Non resta che prenderne atto: nessuno è al sicuro; dopo le fabbriche, all’occorrenza si chiudono le università. Dopotutto, non costituiscono una fonte immediata di reddito per le casse di uno stato, anzi sono un’ingombrante presenza sotto la voce “uscite”.
Stiamo parlando della chiusura del polo universitario di Atene, di gran lunga uno dei maggiori non soltanto della Grecia ma dell’intera area balcanica. Il fatto stesso di assistere al crollo dell’ateneo di una importante capitale europea, per di più nel paese che storicamente è culla di un’ importante componente del retaggio culturale, politico e filosofico dell’Europa stessa basterebbe a creare sdegno. Storia e cultura hanno una loro importanza, che si spinge ben oltre la semplice fascinazione del sapere fine a sé stesso, è questione di origini, di radici, fondamentale per la costruzione di un’identità anche nell’incontro e nell’intreccio con altre storie e percorsi. Ma c’è dell’altro. A macellare l’università greca – anche le altre sedi non sono esenti da rischi – sono i dettami imposti, e accettati dal governo, dagli organi di quella stessa Unione Europea che altrove invece si fa patrocinatrice della cultura, dell’integrazione, con progetti scolastici e universitari, stages… E’ ora di toglierle, queste maschere patinate, imparare a vedere il vero volto del potere sovrannazionale: stage, corsi e concorsi hanno un tornaconto ben preciso, rimpolpare le casse, oliare i meccanismi, assumere manodopera a basso prezzo (a prezzo nullo) per sbrigare compiti burocratici, e fidelizzare il cliente. Noi facciamo vedere allo studente quanto è bello uno stage a Strasburgo così che si dimentichi del fatto che trucidiamo l’università di Atene. In molti casi funziona. Perché come al solito, ognuno è troppo occupato a salvare il proprio malandato orticello per accorgersi che quello vicino è già andato in rovina. E così, è più o meno nel silenzio della comunità (si fa per dire) internazionale che un intero ateneo chiude i battenti, lasciando per la strada migliaia di studenti o aspiranti tali, docenti e personale amministrativo. Cosa sarà dei lavoratori, e soprattutto di quegli studenti costretti a scegliere se emigrare per studiare o restare e racimolare il primo lavoro che capita non pare essere un problema.
Non è in questo articolo che vogliamo redigere un trattato sul diritto allo studio o sul valore della formazione per le nuove generazioni, soprattutto in questa congiuntura storica che impone un cambiamento per aprire possibilità di decenti alla società del futuro, e dunque “nuove leve” pronte, capaci e fantasiose, poiché riteniamo che la chiusura di un intero ateneo, e di tale importanza, si commenti già da sola nella sua violenza e tragicità, soprattutto perché affrontata senza battere ciglio dai dirigenti europei, ma vale la pena trarre un’ultima, importante considerazione.
Il fatto che non ci sia stata pietà, che non sia stata offerta una speranza di salvezza, neanche passando attraverso il folle accumulo di debiti, per un ateneo, luogo di una formazione che pure la propaganda europea difende a spada tratta, fa pensare. In un contesto di valorizzazione del sapere, pur nell’ambito di parole d’ordine come “meritocrazia” e affini, ci si aspetterebbe che si faccia di tutto pur di salvare un’università dal collasso.
A meno che la strategia comunitaria non sia quella di una rigida divisione dei settori produttivi tra gli stati, in questo caso mettendo in secondo piano in territorio ellenico quello relativo alla formazione, ponendolo invece in risalto in quei paesi in cui ora si forma la classe dirigente dell’Europa di domani. Rendendola così, va da sé, uno stampo e una figura con quella di oggi.
Queste rimangono congetture, ma l’ipotesi acquisisce nitidezza alla luce di un’analisi, per esempio, del recente decreto approvato dal Consiglio dei Ministri italiano in materia di scuola e università, decisamente “europeista”, decisamente meritocratico e decisamente selettivo. Anche l’Italia è un paese che non naviga in ottime acque e, guarda caso, la gestione del mondo della formazione assume forme sempre più consone ai canoni dell’Unione Europea, potendosi in questo modo addirittura permettere di investire – cifre non certo esaltanti – laddove gli anni scorsi si era tagliato.
In conclusione, abbiamo l’ennesimo segno lampante che non vi sono soluzioni “all’interno”, o si sta alle regole dell’Unione Europea o si cade, e oramai ci sono sempre meno misure di sicurezza ad attutire la caduta, alla faccia della sicurezza sul lavoro.
L’unica è immaginare scenari alternativi, ma ne avremo la forza?
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