialdemocratica latinoamericana, dai Kirchner alla Bachelet, non funziona. Non esistono vie democratiche al Socialismo e quanto meno ad un sistema ‘equilibrato’ di giustizia sociale. Già la tragedia di quel galantuomo rivoluzionario di Salvador Allende con i suoi 1000 giorni di Undida Popular nel Cile del 1970-73 lo dimostrò. E non si tratta solo di mutazioni geopolitiche avvenute dal 1973 ad oggi; il problema resta tale in quanto è implicito nel meccanismo matematico delle dinamiche di forza. La giustizia sociale dipende solo da un processo di forza imposto da un’avanguardia (che NON porterà il paradiso in terra..) ma che comunque riuscirà a ottenere il miglioramento della vita.