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Dal 19 ottobre al 9 dicembre: non è una questione di date

La Grande Proletaria si è mossa.
… Benedetti, o morti per la Patria!
Voi non sapete che cosa siete per noi e per la Storia!
Non sapete che cosa vi debba l’Italia!…
Giovanni Pascoli

 

Cosa è accaduto il 9 dicembre ed i giorni successivi? Una rivoluzione? Con quale “merda” dovremmo insozzare le nostre già non propriamente linde mani? In effetti non è accaduto nulla di straordinario, se non un precedente, nulla di più di un debole escremento di colombo, ma procediamo con ordine.
Non essere stati in piazza non è certo un demerito, né una sconfitta, né tanto meno una miopia di un’analisi che non riesca a comprendere fenomeni sociali “eccedenti”; essere in piazza non è un evento estetico o, lo è solo allo specchio, piuttosto è una questione di posizionamento, di partigianeria. Estetizzare la presenza in piazza esprime uno svuotamento di densità politica e significativa in generale, significa accettare la compresenza di componenti qualsiasi, significa ricomporre non tanto la classe ma piuttosto la nozione di “popolo”, ovvero quel macchinario socio-politico che non può fare a meno del concetto di stato-nazione, di quel rapporto tra cittadinanza e stato che compone il popolo-tribù, in questo caso la tribù della Grande Proletaria italiana che produce la sua fittizia lotta di classe contro una fantomatica Germania, anch’essa uniforme, completamente borghese, guidata dalla Merkel. Per farla breve ci sarebbe un popolo le cui differenze di condizione e mezzi trovano la loro teologica unificazione e uniformità nella condivisione dei bisogni, uguali per tutti: gli italiani (meno che la “kasta”, s’intende).
Le giornate appena trascorse e non ancora concluse hanno, tuttavia, reintrodotto con forza, nel Movimento e non solo, la necessità di leggere la realtà sociale come sovrapposizione di blocchi d’interesse; in qualche modo il materialismo, ormai appannaggio di soli alcuni gruppi antagonisti, entra dalla porta di servizio per necessità, come unica lente in grado di leggere l’evolvere della storia: la nostra interpretazione si vuole muovere in questa direzione.
La composizione del frammento sociale che ha espresso la piazza del 9 dicembre è per lo più costituita (le eccezioni esistono, è chiaro) da quella piccola e media borghesia che, in regime di crisi, ha subito progressivamente un’espropriazione di potere politico (è quello che potrebbe definirsi “vuoto di rappresentanza” e che va a coincidere con l’odio per la kasta) e, soprattutto, di potere economico, a favore delle grandi oligarchie finanziarie. Ciò che questa mobilitazione rivendica è, forse, anche il primato dell’economia reale a sfavore di quella finanziaria senza che i meccanismi di funzionamento del capitale vengano minimamente minacciati, ovvero escludendo completamente dall’orizzonte critico concetti quali profitto e plusvalore, sfruttati e sfruttatori ecc… A nostro avviso, inoltre, la libertà e indipendenza anelate da tale frammento sociale non corrispondono unicamente ad un risentimento nei confronti del gerarchicamente superiore, ma sono rivolte anche ad una condizione di possibile degradazione sociale, ad un pericoloso scivolamento nella circostanza di salariato, precariato o, addirittura, disoccupazione. La piccola borghesia chiede oggi allo Stato di riconquistare le redini di novecentesca memoria e proteggerla da infiltrazioni di povertà che iniziano a corroderla dall’ interno, chiede di esorcizzare lo spauracchio del baratro proletario e questo fa di essa un blocco reazionario e fascisteggiante. Non è il capitalismo nella sua odierna pratica neoliberista a non funzionare, ma la non “etica” attuazione dello stesso; un corretto uso del capitalismo (e qui noi ci leggiamo un antiquato liberismo nazionale) sarebbe in grado di garantire la conservazione di piccoli e medi capitali, ovvero il diritto al consumo illimitato. Non è un caso, a nostro avviso, che alcune delle spinte che negli ultimi anni sono state in grado di praticare in questa penisola un reale contropotere (si pensi alle lotte politico-ambientali come il No Tav o quelle dei migranti) non trovino spazio tra le righe e gli slogan di questa fantomatica “rivoluzione”.
La piazza del 9 dicembre , ma non solo, decifra le istituzioni ed i suoi eserciti come quella tavola neutrale sopra cui è possibile scrivere qualsiasi storia, una sorta di piattaforma insostituibile, assoluta ed astorica che corona l’evoluzione della civiltà umana ed è patrimonio collettivo (italiano, in tal caso) da saper utilizzare; ma noi sappiamo bene che non è così, che ogni istituzione è il frutto di una determinata scelta storica della classe egemone, che è espressione di uno dei possibili scenari politici costituiti e costituibili, e lo ricordiamo. Ricordiamo Genova 2001, ricordiamo Carlo Giuliani, ricordiamo i lacrimogeni e le mazzate in Val di Susa, ricordiamo i fumogeni lanciati dalle finestre del ministero, le finestre, quelle aperte da cui cascano gli anarchici, ricordiamo i CIE, ricordiamo Rosarno e ricordiamo tanto altro, comprese le cariche della polizia alla Sapienza, oggi.
In strada noi ci vogliamo andare, ma dall’altra parte. Come nel resto della vita militante, essere “con” significa marciare affianco, essere “contro” significa marciare in opposizione. Le ambiguità, spesso sterile motivo di galvanizzazione degli animi, portano a sfilare in dubbiosa amalgama ingestibile col nemico di ieri e di domani. Ci chiediamo se si sottintende al miscuglio inedito una qualche speranza di evangeliche conversioni, ci rispondiamo che, condivisa un’analisi, l’azione deve esserle legata. La rivendicazione delle lotte va fatta, nel quotidiano e nella piazza, ma senza gettare alle ortiche la sudata comunanza d’intenti cumulata in decenni di faticoso ricamo. Al 19 ottobre ci siamo lasciati, e da lì si riparte.

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