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Coltivare il progresso, o le patate?

Ammettiamolo: ci piace coltivare, nonostante tutto, l’idea dell’evoluzione, lo troviamo consolante, pensare che secoli di storia abbiano impresso una svolta decisiva ai modelli di rappresentazione della socialità partecipata, che il semplice scorrere degli anni abbia innescato un contingente progresso dei diritti individuali e della tutela collettiva.

Insomma, dare alla linea unidirezionale del tempo – quella che poco a poco ci ha sottratto dal campo di patate per sbatterci nove ore al giorno chini davanti al pc – una qualche valenza positiva. Il feudalesimo, la corvée, lo ius primae noctis, la lunga lista di privilegi propri dei vassalli, valvassini e valvassori, resi pingui dalle rape e dal vino e dai maialini ammassati dietro le mura dei loro accoglienti castelli – sono immagini che appartengono al passato, a una qualche lontana epoca di ingiustizia e arretratezza, dove le posizioni di rendita di nobili e feudatari era sostanzialmente garantita dall’ignoranza di grandi masse di contadini rozzi e analfabeti, che si spezzavano la schiena ogni giorno per tornare alle loro capanne di fango e paglia, e coricarsi, nel peggiore dei casi, alle cinque del pomeriggio, allo scopo di risparmiare qualche centimetro di candela e sopravvivere al tramonto del giorno dopo.

Ma è nel modernissimo 2013 (a ridosso di un clima da Dopoguerra 2.0, e con il dovuto corredo di tagli e sacrifici, lo stanco ritornello dello spread e del rating) che apprendiamo – tra una gallery di BuzzFeed e l’ennesima vignetta di Bitstrips – come 4 milioni di persone (circa il 7% della popolazione) posseggano attualmente più di un terzo delle ricchezze (il 34%). Mentre allo stesso tempo fenomeni di povertà ed esclusione sociale si moltiplicano tutt’intorno, coinvolgendo il 29,9% della popolazione.

Lo apprendiamo seduti alle nostre scrivanie, circondati da connessioni wireless e riscaldamenti autonomi, rischiarati dalla luce di un monitor o di una lampada al neon, consolati dall’efficienza del nostro laptop e dalle mille applicazioni del nuovo iPhone. Simboli di un progresso impensabile neanche dieci anni fa, di un benessere equamente distribuito che – ce ne stiamo accorgendo troppo tardi – forse non ha nessun valore. Se non quello di convincerci che, pur non facendo parte di quel 7%, difficilmente ci ritroveremo a condividere l’ansia e la disperazione, la sfiducia e la rabbia che sembra ormai attanagliare ben un terzo della popolazione. Finché un giorno, in un qualche futuro, nei bilocali affittati in nero, sotto le coperte del posto letto che vale otto ore al giorno, per tutti i giorni della vita, con la rata del telefonino scaduta e la mora del gas che incombono sul comodino, ci accorgeremo che l’elettricità, l’acqua corrente, il nuovo modello di smartphone – insomma gli indizi sui cui l’intero occidente ha fondato la convinzione di essere migliorato nel tempo, i simboli e le comodità che testimoniano al mondo il nostro benessere e la nostra sostanziale fortuna saranno riservati al 7%.

Ci verrà il sospetto che questo progresso, in fondo, è una questione di forma. Ripenseremo a quei contadini, spegneremo la candela, andremo a letto presto.

 

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