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Crisi economica e crisi politica. Note sull’intreccio italiano

 

1) In Italia, alla persistenza della crisi economica si somma l’agonia del quadro politico progressivamente definitosi, dagli inizi degli anni ‘90 ad oggi, come Seconda Repubblica.

Al di là del destino del governo Letta, e della possibile fine in tempi rapidi di questa legislatura, è proprio la Seconda Repubblica a non avere più la forza di andare avanti. Stanno venendo meno i soggetti politici che più l’hanno caratterizzata, ovvero Forza Italia e la Lega; e da parte sua il centro-sinistra, approdato in questi vent’anni ad una compiuta ispirazione liberale, non riesce neppure a definire la propria identità programmatica in maniera leggibile per i suoi stessi sostenitori.

Tuttavia, se ci fermassimo alle semplici convulsioni del sistema politico, non riusciremmo a vedere le dinamiche fondamentali che agiscono sulla società italiana. Occorre discernere anzitutto l’essenziale, nell’insieme delle vicende grandi e piccole che si succedono giorno dopo giorno. E l’essenziale è costituito, a mio avviso, dalla secca sconfitta del capitalismo italiano, e dunque del sistema-Italia, nella costruzione dell’Unione Europea.

Lo stesso prolungarsi in Italia della crisi economica – che nei principali paesi d’Europa, per non parlare degli Stati Uniti, appare già in via di superamento – testimonia di una difficoltà strutturale maturata proprio negli ultimissimi tempi. Ancora una dozzina di anni fa i politici italiani, da D’Alema a Berlusconi, potevano segnalare con orgoglio come l’Italia fosse la quinta potenza industriale del mondo. Oggi siamo molto a fatica fra i primi dieci; ed è aumentata la distanza con i paesi più forti, non solo gli Usa e la Germania, ma anche la Francia e l’Inghilterra.

2) Il punto è che l’Italia, o meglio il sistema capitalistico italiano, si è confermato come parte imprescindibile del sistema dell’euro, ma non ha lasciato un segno apprezzabile nell’insieme della edificazione europea. Il sistema-Europa si è costruito, infatti, mutuando largamente dalla Germania la propria identità economica e definendo alla maniera tedesca il rapporto fra la direzione politica dell’economia e gli spazi di manovra dei singoli segmenti di capitale, e ciò sia sul piano delle scelte comuni che sul piano delle scelte interne alle specifiche aree nazionali.

L’impronta tedesca si è esplicitata soprattutto con ciò che la vulgata giornalistica definisce “politica dell’austerità” nei conti pubblici. Il capitalismo italiano si basava, invece, sul largo uso del debito pubblico a sostegno del consumo interno, strutturalmente penalizzato dai bassi salari, peraltro necessari a mantenere la competitività internazionale in assenza di un grande slancio nelle innovazioni tecnologiche. Essere stati costretti al tetto del 3% del disavanzo pubblico in relazione al PIL, ha generato una più problematica circolazione del denaro, e di converso una obiettiva difficoltà di tenuta della produzione legata alle commesse pubbliche e al mercato interno. La crisi dell’edilizia esemplifica tuttora, in modo evidente, il cambiamento d’epoca imposto dal paradigma europeo del rigore e dell’austerità di bilancio.

Non ha molto senso dire che i governi e i capitalisti italiani “hanno sbagliato”. Una tale affermazione potrebbe forse andar bene, e neppure tanto, nella polemica spicciola, ma non significa pressoché niente sul piano dell’analisi. La verità è che essi sono andati alla “battaglia dell’Europa” con gli strumenti che avevano, con le armi di cui realmente potevano disporre; ma la potenza di fuoco degli altri era obiettivamente più consistente. Il risultato è stato, appunto, la sconfitta, e cioè l’imporsi di un brutale dato di fatto: a cambiare assetto di marcia doveva essere esattamente l’Italia, e non gli “altri grandi” d’Europa. E vorrei aggiungere, per amore di verità, che nel braccio di ferro con la Germania si è mostrata paradossalmente più consapevole della obiettiva necessità italiana di forzare il tetto del debito, e delle necessità del capitalismo italiano in genere, proprio la destra di Berlusconi piuttosto che la sinistra liberale di Prodi.

In ogni caso, l’esito è stato il costruirsi di un Sistema-Europa nel quale il segmento del Sistema-Italia viene sempre più stretto in una morsa, pressoché obbligato a ri-definire, in parte almeno, le sue modalità di funzionamento e la stessa entità effettiva dei valori di scambio che l’avevano caratterizzato fino al 2001. Il capitalismo italiano, in altre parole, è costretto bruscamente a ristrutturarsi, assumendo la collocazione che obiettivamente gli impone, prima ancora che le scelte soggettive di qualcuno, proprio il Sistema-Europa in quanto tale.

3) Il dato fondamentale è che questa pressione europea alla ri-collocazione dell’Italia comporta, sempre più chiaramente, una nuova dislocazione di spessore storico lungo la linea del valore delle produzioni, così come esse vengono definite dal capitalismo globale dei nostri tempi. In sostanza, l’Italia viene oggi sospinta verso le produzioni tendenzialmente obsolete e a basso contenuto di apporti sistemici. Vi è sospinta molto più di quanto non avvenisse dieci o quindici anni fa; ed anzi, la si incalza fino al circuito della vera e propria lavorazione dei rifiuti e degli scarti del sistema centrale delle produzioni.

Nell’età della totalizzazione del rapporto di capitale, un qualsiasi sistema-paese – anche un sistema-paese a scala continentale ed ancora in gestazione, com’è l’Unione Europea – deve sempre equilibrare, al proprio interno, il versante della innovazione e il versante della obsolescenza. Un po’ quello che è successo, e succede, all’interno dello specifico Sistema-Italia: a fronte di un Centro-Nord che “teneva botta”, e in parte ancora tiene, sul piano delle produzioni d’avanguardia e ad “alto valore aggiunto” (per usare i termini piuttosto ambigui dell’economia politica), il Mezzogiorno è stato vocato, anche per le sue caratteristiche storiche, a luogo d’elezione dell’indispensabile lato degradato dei processi produttivi, stabilmente indirizzato a lavorare, per così dire, il “rifiuto”. E’ stato chiamato, cioè, a gestire i processi produttivi destinati ad essere soppiantati in breve volgere di tempo, ad accompagnare il marcire delle risorse inintegrabili nel sistema, esseri umani compresi, e ad articolarsi attorno a prodotti comunque necessari ma non di prima linea, ampiamente esterni al circuito dell’informatica, della chimica d’avanguardia e della robotica applicata.

La tesi che qui enuncio, con inevitabile apoditticità per ragioni di spazio, è che il Sistema-Italia viene obiettivamente spinto ad assumere, nel quadro europeo, l’identico ruolo che, nel Sistema-Italia, ricopre il nostro Mezzogiorno. O meglio, è chiamato a disporsi sulla stessa linea (o poco più avanti) dei paesi meno sviluppati del panorama dell’euro. Per intenderci, la Grecia, il Portogallo e, con determinate caratteristiche, la stessa Spagna.

Dal punto di vista del Sistema-Europa, una tale dislocazione dell’Italia risulta estremamente funzionale, poiché nella fase del rapporto totale di capitale anche il lato del sistema che qualifico come “degradato” non potrebbe mai essere sorretto da economie poco significative per volumi produttivi e per complessità di organizzazione sociale. Le obsolescenze, gli scarti, gli sprechi e le marcescenze richiedono contesti ampi e spalle relativamente robuste che le accolgano e le “lavorino”; e che le portino, più o meno ordinatamente, a consunzione. Per assolvere ad una tale funzione, almeno in un’area importante come l’Europa, non bastano certo la Grecia, il Portogallo e la Spagna.

4) I dati ci dicono che la produzione industriale italiana, nel giro di poco più di un lustro, è diminuita del 20%. Ci dicono anche che il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli record: oltre l’11% sul complesso dei 6 milioni e passa di giovani tra i 15 e i 24 anni, addirittura il 40% rispetto a quanti di loro (poco più di un milione e mezzo) effettivamente provano ad immettersi nel mondo del lavoro. La stessa disoccupazione complessiva si situa stabilmente oltre il 10%. I dati ci dicono anche che c’è una ripresa dell’emigrazione italiana, con caratteristiche molto diverse da quelle del passato. Ad andarsene sono soprattutto i giovani più scolarizzati, e non di rado altamente scolarizzati: una riprova del fatto che nel Sistema-Italia diminuiscono rapidamente le opportunità di impiego sulla prima linea nella produzione, appunto quella dei comparti ad alta innovazione tecnologica e scientifica.

Nella interpretazione che suggerisco, questo innegabile “rallentamento economico” costituisce null’altro che il primo passo verso la nuova dislocazione del paese. In ogni caso, già porta con sé profonde implicazioni sociali. Se anche ci confermassimo, cosa tutt’altro che scontata, come il paese più robusto del “Mezzogiorno d’Europa” (giusto qualcosa in più di Grecia, Portogallo e Spagna), gli assetti sociali formatisi nei cinquant’anni che vanno dalla ricostruzione postbellica alla rivoluzione informatica e robotica ne uscirebbero comunque trasformati in modo radicale.

Occorre, infatti, considerare come un contesto sociale articolato intorno al “lato del degrado” assuma, esso stesso, quasi naturalmente, i caratteri di una società degradata. Non si può convivere a lungo con dinamiche di obsolescenza, di scarto e di spreco senza introiettare nel corpo sociale, nelle stesse relazioni civili, e finanche nei sensi comuni che percorrono la coscienza degli individui, i caratteri della provvisorietà, della povertà di significazione, della tendenziale inconsistenza del futuro e dei progetti di futuro. Il degrado (così come il suo rovescio, la diversificazione qualitativa) possiede la capacità di trasferirsi rapidamente dall’ambito del lavoro agli ambiti di vita, tanto più che nell’età della totalizzazione sono proprio gli ambiti di vita a sorreggere il sistema produttivo, immediatamente connessi, essi stessi, con i tempi di lavoro.

5) Ma questo scenario, questa linea di tendenza, posto che sia veritiera, procederà poi senza contrasti, senza contraddizioni? E’ ovvio che no. D’altronde, il capitalismo italiano non si è affatto rassegnato al ruolo angusto di “Mezzogiorno d’Europa”; né una tale prospettiva è stata realmente metabolizzata dal sistema politico. Si è, per così dire, ancora a metà del guado. E questo spiega, per buona parte, proprio la persistenza della crisi economica nel nostro paese e le convulsioni accentuate della Seconda Repubblica. Un trapasso d’epoca è sempre pieno di strascichi, di incongruenze, di tentativi di resistenza, di confusione sui dati di fatto, oltre che sulle prospettive. E però la progressione di marcia in quella specifica direzione è già cominciata.

L’interrogativo allora diventa: è davvero possibile invertire la linea di tendenza? E’ possibile un esito diverso per il capitalismo italiano? La risposta a queste domande è cruciale, ma postula che si abbia davvero consapevolezza delle forze in gioco.

Il nodo di fondo è che la collocazione degradata del Sistema-Italia equilibra realmente il Sistema-Europa nella competizione internazionale; viceversa, l’ipotetico risollevarsi dell’Italia in direzione degli “altri grandi” provocherebbe profondi squilibri, ed anzi minerebbe profondamente l’intera costruzione europea. E’ esattamente il contrario di quanto normalmente sostengono, sulla base della falsa coscienza che il capitale ha di se medesimo, sia gli analisti economici, e sia (con meno ingenuità e più malafede) gli Stati maggiori del Sistema-Europa, dal governo tedesco alla BCE. Essi dicono che la debolezza dell’Italia sarebbe un problema per l’Europa. In verità sarebbe un problema per l’Europa esattamente una sua rinnovata forza. Per dirla con una battuta, l’Europa “si salva” se l’Italia retrocede in serie B, ed entra in obbiettiva fibrillazione se l’Italia si intestardisce a restare in serie A.

In effetti, l’alternativa vera non è tra l’essere “come la Germania” o diventare “come la Grecia”, ma è: o essere un poco più della Grecia o essere addirittura peggio. Lo scontro dell’Italia con l’Europa, infatti, se venisse portato alle estreme conseguenze, e cioè fino al punto di una fuoriuscita del capitalismo italiano dal sistema dell’euro, si tradurrebbe facilmente in un processo di rapida e durissima disfatta, fino a fenomeni di vera e propria disgregazione del tessuto economico. L’Italia ne uscirebbe nelle vesti di terra di conquista per altre strutture capitalistiche più potenti.

6) La prima fondamentale conseguenza politica di questa sommaria analisi, qui esposta appena per titoli e assiomi, è che il capitalismo italiano è posto oggi di fronte a un bivio: o si acconcia al ruolo che il Sistema-Europa gli riserba, oppure prova ad andare a un braccio di ferro ultimativo. Ma se imboccherà questa seconda via – per istinto di conservazione o per necessità di tenuta sociale o per sogni di grandezza, o per tutte e tre queste cose assieme – difficilmente potrà conseguire un risultato utile.

Non può avvenire, infatti, almeno nel medio periodo, che la presenza italiana nell’euro stia a parigrado con la Germania e la Francia. Al massimo l’Italia può arrivare a ritagliare per sé il ruolo di capolista della serie B; ma se insisterà nel tentativo di restare “agganciata ai grandi”, l’unico effetto sarà di creare scompiglio nel sistema dell’euro, con una penalizzazione diretta soprattutto della propria economia e delle proprie ragioni di scambio. Per questa via la serie B verrebbe raggiunta lo stesso, con l’aggravante di una ulteriore dispersione di forze e senza neppure la garanzia di guidare davvero la classifica della “serie cadetta”.

Questa situazione, per molti versi bloccata, non è frutto di scelte soggettivamente elaborate da qualcuno in qualche oscura stanza, ma è la conseguenza del “naturale” disporsi capitalistico delle cose. Di fatto, il Sistema-Europa non può reggere una linea davvero paritaria per Italia, Germania e Francia; tanto più che nell’orbita del sistema tedesco si situano già altre “piccole potenze”, dall’Olanda alla Finlandia all’Austria alla Danimarca, e diverse altre ambiscono a sommarsi: dalla Repubblica Ceca alla Polonia alla Croazia. Così come il Belgio tende a rientrare nell’orbita francese. Dal canto suo, l’Italia se ne sta sempre sola con se stessa.

A ben vedere, si trattava di un dato già scritto in partenza, fissato nei materiali medesimi coi quali si è realizzato l’edificio europeo. Non fu certo un caso che l’introduzione dell’euro e la cessazione del corso delle monete nazionali creasse pochissimi problemi in Germania e in Francia e tantissimi problemi in Italia, con la vecchia “mille lire” che schizzava direttamente a “un euro” negli acquisti al minuto. Non era mica solo una furbata dei commerciati. O meglio lo era; ma essa poteva riusciva esattamente perché i valori reali dei beni – e dietro i beni, il valore reale del lavoro e dei macchinari – riuscivano a porsi sulla linea dei valori tedeschi e francesi solamente attraverso un artificio contabile. Ma quando poteva durare la finzione? Prima o poi, il conto doveva arrivare. La sconfitta italiana nella costruzione dell’Europa è esattamente quel conto che esige di essere pagato.

7) La seconda fondamentale conseguenza del ragionamento qui proposto è che le vicende politiche italiane – in sostanza, il passaggio dalla Seconda alla Terza Repubblica – troveranno un approdo relativamente stabile solo in relazione allo scioglimento della “questione europea”, ovvero con l’accettazione consapevole del ruolo capitalisticamente possibile all’interno del sistema dell’euro. Fin quando agirà, invece, la “falsa coscienza” della possibile grandeur dell’Italia, il sistema politico sconterà per intero gli scatti impotenti del sistema economico.

Il dato, addirittura drammatico per gli effettivi interessi “strategici” del capitalismo italiano, è che nessuna soggettività politica, tra quelle che si muovono per l’appunto nella logica del capitalismo, è oggi in grado di proclamare la ritirata inevitabile dal novero dei “grandi”. Né la destra né la sinistra liberale possono accettare esplicitamente il declassamento del Sistema-Italia nell’ambito del Sistema-Europa. Non possono dire, ad un paese che ha conosciuto un grande ciclo espansivo della produzione e dei consumi per circa quarant’anni, che le cose si porranno, per qualche decennio almeno, in modo del tutto diverso, e cioè con uno slancio produttivo contratto e con una dinamica dei consumi molto più severa. E neppure possono far finta di niente sulle immediate difficoltà che importanti segmenti produttivi del Sistema-Italia – per tutti, la Fiat e il settore dell’aereonautica – già incontrano sotto la pressione dei tedeschi e dei francesi. Né va sottovalutato il peso incombente della falsa coscienza dei capitalisti italiani e dei politici della Seconda Repubblica. Che l’Italia possa ancora assolvere al ruolo di “grande paese capitalistico” non è soltanto una speranza alimentata dai quotidiani economici, dal sistema bancario e dai più significativi think-thank della intellighenzia dominante. Si tratta, piuttosto, di una convinzione autentica.

E’ probabile, perciò, che questo insieme intrecciato di difficoltà politiche, sofferenze di settore e convincimenti velleitari impedisca ancora per un certo tempo, alle classi dominanti, la presa d’atto della realtà. L’effetto è che sarà procrastinata, fino e forse oltre gli stessi limiti sopportabili, la permanenza nel guado.

Se si considerano senza paraocchi le effettive forze in campo, occorrerà convenire che l’unica vera possibilità di “riagganciare la prima linea” dell’economia passa per un pesantissimo lavoro di ammodernamento complessivo del sistema produttivo. Ma si tratta di un lavorìo necessariamente lento, che nei tempi brevi faccia di necessità virtù, e che utilizzi la stessa condizione di lato degradato come base utile a ri-costruire progressivamente le condizioni di una futura ricollocazione in avanti. Qualcosa di simile al lavoro preparatorio avvenuto nel decennio della ricostruzione post-bellica e della austerità degli anni ’50. Quando si farà strada la consapevolezza di questa inevitabile “discesa agli inferi” potremo parlare di passaggio effettivo dalla Seconda alla Terza Repubblica, con un’Italia globalmente povera e meno competitiva sul piano internazionale e con sofferenze pesantissime per l’insieme delle classi popolari.

Ma fino ad allora terrà banco, sia nella versione della destra, sia nella versione della sinistra liberale, il tentativo velleitario di mantenere le posizioni attraverso una “traduzione all’italiana” del modello tedesco. Lo ripeto: è un tentativo senza basi solide, destinato ad arretrare passo dopo passo; destinato soprattutto, in questo progressivo arretramento, ad esaltare al massimo talune criticità storiche del Sistema-Italia, in particolare il dualismo Nord-Sud.

In sostanza, è verosimile che assisteremo, man mano che la dinamica dell’arretramento si impone, a un virulento innalzarsi dei contrasti tra le varie parti d’Italia. Se il Sistema-Italia va in serie B, facilmente le regioni più ricche, il Nord e il Centro, proveranno a scaricare le più pesanti e laceranti contraddizioni sociali sul Mezzogiorno. Il Sud, già luogo di elezione del degrado all’interno del Sistema-Italia, assumerà sempre più i contorni di punta degradata del più generale degrado nazionale.

8) La terza conseguenza ci riguarda direttamente. Riguarda cioè coloro che intendono muoversi fuori e contro le logiche del capitalismo. La questione è se sia possibile affacciare, nella battaglia politica e nella costruzione di un blocco sociale di alternativa, una parola d’ordine esemplificatrice di come andare oltre il destino segnato del capitalismo italiano. E’ senz’altro possibile, ma occorre andare risolutamente oltre il dibattito povero di queste settimane. Nell’arcipelago di quelli che si dichiarano contro l’Europa di Maastricht si oscilla, infatti, tra la velleitaria proposta di “disobbedienza ai trattati”, e cioè di puntare a sfondare unilateralmente il tetto del 3%, e l’ipotesi esplicita di “fuoriuscita dal sistema dell’euro”, in maniera più o meno lacerante e più o meno consensuale.

La prima parola d’ordine ha il difetto della incoerenza logica: non si può pensare di restare nel sistema dell’euro e, contemporaneamente, “disubbidire” alle sue regole fondamentali. Ammesso pure che il governo, un governo qualsiasi, decida di farlo sotto la pressione popolare, il risvolto immediato non sarebbe affatto lo scendere dell’Europa a più miti consigli: quel passaggio è già stato tentato più volte durante il decorso della crisi e si è risolto ormai in modo definitivo, e cioè con la sconfitta italiana, secondo il principio che in Europa ciascuno conta per la forza economica che possiede. Se l’Italia sfondasse deliberatamente il 3% di disavanzo, non potrebbero che attivarsi le procedure di infrazione e la penalizzazione dei trasferimenti finanziari dall’Europa all’Italia. A quel punto che si fa? Si ritira la firma italiana dall’insieme dei trattati europei?

Se poi si propone la “disobbedienza” in chiave meramente strumentale, e cioè senza alcuna illusione di piegare l’Europa e con la segreta intenzione di creare le condizioni della rottura, allora saremmo a un autentico, inutile “bizantinismo politico”. Si pensa, forse, che in tal modo i passaggi risulterebbero di più facile gestione nella battaglia politica? o più facilmente “comprensibili” per l’opinione delle classi sociali cui facciamo riferimento? E perché mai? Non sarebbe meglio puntare direttamente all’ipotesi della fuoriuscita dall’euro, senza inventarsi alcun confuso e superfluo “passaggio tattico”? Una astruseria, per quanto la si carichi di aspettative, rimane null’altro che una astruseria.

Nell’un caso (la speranza infondata di poter ancora forzare la mano alla Germania e alla BCE) e nell’altro (l’utilizzo strumentale della parola d’ordine della “disobbedienza”, col segreto proposito di arrivare alla fuoriuscita dall’euro) il ragionamento mostra, ai miei occhi, caratteri evidentissimi di inconsistenza argomentativa. E gli argomenti inconsistenti difficilmente riescono a farsi strada.

9) Più robusta sembra la tesi esplicita della fuoriuscita dall’euro, se non altro perché non presenta particolari incoerenze nel suo andamento logico. Essa, però, mantiene un difetto formidabile, in quanto non fa i conti con l’effettiva forza del capitalismo italiano. Uscire dall’euro mette certamente in difficoltà anche la Germania e la Francia, ma sicuramente apre una voragine di guai per il Sistema-Italia.

La proposta di fuoriuscita dall’euro viene curiosamente sostenuta con l’argomento che il mondo è oggi multipolare. Ed è vero: non esistono soltanto gli Usa, il Giappone e l’Europa ma anche i paesi del cosiddetto Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) e diversi paesi islamici, dal Pakistan all’Indonesia all’Iran. Chi sostiene la gestibilità capitalistica della fuoriuscita dall’euro ritiene che un’Italia autonoma potrebbe sopravvivere relativamente bene, relazionandosi esattamente con l’insieme dei “paesi emergenti”.

Ma proprio l’esistenza di paesi aggressivamente emergenti sul piano capitalistico, che ormai si pongono pressoché sulla stessa linea dell’Italia per prodotto interno lordo, e forse l’hanno anche superata, creerebbe molti più problemi di concorrenza di quanto non ve ne siano oggi al riparo dell’ombrello protettivo dell’Unione Europea. Ma come si fa a credere che una futura “Italia della lira” possa davvero “collaborare” con l’India sullo scenario della informatica? non è più realistico che soccomba all’industria cibernetica indiana e cinese? E sul piano della cantieristica, potrebbe mai integrarsi con la Corea e la Cina, o non verrebbe spazzata rapidamente via? E come la si metterebbe nella produzione dell’auto, con il moltiplicarsi ormai esponenziale dei paesi produttori?

E’ evidente, almeno ai miei occhi, che oggi come oggi un’Italia separata dall’Europa, che “faccia da sé” nel sistema multipolare dell’attuale capitalismo, sia destinata a divenire rapidamente un vaso di coccio in mezzo ai “vasi di ferro”. Si può certo proporre l’uscita dell’Italia dall’euro; ma bisogna essere poi convincenti su quello che avverrà dopo. E non si può sensatamente pensare di risultare credibili prospettando una “economia capitalistica” del Mediterraneo. La connessione mediterranea dell’economia italiana, infatti, potrebbe porsi come (relativo) fattore di traino per i paesi del Nord Africa, forse anche per la Grecia; ma per il capitalismo italiano si tradurrebbe in un punto di equilibrio sicuramente più basso dell’attuale.

Il Mediterraneo è largamente il mare dei barconi che si rovesciano e delle povertà smisurate. L’Italia “che fa da sé” al centro del Mediterraneo, in un rapporto di partnership più o meno paritario con i paesi rivieraschi, dovrebbe obbiettivamente ridimensionare il proprio ruolo nella classifica dei paesi economicamente sviluppati. Sarebbe un’Italia sensibilmente più povera, neppure col ruolo di capolista della serie B che le assegna la Germania; e ciò in termini sia di volumi produttivi che di consumi.

10) Ma allora che cosa possiamo fare? La dico nel modo più inequivoco: noi non possiamo fare perfettamente nulla. Nulla se pensiamo di poter conciliare il rifiuto dell’Europa a guida tedesca con il rilancio del capitalismo italiano. Possiamo, invece, fare qualcosa, e anche più di qualcosa, se partiamo non dal rilancio del capitalismo italiano, ma dal suo superamento, tesaurizzando pienamente, a tal fine, il suo stesso obiettivo arretramento di posizioni. Ciò significa che dovremmo spostare radicalmente il tema: dall’Europa alla trasformazione della società. La domanda giusta per noi non è cosa diciamo a proposito dell’Europa; ma è cosa diciamo a proposito del capitalismo in quanto tale.

E qui si apre il capitolo decisivo del discorso dell’alternativa: cosa significa, cosa può significare oggi, la prospettiva della “trasformazione rivoluzionaria”; sapendo che si tratta di una espressione sfregiata dall’uso largamente insensato, nella nostra storia, della parola “rivoluzione”, talvolta puramente declamata e tal’altra puramente ignorata e resa impronunciabile.

Il punto è riprendere il filo concreto dell’alternativa di società, attraverso una pratica politica che colleghi le concrete resistenze sul lavoro, sui diritti e sull’ambiente non ad un asettico “sviluppo economico”, bensì ad un autentico cambiamento di paradigma sociale. Il tema è di andare oltre la “produzione per il valore” e oltre la logica medesima dei “valori di scambio”; e di far vivere visivamente la “produzione per i bisogni” e la logica dei “valori d’uso”. Occorre cambiare, insomma, non le attuali relazioni tra Italia ed Europa, ma tanto l’Italia quanto l’Europa.

Come si fa? Non la si può risovere con un documento. Qui mi limito a dire soprattutto come “non si fa”. Non si fa con le semplici declamazioni, non si fa pensando ad una fantomatica “ora x”, non si fa neppure con una “lunga marcia attraverso le istituzioni”. Bisogna invece battersi per far avanzare un vero e proprio “dualismo di società”, per esempio valorizzando, in direzione della autorganizzazione sociale, l’insieme dei “presidi di civiltà” già potenzialmente esistenti, sia pure in forma ambigua, all’interno del sistema capitalistico: dalle produzioni realmente cooperative all’associazionismo autentico del terzo settore, dalla scuola pubblica al reticolo complesso dei servizi di cura, dalla struttura pubblica delle comunicazioni e del trasporto alla gestione statale dell’energia, delle infrastrutture e delle grandi aziende.

In altre parole, si può trasformare in senso rivoluzionario la società solo se un ampio blocco sociale, a carattere popolare, si mobilita ed avvia un contenzioso esplicito col sistema capitalistico sui diritti di piena “cittadinanza umana”; un contenzioso che metta al centro di tutte le attività sociali esattamente i corpi, i saperi, gli affetti, gli ambienti. Tale contenzioso, proprio per le sue caratteristiche, non potrebbe che avere, come sua “posta politica”, il capovolgimento di segno della stessa attività di lavoro, chiamata a definirsi non più in base ai “valori economici” ma, per l’appunto, in base ai “valori di civiltà”.

Ma noi, proprio noi che non siamo conciliati col capitalismo, arriveremo a concepire seriamente una tale prospettiva soltanto se ci convinceremo, noi per primi – e per convincercene dobbiamo riflettere e studiare molto più di quanto non facciamo normalmente -, che un cammino del genere è non semplicemente auspicabile, ma oggi persino realistico. Il primo passo da fare, tuttavia, è di tirarsi fuori subito, senza rimpianti, dalle frasi fatte e dalle rimasticature improduttive della cultura dominante.

 Napoli, ottobre 2013

 

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1 Commento


  • giancarlo staffo

    Si elude il problema che ogni possibile blocco sociale anticapitalista, per essere tale e non essere interno alla logica stessa del capitale finanziario che ha prodotto la crisi di sovrapproduzione di merci e capitali, si deve fondare sulla direzione di una linea di classe, che in pratica richiede ineludibilmente l’esistenza di un soggetto comunista rivoluzionario organizzato e radicato e nei settori proletari più conflittuali e senza nulla da perdere, solo su questa base ci si potrà rivolgere con una posizione egemone ad altre aeree sociali che la crisi capitalista sta espropriando di diritti vitali sociali e ed ambientali spingendole verso la disgregazione, la pauperizzazione che dovrà avere nella proletarizzazione il suo sbocco logico, combattendo e non alimentando illusioni di reinserimento selettivo meritocratico nel sistema neocorporativo.
    Ed oggi servono ancor meno percorsi ideologici soggettivisti ambigui e confusionari in cui le classi scompaiono con affermazioni del tipo “un contenzioso esplicito col sistema capitalistico sui diritti di piena “cittadinanza umana”; un contenzioso che metta al centro di tutte le attività sociali esattamente i corpi, i saperi, gli affetti, gli ambienti”.
    Concetti astratti idealistici e “moralisti” illusori, mentre dovrebbe essere ormai chiaro per chi si richiama al marxismo, che senza basi solide materialiste di classe sarebbe totalmente illusorio “far vivere visivamente la “produzione per i bisogni” e la logica dei “valori d’uso”.
    L’uso di simili concetti costituisce una conciliazione acritica, e incoerente e non dialettica mescolanza di elementi teorici di provenienza diversa e talvolta contraddittori nel tentativo gradualista di ricondurli pacificamente ad una linea comune. La diversità a vari gradi è comunque sempre contraddizione anche se non ancora antagonista, quindi va trattata di conseguenza con metodo unitario e critico

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