A chi i soldi? “A noi”, gridano gli industriali per penna del loro presidente, Giorgio Squinzi. I soldi sono i 10 miliardi che il governo Renzi è pronto a scovare – grazie ai tagli sicuri della “spending review” e agli introiti altamente insiscuri del “rientro dei capitali dall’estero” – per ridurre “in modo sostanzioso” (appena il 2%…) il cosiddetto cuneo fiscale. Ovvero la differenza tra la retribuzione netta e quella lorda in busta paga. Differenza che è fatta di tasse (Irpef, imposte locali) e contributi previdenziali (Inps, ma anche l’accantonamento del Tfr, liquidità che resta in azienda).
Avevamo spiegato l’altro giorno che quri 10 miliardi possono essere suddivisi in molti modi: a) tutti ai salari dei lavoratori, così crescono i consumi e la domanda anche per le imprese; b) tutti agli industriali, che poi decidono che farci; c) un po’ qui e un po’ là, senza grandi effetti sul sistema.
Renzi si era detto “non interessato al derby tra imprese e sindacati” sulla spartizione. Ma ora deve fare i conti con la richiesta esplicita e dettagliata degli industriali, che li chiedono tutti per sé. L’argomento è antico, anche se provatamente falso: “se li date a noi aumenteremo l’occupazione”. Falso perché un’impresa qualsiasi assume se ha bisogno di altra manodopera per coprire “la domanda” ipotizzabile o già in essere (ordinativi); non se semplicemente un dipendente costa meno di prima.
Al contrario, chi guadagana poco e non arriva alla fine del mese, anche quegli eventuali pochi euro in più (da 50 a 80, secondo le stime più ottimistiche) non potrà fare a meno di spenderli, alimentando il circuito economico.
In ogni caso, la quantità di risorse da impegnare non ha alcuna possibilità di dare “una spinta alla crescita”. Il Pil italiano annuo, pur ridotto del 10% rispetto al 2007 (prima della crisi), resta comunque intorno ai 1.500 miliardi annui. E infatti, quasi senza misurare la gravità delle sue parole, Squinzi contesta apertamente chi – tutti i governi degli ultimi sette anni – continua a ripetere che “la crisi è finita”.
L’elenco delle richieste, al solito, è onnivoro e autoreferenziale.
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Caro direttore, molti vorrebbero farci credere che siamo fuori dalla crisi. Personalmente sono abituato a dire le cose che penso e a farlo in modo diretto. È vero, i numeri sembrano migliori di qualche trimestre fa, ma di crescita vera e propria non possiamo ancora parlare. La ripresa, se viaggerà a questi ritmi, sarà purtroppo lentissima. Per crescere sul serio e stabilmente nel tempo dobbiamo fare poche cose ed efficaci.
Cresceremo se il costo delle nostre imprese sarà confrontabile con quello dei nostri diretti concorrenti. Non entro sulle tante voci che paghiamo più degli altri. Mi concentro su una sola questione del dibattito di questi giorni. Da tempo diciamo che occorre intervenire in maniera seria sul cuneo fiscale, perché quello è il fattore che più ci penalizza rispetto alle economie avanzate. Più di 35 punti di svantaggio competitivo rispetto alla Germania sono un abisso che non possiamo pensare di colmare facendo leva sempre sulla nostra creatività e fantasia.
Un miglioramento di competitività di costo si tradurrebbe immediatamente in effetti positivi sia sull’occupazione, sia sulla competitività d’impresa. È strutturale, agisce in profondità. Non si tratta di una misura fatta per gli imprenditori: non siamo iscritti al club Irap o Irpef. Siamo da tempo convinti che la questione chiave è la riduzione del cuneo pagato dalle aziende. Ridurlo vorrebbe dire venire incontro a chi produce e genera valore in Italia, allo sforzo di chi crede nel nostro Paese. La riduzione del costo del lavoro agirebbe in favore degli occupati e di chi un lavoro purtroppo oggi non ce l’ha, ma lo avrebbe se il suo costo gravasse meno sul bilancio delle imprese.
Sarebbe interessante chiedere agli italiani se vogliono un lavoro o qualche decina di euro in più in tasca. Sarebbe interessante stimare quante delle crisi industriali che stiamo affrontando sono crisi generate da costi eccessivi.
Cresceremo se le regole del fare impresa saranno poche, rigorose e comprensibili. Lo dico da tempo: attenti ad affidarsi solo agli slogan, alle scorciatoie facili da enunciare, quanto difficili, lunghe e costose da praticare. Sul lavoro non cediamo alla tentazione di introdurre nuove forme contrattuali aggiuntive. Rendiamo più chiare, semplici e flessibili quelle esistenti, all’ingresso come all’uscita dell’occupazione. Togliamo i pesi e le complicazioni inutili della riforma Fornero e avremo più lavoro.
La parola d’ordine è ridare competitività al Paese e alle sue imprese. Mille cose si possono fare e tante sono le ricette proposte. Tutte hanno una loro legittimità. Ma, mi spiace dirlo, non è tempo per perdersi in esperimenti. Sono lussi che non ci possiamo permettere. Abbiamo perso decine di migliaia di imprese, milioni di posti di lavoro, un quarto della produzione industriale. Numeri da brivido. Occorrono poche scelte chiare, decise e dritte all’obiettivo. Il lavoro deve costare come negli altri Paesi, quindi molto meno. Le regole devono essere semplici come quelle della migliore Europa. Bisogna pagare ciò che si acquista. Non è un regalo o un incentivo. È dovuto. Il Paese si è retto in questi durissimi anni sulle spalle di chi è andato a cercarsi per il mondo nuovi mercati. Abbiamo bisogno di una scossa forte che ci dia fiducia per continuare. Alla politica il difficile compito di scegliere. Un cosa però deve essere chiara: senza impresa non c’è crescita, non c’è lavoro, non c’è Italia.
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