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Napoli sotto attacco nella partita tra Europa neoliberale e italietta delle grandi opere

Dopo gli interventi di Michele Franco, Franco Maranta, Antonio Frattasi, Geppino Aragno e Sinistra Anticapitalista pubblichiamo un intervento dei compagni di Zero 81.

 

Napoli sotto attacco nella partita decisiva tra l’Europa neoliberale e l’italietta delle grandi opere bloccate

A cura dei compagni di Zero 81 – Napoli

Sotto attacco dell’idiozia

L’omicidio di Davide Bifolco, quello di Ciro Esposito, la cronaca, la sociologia, le inchieste televisive sul caffè e la pizza; il commissariamento di Bagnoli, la sospensione di De Magistris, la criminalizzazione dei movimenti sociali, dai disoccupati agli studenti passando per gli spazi sociali, la retorica sulla legalità; gli editoriali del Corriere del Mezzogiorno, de Il Mattino. Uniamo i puntini, leggiamo il disegno: Napoli, la nostra città, è sotto attacco.

Non si tratta di un complotto, ma di una scomposta strategia di restaurazione. I protagonisti sono noti: i poteri forti, i costruttori, i gruppi editoriali, le fondazioni, i baronati accademici, le lobby delle discariche e degli inceneritori, le associazioni di categorie del commercio e dell’industria, i partiti politici – il PD, Bassolino e il vecchio “carrozzone” del centrosinistra campano, e le destre, da un lato quelle in giacca e cravatta, istituzionali, dirigenziali e di governo, e le “destre sociali”, i fascisti, i mazzieri, la mano manovrata e corrotta del potere costituito, dall’altro –, infine “l’armata dei sonnambuli”: quella massa di cittadini delusi, disorientati, vittime della loro stessa condizione e delle passioni tristi che si porta dietro.

In questo scenario prendono posto gli opportunismi di sorta: pezzi di ceto politico in cerca di ricollocazione e di riciclaggio, blocchi sociali organizzati attraverso le vecchie strategie dei privilegi, delle promesse dei “posti di lavoro”, delle “corsie preferenziali”.

Di fronte a tutto ciò sarebbe troppo stupido o troppo pavido, non dare una chiave di lettura, prendendo posizione ed assumendosene la responsabilità.

 

  Sblocca-Italia e riforma del mercato del lavoro: il prezzo da pagare per la chimera della “crescita”

Come laboratorio politico con le radici nei movimenti sociali e nelle lotte di questa città sentiamo il dovere di prendere parola, focalizzandoci su un piano che parli degli equilibri politici, economici e sociali che segnano le coordinate della ristrutturazione della governance europea imposta attraverso la crisi, le ricette di austerity ed il mandato senza legittimazione popolare assegnato al governo Renzi. Un piano che non noi, dunque, ma i poteri costituiti, hanno selezionato come il campo di battaglia per una partita dal rilievo nazionale e non solo. Il mandato al Governo Renzi dovrà presto essere messo a verifica dall’Europa stessa, assumendo come banco di prova i due corni dell’iniziativa governativa: la riforma del mercato del lavoro e il decreto blocca-Italia. Clausole necessarie per liberare l’Italia da numerosi ricatti: uno tra i vari, il lascia-passare ai 110 miliardi di fondi strutturali stanziati per il ciclo 2014-2020.

Questa partita riguarda ovviamente i rapporti di forza dentro un nuovo regime di accumulazione e di sfruttamento – che essi chiamano la “crescita” – e che vede coinvolti i territori, l’ambiente, il lavoro, le energie, le competenze, la dignità delle presenti e future generazioni. In questa partita gli apparati dello Stato e i livelli della governance – amministrazioni locali, comuni, regioni – che hanno già costituito i dispositivi di garanzia dell’attuazione delle politiche di austerità, del fiscal compact, del patto di stabilità, delle privatizzazioni, dello sfruttamento dei territori e dell’ambiente e della chiusura degli spazi di agibilità politica e di democrazia aperti dai movimenti sociali, rappresentano i nodi in cui si misurerà, (talvolta apparentemente, talvolta realmente) nella geometria di questi rapporti di forza, quello che si potrà o non si potrà fare per difendere gli interessi dei poteri costituiti o  la dignità di milioni di persone che continuano a pagare la crisi.

 

Napoli, lo stato d’eccezione e il governo dei subalterni

Napoli è storicamente una città dalle contraddizioni sociali enormi ed infinitamente complesse. Non sfugge un dato: dall’occupazione militare nazifascista all’epidemia del colera del ’73, dalla stagione post terremoto dell’80 all’infinito commissariamento straordinario della gestione dei rifiuti, la storia c’insegna che la militarizzazione del territorio e i dispositivi di gestione emergenziale sono stati la strategia ricorsiva del governo e del controllo di queste contraddizioni laddove gli strumenti ordinari, fintamente democratici o addirittura progressisti, fallivano o venivano prontamente riassorbiti dall’iniziativa dei poteri forti tradizionali. È la storia della nostra città, la storia della subalternità imposta come regime, con tutto il portato di razzismo, neocolonialismo e corruzione che trascina con sé.

È la maledizione delle rivoluzioni fallite, un altro ricorso storico: il ritorno di spinte progressiste e giacobine, spesso sincere e potenti, di trasformazione sociale e di innovazione, di emancipazione e di egualitarismo, incapaci però di costruire i nessi forti con la pancia della città, il sottoproletariato, la “plebe” e i “lazzari”, le classi subalterne, gli abitanti dei quartieri popolari, finendo per divenire ogni volta ventre molle, condizione passiva della capacità dei poteri tradizionali di riorganizzare la restaurazione. Dalla rivoluzione del 1799 a quella “arancione” del 2011 non è cambiato molto.

Ma andiamo con ordine, ricostruendo alcuni passaggi significativi delle ultime settimane.

 

 Il teatro triste delle marionette fasciste

Partiamo dalle cose piu semplici, dalla vicenda in cui il silenzio di quel pezzo di paese sinceramente democratico risulta più imbarazzante: la sceneggiata dell’aggressione fascista orchestrata dai loschi individui della destra sociale napoletana come Lezzi e Laboccetta ai danni del sindaco De Magistris. Quest’episodio, lungi dall’essere figlio di un attacco alla “rotta rivoluzionaria” del sindaco, è la cartina di tornasole di un processo preoccupante che sta attraversando il nostro paese: l’accreditamento di una nuova capacità di iniziativa dei fascisti. Non è affatto sorprendente in tempo di crisi e restaurazioni, e ne sono spia evidente altre vicende fuori da qualsiasi principio democratico che hanno preso corpo e spazio negli ultimi giorni: le sentinelle in piedi, il Mos Maiorum, infine la chiamata nazionale in piazza di Forza Nuova e Lega Nord e la vergognosa gestione dell’ordine pubblico da parte delle Questure (iper-protezione dei fascisti, aggressione fisica, psicologica e militare alle manifestazioni di dissenso del vasto panorama antifascista di questo paese). A fronte di questo processo in cui alcuni blocchi di potere si spingono in avanti, non solo i sinceri democratici sono spariti, ma dobbiamo tragicamente registrare anche la morte terminale di una società civile capace di indignarsi dinanzi alla violazione così evidente e sfacciata dei principi fondativi della propria storia e dell’ordinamento costituito cui questa fa fede in favore di una società sempre più razzista, reazionaria e fascista.

 

Toghe, editoriali e sponsor: lo spazio stretto dei movimenti tra crisi, rifiuto della rappresentanza e democrazia

La sceneggiata di Lezzi e Laboccetta, d’altro canto, è servita ai poteri forti, come la storia vuole, come mezzo per misurare l’isolamento politico del primo cittadino. Qui ci addentriamo in una vicenda più complicata, sulla quale non abbiamo difficoltà di sorta a prendere parola. La nostra posizione è sempre stata chiara e trasparente: le istituzioni sono una cosa, i movimenti un’altra,  anche quando le strade si incrociano.

La sospensione a orologeria del sindaco e la campagna mediatica contro il suo operato, non ci lasciano di certo sorpresi. Non scopriamo certo oggi l’uso politico della magistratura, anzi, il rapporto decisamente malsano che esiste in questo paese tra politica e magistratura è stato negli anni alimentato proprio da quella retorica legalitaria della sinistra che lo stesso De Magistris ha ben incarnato, prima da magistrato prima, poi da sindaco. Una concezione che ha costruito gradualmente un gap sempre più profondo tra legalità e giustizia, o meglio, tra legalità formale e giustizia sociale. Una concezione che ha distrutto la sinistra istituzionale di questo paese e che funge da punto di offensiva costante nei confronti dei movimenti sociali e della loro agibilità.

Nella più classica delle tragicommedie napoletane, il sindaco, ultimo giacobino senza popolo della storia di questa terra, finisce nelle maglie di un sistema e di una retorica che alcuni anni fa lo avevano portato al governo della città, ben oltre le sue capacità e potenzialità.

All’alba del primo turno elettorale individuammo nel sindaco la capacità di aver incarnato quel bisogno di trasformazione di una città stanca delle destre e delle sinistre campane criminali e affariste e nei movimenti la responsabilità di agire gli spazi politici del conflitto sociale, affinché il bisogno di cambiamento non venisse travolto da ventate reazionarie.

La storia è andata avanti in maniera anche più tristemente semplice: il sindaco non si è mai posto il problema di costruire un blocco sociale vero per trasformare i rapporti sociali in città e così gli spauracchi della rivoluzione e della partecipazione sono durati pochissimo. La giunta arancione è andata avanti per opportunismi, ambiguità, scambi ed epurazioni.  In particolare, il Sindaco non ha mai mostrato interesse a costruire un rapporto vero con i movimenti e con le istanze sociali provenienti dalle lotte, attestandosi comodamente sul rapporto politico e sugli scambi clientelari con chi di essi si era auto-eletto rappresentate sino a quando la partita non è stata più credibile ed è tornato a casa, riciclandosi ancora una volta e re-inventandosi “movimento” senza affrontare mai un chiarimento pubblico di discussione o di autocritica. Il tutto a danno proprio dei movimenti sociali: della loro autonomia, legittimità e credibilità.

Il sindaco è andato avanti per anni sulla spinta del suo ego e della sua presunzione, assestando colpi a destra e sinistra (Narducci, Realfonzo, il bluff di ABC e della raccolta differenziata) senza dare le gambe ad un cambiamento vero mentre dall’interno veniva contrastato da una macchina comunale e dai sindacati confederali legati ai vecchi blocchi di potere. A completare il quadro una schiera di consiglieri eletti con 300 voti, pronti a cambiare casacca appena l’aria si fosse fatta preoccupante. L’ultima imbarazzante operazione di Rinaldi, Vasquez e D’Angelo dà la misura esatta di questo processo.

Tutto questo non c’impedisce di vedere come l’esperienza di governo della giunta De Magistris abbia rappresentato comunque un argine (o almeno un tentativo) rispetto all’imposizione dell’austerity a livello amministrativo, al fiscal compact, alla spending review e ai suoi esiti possibili: privatizzazioni selvagge, dismissioni del patrimonio pubblico, etc. Un argine evidentemente insufficiente e privo di prospettiva politica, ma -il punto è proprio questo a nostro avviso- necessario e sufficiente a produrre un movimento di restaurazione che individua oggi nell’esperienza De Magistris un nesso scomodo da eliminare per poter riarticolare un sistema di potere che risponda disciplinatamente agli interessi dei poteri forti. Un argine cosi insufficiente da consegnarci prima il commissariamento di Bagnoli e poi l’attacco ad orologeria dalla magistratura al sindaco De Magistris e il ritorno all’orizzonte di uno dei peggiori incubi della città.

Per chi non l’avesse capito, sulla scena stanno tornando i peggiori volti della lunga stagione del centrosinistra bassoliniano, forti, oggi, anche di un nuovo rapporto, rinsaldato dalle coalizioni nazionali, con grossi blocchi di centro-destra. La presunta calma dopo la tempesta mediatico-magistrale abbattutasi su De Magistris nelle scorse settimane ci parla di una difficile riorganizzazione dei blocchi sociali su base clientelare, di una guerra fratricida tra correnti diverse, della ricerca faticosa (per non dire impossibile) di un volto più o meno presentabile per le elezioni regionali e comunali. Intanto la macchina pubblica ha lavorato con molta intelligenza negli ultimi mesi preparando il campo alla spartizione della montagne di soldi nella forma di fondi strutturali che cadranno nella regione Campania non appena l’Europa darà il via alle danze del nuovo ciclo di programmazione europea (basta dare un’occhiata al documento politico campano di programmazione di spesa dei fondi strutturali per averne la misura!)

 

Lo sblocca-Italia e la Bagnoli del 7 novembre

La centralità di Bagnoli in una battaglia di rilievo nazionale non l’abbiamo scelta noi ma il governo. Il decreto Sblocca-Italia è partito da Bagnoli per allargare il campo a tutto il paese. Davanti a noi due fronti: da un lato un modello di sviluppo fondato sullo sfruttamento energetico, ambientale e sociale dei territori, sulla privatizzazione dello spazio pubblico, sull’assenza di democrazia, sulla salvaguardia dei poteri forti (mafie, lobby, etc.), dall’altra la resistenza delle comunità territoriali, le forme di democrazia radicale che esse provano a sviluppare, l’autogestione, l’autogoverno dello spazio pubblico, la cooperazione sociale, una sensibilità sempre più forte verso uno sviluppo rispettoso dell’ambiente e della salute, la volontà di resistere a questa faccia del capitalismo fatta di cemento, trivelle, inceneritori, petrolio, grandi opere etc.

Bagnoli rappresenta un banco di prova per tutti, per i poteri forti, per i loro rappresentanti politici, per i movimenti, per le comunità territoriali. Non ci sono maniere mediane per dirlo: bloccare Renzi a Bagnoli significa bloccare il decreto Sblocca-Italia e la partita di allineamento definitivo dell’Italia ai diktat dell’Unione Europea.

Come sempre continuiamo a soffiare sul vento del cambiamento, consapevoli che in questi anni molte cose sono cambiate ma altre sono rimaste uguali.

Oggi ai movimenti si pone la sfida ulteriore di un processo di organizzazione delle lotte che diventi anche processo di trasformazione politica. Questo nodo è insoluto, e spesso così lo si preferisce lasciare, forse per inerzia, forse per incapacità, forse per paura. Probabilmente, la presunta crescita lineare dei conflitti sociali non è misura sufficiente a considerare appieno l’iniziativa dei poteri costituiti, né tantomeno è in grado di registrarne la sovrapposizione, la convergenza e l’alleanza di interessi, arenandosi dinanzi al processo di transizione, al divenire proposta politica credibile, efficace, costituente. E d’altra parte, siamo ormai alla parodia di un funerale della sinistra con i disperati tentativi dei vari Landini e Rodotà di mettere assieme brandelli di ceto politico e di culture a sinistra del PD, in assenza di un progetto di trasformazione e di un processo di messa in discussione delle categorie della rappresentanza, dell’organizzazione politica e, sul piano dei contenuti, del significato di concetti come lavoro, democrazia, diritti, giustizia. Qualcosa che assomiglia a un preludio ex post dell’evoluzione del concetto dell’autonomia del politico del grande operaista Tronti, che oggi vota il Job’s Act nelle aule del Senato. Qualcosa da cui non ci si può aspettare nulla di buono, insomma, qualcosa che fa passi indietro perfino rispetto alla vaporosa Rivoluzione Arancione. Le lotte e i movimenti, in qualunque modo, sopravviveranno per fortuna a questi processi che nascono e muoiono. C’è dentro di essi una temporalità più profonda e lunga, cui bisogna però dare una potenza.

Al centro di questa sfida rimangono la bussola dell’autonomia come orientamento; la città come spazio geopolitico, la composizione sociale del lavoro e del non-lavoro, la sua povertà e la sua ricchezza, come terreni su cui lavorare; l’organizzazione delle lotte e la loro ricomposizione come  strumenti e metodo del nostro lavoro; il rifiuto di quest’ordine sociale come sentimento e cultura politica che tiene assieme tutto questo. E ancora la costruzione dello sciopero sociale come processo di organizzazione delle lotte del lavoro e del non-lavoro dentro le città, di forme di organizzazione, mutualismo, cooperazione e conflitto capaci di includere soggetti sociali e produrre coscienza e autodeterminazione; la costruzione delle istituzioni del comune, ossia luoghi dove praticare la democrazia diretta, l’autogoverno, il rifiuto della proprietà privata e del controllo statale e la produzione del comune, sono gli aspetti più impellenti di questa sfida.

Qualsiasi strada si scelga in questo percorso, qualsiasi temporalità ci si dia per raggiungere la meta,  il 7 novembre a Bagnoli ne è una partita decisiva.

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