Apprezzo tutti gli sforzi dei compagni di interpretare quanto accaduto a Roma sabato sera, in occasione della finale di Coppa Italia. E non vorrei nemmeno intervenire per mettere insieme quelli che, a me almeno, sembrano quasi dei dati di fatto.
Intanto: cosa è diventato il calcio col suo seguito di tifo organizzato? Non riesco sinceramente a vedere altro che una variopinta schiera di consumatori fidelizzati di uno spettacolo che ha per protagoniste alcune aziende più o meno capaci di produrre profitti. Un “campanilismo coatto” – nel doppio senso, scontato, che ognuno può leggere – che appare nemmeno troppo in trasparenza come un invito a condividere e aumentare la “competitività” dell’azienda stessa. Un invito assolutamente simile a quello che viene rivolto, spesso alle stesse persone in veste di lavoratori, a “sentirsi sulla stessa barca” dell’azienda per cui si fatica, a “competere” con la concorrenza. Fiat contro Volkswagen o Ford, Telecom contro Vodafone o Wind, e via esemplificando.
Pretendo di non essere “frainteso”. Non mi sfugge affatto che – vista “dal basso”, dalle singole soggettività o dalle micro-comunità aggregate sul territorio – la partecipazione ai riti del tifo sia un modo di manifestare sogni di riscatto, passioni, ansia di appartenenza, produzione di culture popolari anche molto vive e letterariamente salaci. Né ignoro che questa passione comporti dei costi pesanti per chi vi partecipa (abbonamenti, viaggi, rischi fisici e legali, ecc), tali da rendere addirittura “eroica” l’adesione. Così come so che le strategie repressive di uno Stato per altri aspetti inesistente hanno spesso preso di mira le curve come “laboratorio” di sperimentazione dal vivo.
Ma “il manico” non viene tenuto da chi sta nella padella. Ci sono delle aziende di un comparto produttivo preciso che impiegano professionisti di livello internazionale – ormai quasi tutti molto bravi, atleti che molto sinceramente ammiro – e catalizzano queste passioni, fornendo obiettivi di identificazione (vittorie, trofei, ecc), merchandising, ideologia “easy”, “sponde” giornalistiche-politiche-imprenditoriali, un minimo o un massimo di “indotto” (dalla gestione del merchandising a quello delle sostanze stupefacenti).
In primo luogo, insomma, vendono identità a persone, figure sociali, strati che non l’hanno mai avuta o la stanno perdendo. Ed è un’identità vissuta addirittura come “conflittuale” perché competitiva con altre assolutamente identiche o speculari. Vendono, in altri termini, un validissimo sostituto del nemico (sociale o politico) contro cui scaricare tutti i malesseri creati da una condizione sociale decisamente critica, carica di pericoli fisicamente avvertibili ma di assolutamente indecifrabile origine. Se il nemico vero è pressoché invisibile, o comunque inarrivabile – l’Unione Europea, le multinazionali, i mercati finanziari – è relativamente semplice far “ripiegare” le frustrazioni su quello che ti sta più vicino. Chiedere alla Lega o ai vari Lepen per averne una dimostrazione.
Il fatto empirico che siano identità “campanilistiche” assicura tra l’altro un altissimo grado di conflittualità inter-identitaria, cui a volte – spesso, ma non sempre – si sovrappone il meta-conflitto con la polizia e le altre “forze dell’ordine”.
Superfluo rifare qui il paragone con la “religione oppio dei popoli”, perché i tratti di similitudine sono certamente molti, ma uno sicuramente non c’è: l’universalismo. La religione di appartenenza certamente “compete” con tutte le altre, ma come quelle pretende di essere valida per tutta l’umanità. Fanno eccezione le religioni dei presunti “popoli eletti”, quelli secondo cui l’unico dio non parla a tutti gli uomini, ma soltanto al “proprio” popolo. Proprietà privata ante litteram, anche nell’immaginario spirituale…
Nel tifo – organizzato o meno – “l’altro” è invece necessario. Può essere disprezzato, deriso, offeso e bastonato. Ma non eliminato né redento. La prossima partita pretende un avversario. Da battere, naturalmente, ma ci deve essere. Non c’è alcuna palingenesi o “terra promessa” alla fine della competizione. Qualsiasi coppa varrà per una notte o al massimo per un anno. A settembre, in ogni caso, si ricomincia.
La “competitività” è insomma qui introiettata come non solo inevitabile, ma come il sale della vita, elemento “naturale” che esclude qualsiasi cooperazione (tranne, appunto, quella occasionale contro le polizie, semplice braccio armato del potere). Si può inveire contro i dirigenti “tirchi” della propria azienda di riferimento, o con la superiore capacità truffaldina dei dirigenti avversari (mitica la “Rubentus”, ormai), o ancora con lo scarso impegno/talento dei “propri” idoli/dipendenti.
Basterebbe questo a dare una cifra perennemente subordinata dell’”autorganizzazione” più o meno spontanea del tifo. Subordinata e non conflittuale con alcuna scelta del potere, se non il mugugno di un momento quando sia dimostrata – o immaginata – una complicità del potere “terzo” (arbitrale in senso stretto, dalla Lega Calcio ai singoli direttori di gara) con l’avversario di turno.
È dai tempi di “Ultrà” (il film) che si analizza il tifo calcistico – e non solo questo – come sostituto identitario del conflitto politico, se non altro a livello giovanile. Il processo reale è andato più veloce e più in profondità dei suoi analisti. Oggi come allora le frange politicizzate del tifo sono raramente palesi (Livorno sugli scudi, in questo ambito), quasi sempre scuole di formazione “coperte”, in maschera, prevalentemente di destra, a caccia di “talenti” da riutilizzare in altri campi.
Le facce di Renzi, Grasso, De Laurentis, Della Valle – sabato sera – esprimevano compiutamente la preoccupazione per le sorti di un business dai tanti risvolti governamentali “positivi” per chi comanda davvero. Ma nessuna incertezza su chi fosse il manovratore, su chi tenga il manico della padella. E gli annunci di oggi – daspo a vita, spese di polizia a carico delle società, più arresti, denunce, galera, ecc – sono la puntuale giravolta di immagine di una classe dirigente impotente davanti agli eventi, ma estremamente vendicativa sul piano legislativo. Né può sfuggire come la tragedia del sabato sera romano sia tornata utilissima per restituire alle “forze dell’ordine” quell’aura sacrale che “zainetti umani” e applausi agli assassini di Federico Aldrovandi avevano intaccato.
Dall’altra parte la sceneggiata della “rappresentanza deviata” e deviante. Nella forma masaniello (Genny a’ carogna) o in quella “killer dei poveri” (il fascista De Santis). Se non ci fosse la vita di Ciro Esposito in ballo, ci sarebbe da scrivere un bel saggio su come si gestisce il potere nel capitalismo metropolitano nella crisi. Non sociologico. Semmai storico, rispolverando “le fazioni del Circo di Costantinopoli” e la loro utilità per la stabilità del potere.
Del resto è nella natura del “tifo” l’accettare le regole del gioco e sperare nel successo altrui. Al contrario, si cambia qualcosa solo se siamo noi a giocare – tutti nella stessa squadra – la nostra partita.
dal blog Tempo Reale
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