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Ambiguità ideologiche sui concetti di nazione e internazionalismo

Intorno al concetto di Nazione e – dunque – anche su quali azioni o risposte siano classificabili come nazionalistiche, spesso si è fatta confusione. A volte in buona fede, altre meno.

Che il proletariato non abbia nazione ma, in prospettiva, sia internazionalista e rivoluzionario è più uno slogan da corteo che una nozione scientifica del marxismo e ancor meno un dato di fatto. Va da sé che – come sempre in questi casi – la coppia nazionalismo/internazionalismo in mancanza di un adeguato approfondimento è letta più come antitesi meccanica che come opposizione dialettica. Il rischio è che la confusione e, quindi, l’incapacità politica nel determinare una rotta aumenti in conseguenza del ruolo nefasto dell’attuale Unione Europea e anche in mancanza di una sinistra e di un movimento comunista che, almeno, in Europa sia in grado di affrontare in modo coeso il problema. Basterebbe riprendere e rileggere gli scritti che Marx ed Engels (che di certo s’intendevano d’internazionalismo più di qualcuno!) dedicarono alla «rivoluzione italiana» per avere un corretto binario entro cui muoversi o – passando alla pratica rivoluzionaria – ricordare Lenin, Mao e la rivoluzione cubana o anche la funzione progressiva e anticoloniale del nazionalismo arabo. Così, per esempio scriveva Marx, nel novembre del 1849: «Finalmente, dopo sei mesi di sconfitte quasi ininterrotte della democrazia, dopo una serie dei più inauditi trionfi della controrivoluzione, finalmente appaiono di nuovo i sintomi di una prossima vittoria del partito rivoluzionario, L’Italia, il paese la cui sollevazione ha costituito il prologo della sollevazione europea del 1848, la cui caduta è stata il prologo della caduta di Vienna, l’Italia si solleva per la seconda volta. La Toscana ha ottenuto un ministero democratico, e Roma si è ora conquistato il suo. […] E mentre il nord dell’Europa è già ripiombato nella servitù del 1847, o difende faticosamente dalla controrivoluzione le conquiste dei primi mesi, l’Italia di nuovo improvvisamente si solleva. Livorno, la sola città italiana che dalla caduta di Milano è stata spronata ad una vittoriosa rivoluzione, Livorno ha finalmente comunicato il suo slancio democratico a tutta la Toscana, ha imposto un ministero decisamente democratico, più decisamente democratico di quel che non si sia mai avuto con una monarchia, e così decisamente democratico quale solo pochi se ne sono avuti con una qualsiasi repubblica; un ministero che, alla caduta di Vienna e al ristabilimento dell’Impero austriaco, risponde con la proclamazione dell’Assemblea costituente italiana. E l’incendio rivoluzionario, che questo ministero democratico ha acceso tra il popolo italiano, ha attecchito: a Roma il popolo, la Guardia nazionale e l’esercito sono insorti come un sol uomo, hanno abbattuto il ministero esitante, controrivoluzionario, hanno conquistato un ministero democratico. La prima rivendicazione soddisfatta è quella di un governo fondato sul principio della nazionalità italiana, cioè la partecipazione alla Costituente italiana proposta da Guerrazzi.»[1] E ancora Engels: «La guerra in Italia è incominciata. Con questa guerra la monarchia asburgica si è addossata un fardello sotto il quale probabilmente soccomberà.[2]» Che poi, col fascismo e con l’imperialismo, il nazionalismo (come aggressione e non come difesa della patria) sia diventato il pendant ideologico della volontà di rapina è anch’esso un fatto, ma non possiamo dimenticare che sia la Resistenza sia i processi di Decolonizzazione hanno difeso la nazione: ciò che fa la differenza è sempre la condizione reale.

Orfani del modello ma con un progetto nuovo e alternativo: l’area. Come scrivevamo prima nazione e internazionalismo vanno letti dialetticamente e non come antitesi meccanica. Tanto per Marx, quanto per Engels, la rivoluzione italiana parlava, infatti, non solo agli italiani ma a tutta l’Europa. Mentre oggi indicare un ipotetico esempio (modello) di rivoluzione italiana come sprone per l’intera classe lavoratrice europea sarebbe ovviamente vaniloquio (come anche però parlare d’Italia da un’angusta e inconcludente angolatura nazionale). Le cose cambiano – e di molto – se a indicare una prospettiva di rottura dell’Unione non è un singolo paese ma un’area (i PIGS) che, fatte sedimentare le debite forze, sappia mettere in crisi un progetto politico di restaurazione iniziato, in Europa, subito dopo il crollo dell’URSS. E se qualcuno dovesse temere che l’ipotesi di un’area alternativa all’eurozona possa incrinare la solidarietà internazionalistica all’interno della classe lavoratrice europea (sic!), basta rammentare quanto siano lavoratori con medesimi diritti quelli della sponda sud del mediterraneo che dallo sviluppo del colonialismo congiunto al Modo di Produzione Capitalista hanno pagato per primi il conto. D’altra parte – parafrasando Metternich – è l’Europa a costituire una pura espressione geografica e non, l’Italia, o la Grecia, o il Portogallo o la Spagna. E siamo all’oggi.

Quale Europa? Quasi. Winston Churchill nel famoso discorso, tenuto nello Stato del Missouri il 5 marzo del 1946, col quale per la prima volta fu utilizzata l’espressione “cortina di ferro”, sosteneva che quell’Europa egemonizzata, nell’area centro-orientale, dai comunisti, non era quella per cui si era fatta la guerra e invitava, dunque, ad aderire alla Carta delle Nazioni Unite. L’appello di Churcill fu accolto, l’anno successivo, dal presidente statunitense Truman che elaborò la ‘dottrina del contenimento’; ovvio che lo scoppio della guerra civile in Grecia e la crescente influenza dei comunisti orientò le scelte e affrettò i tempi di costruzione di un’Europa occidentale con certe caratteristiche. Come sottovalutare, infatti, che la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, espressione significativa di quella Carta delle Nazioni Unite di cui Churcill auspicava l’adesione con una chiara funzione, riconosceva il diritto d’asilo solo a certe condizioni.

Il problema è sempre politico; e anche la soluzione. Poi – logicamente e cronologicamente – venne il Piano Marshall. Noi, a differenza di Churcill invece, avremmo dovuto difendere con più convinzione quell’Europa frutto del compromesso contro la barbarie nazifascista e potenzialmente aperta a un divenire diverso. Mentre, per converso, è propria quest’Europa che non dobbiamo difendere: quella della gerarchizzazione della borghesia europea e del processo di costituzione di un nuovo polo imperialista. All’elaborazione di un’ideale europeista che ponesse all’ordine del giorno la necessità di una comune politica estera europea hanno contribuito in tanti, anche in tempi non sospetti. Eppure, rispetto ai più accesi e convinti fautori dell’Europa unita, che si proponevano l’impossibile obiettivo della piena integrazione economica e politica degli Stati del Vecchio continente, i governi nazionali hanno scelto la più pragmatica strada della continua promozione d’iniziative di coordinamento e di cooperazione sovranazionale circoscritte inizialmente al settore economico (come si evince chiaramente dal Trattato di Roma del 25 marzo 1957) ma, ormai, sempre più invasive rispetto agli assetti esecutivi di uno Stato che mantiene (formalmente) piena autonomia delle sue istituzioni giuridiche e politiche. La crisi della politica che, infatti, non riesce a svolgere nessun’altra funzione che quella di sostegno ai disegni della borghesia europea è il lascia-passare per una nuova forma di stato moderno europeo sempre meno politico e sempre più apparato.

Un nuovo blocco storico. Che con ben altre motivazioni dal qualunquismo e dal populismo leghista e neofascista, dunque, le forze anticapitaliste e comuniste ritrovino il coraggio di prospettare il ribaltamento del tavolo, ipotizzando un’area monetaria autonoma e alternativa alla dittatura di Mastricht attraverso un nuovo protagonismo di classe capace di lanciare la sfida per un nuovo blocco storico, è sicuramente una buona notizia da salutare con attenzione. Una proposta rivolta a tutti quelli che – a sinistra – guardano il mondo ancora da una prospettiva d’alternativa reale. E anche a nuovi possibili ‘compagni di strada’.

Il convegno di fine novembre promosso dalla Rete dei Comunisti il prossimo 30 novembre-1 dicembre a Roma, va sicuramente in questa direzione.   

* Rete dei Comunisti

 

 

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