I dati della seconda “trimestrale” ISTAT del 2014 hanno provocato il panico tra gli operatori finanziari (Milano ha perso quasi il 3%), lasciati sgomenti la gran parte delle cittadine e dei cittadini di questo Paese salvo quelli appartenenti al nuovo “cerchio magico” del potere che hanno reagito proseguendo nei loro propagandistici proclami riguardanti “le riforme” accompagnati dal coro belante degli operatori giornalistici, carta stampata e TV, tutti impegnati nella ricerca di un proprio personale “posto al sole” nel nuovo costruendo regime.
Flebili e scarse le voci di contrasto: non parliamo del Parlamento, i cui componenti appaiono impegnati esclusivamente nell’affossamento definitivo del proprio ruolo e delle proprie prerogative scavando, tutti assieme definitivamente la fossa alla Costituzione Repubblicana.
Andiamo però per ordine: prima di tutto, se si vuol ragionare seriamente, è necessario guardare oltre il nostro orizzonte, verso l’Europa.
Riflettere sull’Europa deve però significare non fermarsi alla solita litania del dominio della BCE, dell’imposizione dell’austerità, del ruolo della Germania, della troika, del fiscal compact, del two-pack e quant’altro: riflettere sull’Europa deve significare andare sul serio al cuore del problema, che è quello della democrazia.
Nella situazione italiana, infatti, questa volta la “politica” ha preso il sopravvento sull’economia: su questo fatto l’Europa non soltanto assiste ma è promotrice.
Si sta tentando, infatti, come in Ungheria con la “democrazia illiberale” di Orban, un esperimento di limitazione della democrazia in un grande Paese come l’Italia: insieme si sta tracciando la strada della miseria per la gran parte del popolo e della dittatura di un “ceto politico” trasversale per origini, che crede di aver trovato il Renzi il soggetto personalizzante come serve in regime mediatico come quello che s’intende costruire.
Una dittatura a-militare, di tipo salazarista: come del resto si era giù intuito al tempo della formazione del governo Monti, novembre 2011, avvenuta nella sostanziale disattenzione delle norme costituzionali da parte del presidente Napolitano.
E’ necessario, per chi intendesse praticare il benefico (mai come in questo momento) esercizio politico dell’opposizione che di questo si tratta e non di altro : miseria e dittatura.
Opposizione che non fa nessuno: l’inanità di gran parte dei deputati del PD appare – per certi versi – stupefacente essendo stati questi in gran parte eletti per rappresentare un disegno tutto sommato diverso mentre l’atteggiamento di SeL, al di là dei proclami verbali, può ben essere giudicato, con una punta di benevolenza, come una sorta di “collaborazionismo”.
Il M5S sta praticando una sorta di “connivenza” posta su due piani: il primo quello parlamentare, laddove la scelta dell’Aventino in Senato non è servita ad altro che a spianare la strada ai disegni liberticidi del governo; il secondo nel Paese, laddove la situazione richiederebbero una presenza costante di raccolta del dissenso e di sua sintetizzazione in lotta sociale continua e dove ,invece, il M5S è clamorosamente assente. Non c’è uno straccio di iniziativa, non c’è un Grillo sulle piazze: è questo il vero fallimento del M5S, altro che quello dell’’incapacità di realizzare risultati sul piano parlamentare, come denunciava ieri Antonio Polito sulle colonne del “Corriere della Sera”.
Ma soprattutto stupisce e addolora la posizione della CGIL, verbalmente rimasta all’opposizione, ma del tutto incapace a proporre una qualche forma di mobilitazione di massa, Agosto e non Agosto.
E’ questo un momento dirimente nella storia d’Italia: un momento che vale il 1922 quando alla fine si consentì al fascismo di passare o il 1960 quando la mobilitazione popolare partì, quasi spontanea, da una grande città operaia come Genova in risposta ad una clamorosa provocazione fascista ma partiti e sindacati seppero organizzarla, portarla avanti, trovare una soluzione politica alternativa.
Ancor di più di quella della CGIL stupisce e addolora la neghittosità e l’insipienza dei gruppi dirigenti di quella che fu la cosiddetta sinistra “radicale”, quella che diede vita al disastro dell’Arcobaleno nel 2008 seguito all’improvvida e devastante scelta “governista”.
Chiamiamo, allora, le cose con il loro nome: PRC e PdCI non esistono sulla scena sociale e politica del Paese, gli esponenti borghesi della lista Tsipras (che sono quelli che ne condizionano l’azione) sono parte dell’idea di una “Altra Europa” che poi sarebbe alla fine il volto “buonista” di “Questa Europa” e paiono non aver alcun interesse a intervenire sui temi nazionali (preferiscono scrivere di “Un marziano a Bruxelles”, da parte di altri soggetti come Ross@ si preferisce rifugiarsi nel tatticismo delle “compatibilità” tra piccoli gruppi in funzione autoreferenziale per se stessi da parte di alcuni “dirigenti”.
Manca prima ancora della qualità politica il coraggio: il coraggio di guardare in faccia la realtà, rendersi conto davvero di quanto sia tragica e difficile, di quanto richieda – subito – organizzare e strutturare politicamente con un’azione costante, continuativa, presente sul territorio e nell’arena politica protesta e disagio sociale.
Organizzare, insomma, come si diceva una volta “una massa critica”.
Si giudicano le forze a disposizione insufficienti?
Se questo ragionamento fosse stato fatto in altre occasioni storiche, che non è il caso di richiamare ma che tutti abbiamo ben presenti, il movimento operaio sarebbe fermo alle sopraffazioni della prima rivoluzione industriale: siccome è lì che ci vogliono ricacciare, come condizioni materiali di vita e come possibilità di azione politica, sarebbe il caso finalmente di prenderne atto e di agire di conseguenza.
La sinistra “radicale” italiana, invece di guardare a improbabili modelli (non passa giorno che sui vari blog ci siano riferimenti a Syriza o alla Linke) dovrebbe provare a uscire dai mali di cui soffrono i propri residui gruppi dirigenti: appunto neghittosità e insipienza.
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