La sera del 26 marzo, nell’affollata assemblea pubblica tenuta a Tortona sul tema della terra dei fuochi e dell’avvelenamento ambientale, avevamo appena fatto in tempo a parlare di Nicola Cosentino e delle sue prodezze campane. In questi giorni la mannaia della DDA di Napoli ha interrotto le attività della Aversana Petroli, Aversana Gas e Ip Service, società concessionarie di carburante nella zona compresa tra Casal di Principe e Villa di Briano, in piena terra ei fuochi. Tutte di proprietà della famiglia Cosentino.
Una buona notizia.
Un provvedimento tardivo.
E come quasi sempre accade, buone notizie di questo genere sono accompagnate da un retrogusto amaro, di rimpianto, si potrebbe dire di sconfitta. Vale la pena citare il giornalista del Fatto Quotidiano Nello Trocchia, autore di “Federalismo criminale” e attento osservatore dei fenomeni criminali campani: “La storia di Cosentino è la storia di come in questo paese, mentre arrestavano i macellai con il fucile, la camorra in doppio petto diventava classe dirigente”. I cinefili ricorderanno come nel “Padrino parte III”, Michael Corleone tentava di conquistare una credibilità politica tentando il salto nell’alta finanza, attraverso la frequentazione dei migliori salotti di New York. È l’episodio più sottovalutato dell’intera trilogia, forse il meno spettacolare e quindi il meno compreso. Eppure è il primo ritratto credibile della criminalità contemporanea, che da organizzazione paramilitare si trasformava in classe dirigente, intuendo che più che il sangue era conveniente spargere consenso politico ed elettorale.
L’ibridazione tra crimine e politica è stata per anni la cortina protettiva degli avvelenatori senza scrupoli, dei saccheggiatori di territorio. La cittadinanza stava a margine, e reagiva con un’indignazione tanto violenta quanto interiore, inascoltata.
Lo abbiamo detto, durante l’assemblea a Tortona. Se la Campania è diventata un’immensa discarica, è stato possibile solo con il tacito consenso della classe politica e dirigente, ormai non più distinguibile dalla criminalità organizzata, pervenuta nel frattempo a un livello elevatissimo di infiltrazione e sofisticazione da diventare irriconoscibile. Chi erano i camorristi e chi erano i politici? A un certo punto non è stato più possibile comprenderlo. Chi erano i corrotti e chi erano i corruttori? Le procure casertane e napoletane ci hanno messo trent’anni a decifrare l’enigma e a regolarsi di conseguenza.
Nel frattempo – qui sta l’amarezza – il disastro si era compiuto ed era diventato irreversibile. Le nostre terre erano diventate il regno dei senza legge, il far west della monnezza e del malaffare, dove ad uccidere non erano le pistole, ma le poltrone e le amministrazioni locali. Le montagne sono diventate monconi di roccia bianca visibili a chilometri di distanza, sgretolate da cavaioli senza scrupoli, anelli fondamentali, strategici, della filiera del cemento e dei rifiuti. Le campagne puzzavano di marcio, si formavano laghetti di percolato che a volte eruttava persino in piccoli geyser, tipo solfatare di Pozzuoli.
Arriva un momento in cui fare nomi e cognomi diventa un inutile esercizio di stile. Li conosciamo già da tempo, che imbracciassero kalashnikov o che indossassero completi da tremila euro. I primi spadroneggiavano lungo le nostre strade, scorrazzavano con macchinoni dai quali uscivano i ridicoli gargarismi dei neomelodici sparati a palla, e tutti sapevano che bisognava tenerli lontani, evitarli come si evita un’epidemia; i secondi riempivano le piazze durante infervorati comizi elettorali, e si spendevano in grandi esercizi di oratoria. Erano tutti amici, compari d’anello, familiari, si abboffavano insieme di cibo e soldi, si spartivano le nostre vite. Per trent’anni è andata così. E oggi non possiamo che limitarci a fare la conta dei danni, piangere i malati e i morti, fotografare l’orrenda realtà che ci hanno consegnato.
È tardi. Coloro che ricoprivano ruoli istituzionali e avrebbero dovuto svolgere funzioni di vigilanza e prevenzione, erano i primi corrotti, i primi responsabili. L’unico antidoto – l’unica scelta – che abbiamo avuto per anni, nel casertano e nel napoletano, era l’odio per questa gente, un odio pronto a esplodere ma che non è mai dilagato in furia rivoluzionaria. Un disprezzo totale, incondizionato, incrollabile, che solo oggi forse riusciremo a trasformare in lotta. Lotta da esportare in altri luoghi a rischio. In Val di Susa, in Sicilia, in Calabria, in Puglia, in Abruzzo. Ovunque sia necessario, considerandolo un preciso DOVERE.
A Tortona, con Antonella, Daniela, Enzo, con tutti i pionieri del movimento NoTav Terzo Valico – così giovane ma già così energico e organizzato – abbiamo contemplato la bellezza semplice delle campagne e delle colline intorno a Alessandria, nonché delle aree che saranno interessate dai lavori dell’alta velocità. La logica corrosiva dell’imprenditorialità mira a trasformare le zone individuate per i lavori, nell’ennesimo gigantesco cantiere. Ancora una volta, si vuole monetizzare il territorio in tutti i modi possibili, dietro il paravento di una legalità artificiale, malleabile, modificabile secondo le esigenze e le opportunità. Ancora una volta si vuol creare ad arte la linea invisibile che divide le legittime richieste della base, dei cittadini, dalla rapacità cieca e sorda di politici e imprenditori. Sta accadendo a Tortona, dove i colossali interessi dell’alta velocità si miscelano esplosivamente con i possibili profitti legati alle cave di estrazione, alla movimentazione della terra, agli scarti di lavorazione e a chissà cos’altro. Lo scenario che potrebbe conseguirne è allarmante. I primi segnali di contaminazione criminale sono già arrivati. Basti un esempio su tutti, raccontato durante la serata del 26 marzo, quello di un attivista NoTav minacciato in dialetto calabrese da un camionista: “al paese mio quelli come te finiscono sottoterra”. Quali altri segnali servono, quali altri allarmi devono suonare?
I rischi sono elevatissimi, ma la massa nera di questa grande opera che rischia di centrifugare interessi illeciti di ogni tipo non si è ancora allargata al punto da divenire inarrestabile. C’è l’occasione unica di arrestare questa nuova corsa all’oro o quanto meno di ricollocarla sui binari della trasparenza e della legalità, quella vera, non tardiva né relativa.
In questo senso la parola chiave è “CONTROLLO”.
Le carenze amministrative vanno compensate con l’efficienza della protesta e del movimento di opposizione. Bisogna tenere gli occhi spalancati, stare con il fiato sul collo alle istituzioni, restare compatti e uniti, aumentare di numero con un’informazione corretta e coinvolgente. Perché si fa ancora in tempo ad arrestare ciò che fra trent’anni potrebbe diventare irreversibile. Sta accadendo ora, ed è ora che bisogna agire. Per non ripetere gli stessi errori che abbiamo commesso giù nelle nostre terre, per paura, per vigliaccheria, per senso di resa, per l’incapacità di aggregarci.
I NoTav invece sanno cosa significa lottare insieme, senza divisioni, senza lotte intestine. Ed è questo il più grande insegnamento che consegnano alla società, la più grande eredità politica con la quale scrivere il futuro di ogni lotta.
Con queste righe, mi unisco alla chiamata per la marcia popolare di domani, sabato 5 aprile ad Arquata Scrivia.
* http://www.notavterzovalico.info
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