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Gli attentati di Parigi e l’Information Guerrilla

In questi giorni, in seguito all’attacco terroristico di Parigi, è riesplosa quella che, citando il celebre aforisma di Marshall McLuhan, definisco neanche troppo sarcasticamente “Information Guerrilla 2.0”[1]

Lo tsunami di dettagli, versioni ufficiali, fonti alternative e controinformazione, insieme alla propaganda anti-islamica, derive razziste, tamburi di guerra e paranoie collettive, si è riversato nel calderone dei social network, portando con sé nuove ondate di polemiche, dibattiti e analisi anche sui cosiddetti “complottismi”. Un film purtroppo già visto ma che in questi giorni mi appare amplificato nel suo elemento caotico e catalizzante a vari livelli.

A scanso di equivoci, in questo mare pieno di ambiguità, vorrei subito chiarire che non mi riconosco nelle schiere degli “anti-complottisti” perché la guerra contro i “complottisti” è stata storicamente adottata come strategia mediatica contro chiunque indagasse a scapito delle versioni ufficiali, indistintamente. Le accuse di “complottismo” sono sempre state impugnate come una delle armi di censura più efficaci contro il giornalismo d’inchiesta, il mediattivismo e l’informazione libera. Per questo bisogna innanzitutto distinguere cosa s’intende per “complottismo” e distinguerlo da ciò che invece merita credibilità.
I complotti esistono, così come esiste il potere. Poi esiste l’inchiesta, ed esiste il “complottismo”, che è un’altra cosa. Nella mia formazione critica anti-media mainstream ho sempre considerato come il primo grande “complottista” proprio l’informazione ufficiale, perché la sua natura lobbista e di propaganda in tutto il mondo si fonda su precisi metodi di fabbricazione di notizie e alterazione dei fatti.
Poi c’è un livello più “creativo” di complottismo, che mi evoca un’immagine quasi mistico-esoterica, del tutto funzionale alla semplificazione del racconto mediatico che teoricamente vorrebbe screditare, e che si riconosce nella pretesa di voler dimostrare una tesi in base a elementi e dettagli presentati in modo spesso pretestuoso, del tutto insufficienti al quadro generale, generalmente infondati o di impossibile verifica.

Ovviamente non tutta l’informazione libera, anche non professionista, che indaga in direzione opposta alle versioni ufficiali è definibile come “complottista”.
E non tutte le ipotesi non dimostrabili possono essere definite come “complottismo”. Accanto ai fatti e alle complessità storiche, un competente giornalista, o un serio esperto di geopolitica o un critico dei media è anche in grado di fare delle analisi corrette in base alla sua conoscenza della materia, così come un medico attraverso i sintomi del paziente è in grado di ipotizzare una malattia prima ancora di vedere le analisi.
Solitamente però questi esperti, proprio come i medici, sono persone che seguono delle regole deontologiche che non possono mai essere ignorate, ad esempio quando non dispongono di fonti o prove sufficienti a sostegno della loro analisi nonostante una lunga e paziente ricerca lo fanno presente o come minimo mettono il condizionale alle proprie ipotesi.

Si tratta di un argomento molto spinoso, che si presta anch’esso a facile strumentalizzazione, polemica e incomprensione.
In questi giorni di frastono un’immagine apparsami su facebook del caro Enzo Baldoni mi è sembrata stridente, fuori luogo, come se Enzo volesse trasmettere tutto il suo disagio nel trovarsi lì. Lui per me resta un simbolo di una battaglia che è andata irrimediabilmente persa, quella dell’informazione dal basso, di chi ha tentato di fare informazione libera e umana, costruendo ponti di solidarietà e sapere collettivo, alternativo alla fabbrica del consenso. Il suo sacrificio insieme a quello di molti altri freelance in zone di guerra è servito alla costruzione di enormi zone d’ombra in cui le dinamiche e le notizie restano inaccessibili e  le speculazioni e le semplificazioni abbondano, zone d’ombra in cui oggi un Enzo Baldoni non avrebbe alcuna possibilità di accesso e testimonianza…

Internet è divenuto uno tsunami in cui soltanto chi ha strumenti acquisiti dall’esperienza è in grado di distinguere le fonti affidabili dal mare inquinato di infiltrati, mistificatori, speculatori o semplici utenti ingenui che diffondono notizie frammentate o infondate, ma il livello dello tsunami è tale che anche gli esperti talvolta possono lasciarsi ingannare, e devono necessariamente restringere i loro punti di riferimento restando sempre molto cauti nel giudicare l’attendibilità e la provenienza delle informazioni…

In tanti boicottano ormai l’informazione ufficiale per rivolgersi a canali alternativi più o meno affidabili, pochi quelli che nello tsunami sanno orientarsi per distinguere le singole notizie fondate che pure filtrano ma che devono essere contestualizzate. In questa situazione tutta l’informazione appare come uno strumento di guerra fuori dal nostro controllo.

Quei tentativi di costruire ponti alternativi, testimoniando in prima persona, analizzando e organizzando reti dal basso sono stati spazzati via dallo stesso sistema che abbiamo contribuito a creare, credendo all’anarchia di internet, usando lo stesso campo di battaglia controllato dal sistema neoliberista che ha contribuito a privare di credibilità il giornalismo libero d’inchiesta, a creare il precariato selvaggio nell’informazione e a svalorizzare le competenze acquisite dai freelance sul campo, costruendo zone d’ombra in quelle aree di conflitto alle quali nessun testimone ha più accesso, mentre un blogger o un’opinione su facebook può avere lo stesso peso di un operatore dell’informazione.

Sul fronte del giornalismo investigativo di informazioni e analisi attendibili che hanno screditato le versioni ufficiali e che consentono di avere un quadro degli sviluppi storici degli ultimi decenni ce ne sono ormai a valanghe, per la maggior parte verificate e autorevoli, e vengono tutt’ora prodotte, con fatica, grazie a giornalisti coraggiosi che si rendono (sempre più) scomodi o invisibili o che hanno rischiato la vita per portare alla luce la verità. Negare questo significa negare la storia, cancellare memoria, alterare la percezione di meccanismi molto reali, privare la collettività del diritto di comprendere la complessità degli eventi, dei poteri che li controllano, difendersi da essi. Pochi però si prendono la briga di studiare a fondo questo ricco bagaglio di documentazione.
Oggi questi giornalisti coraggiosi hanno molta meno libertà di azione e gran parte delle informazioni di prima mano viaggiano in modo più sotterraneo e frammentato, spesso meno alla portata di tutti (contrariamente a quello che sembra), spesso senza possibilità di verificare le fonti, spesso taciute perché scomode per sé stesse, perché il sistema mediatico sta privando i giornalisti del loro potere contrattuale.

 
Il cosiddetto “complottismo” va dunque a colmare un vuoto di attendibilità e saperi che si rende funzionale a queste zone d’ombra, alla censura e al discredito, il tutto mescolato con informazioni valide che pochi si prendono la briga di analizzare, così come la totale diffidenza verso il giornalismo mainstream impedisce talvolta di cogliere importanti notizie che pure trapelano e che meritano di essere contestualizzate (“Il vero come momento del falso”[2]). Questo accade proprio perché si sono minate le basi delle regole e della professionalità del giornalismo investigativo indipendente, i suoi strumenti di sostegno, indipendenza e sopravvivenza, scaricando il concetto stesso di informazione nel calderone del web, che non è “informazione dal basso”autogestita e concepita su basi etiche, ma uno tsunami che tutto invade, trascina e disperde.
 

Il sistema mediatico, di cui fa parte integrante il mondo del Web, ha generato lo tsunami, ma il sistema non si genera da solo, è strutturato sempre in base agli interessi dei poteri che lo hanno concepito e che in buona parte continuano a gestirlo.

L’idea di “complottismo” (che genera crescente insofferenza) è dunque una semplice conseguenza funzionale straripante dalla demolizione delle regole necessarie ai margini di libertà di un’informazione indipendente e attendibile.

 

Il fatto che tanti condividano e diffondano congetture e teorie con un click a catena, (spesso basandosi solo su un titolo senza nemmeno aprire l’articolo e leggerlo o controllarne la provenienza) è certamente espressione di comoda semplificazione, ma anche sintomo del collettivo brancolare nel buio e di una diffidenza diffusa: si cercano risposte a domande a cui nessuno risponde, nessuno che sia ritenuto un “medium” affidabile. Un meccanismo perfetto per distruggere i fondamenti del diritto all’informazione, diffondere disillusione, consolidare potere sul controllo o il non controllo degli eventi e l’oscuramento delle complessità che li hanno generati, potenziare e restituire credito all’informazione mainstream e ai suoi “rumori di fondo”, creare terreni di conflitto e scontri di civiltà, scongiurare creazioni di ponti e abbassare il livello dei saperi collettivi che lasciano il posto alle semplificazioni massmediatiche, che siano esse prodotto delle versioni ufficiali, del giornalismo d’inchiesta, dei complottismi o del semplice opinionismo.
E’ quella stessa semplificazione che impedisce di fare distinzioni e recepire l’analisi delle complessità almeno in minima parte. E’ in questo modo che infine anche l’analisi delle complessità, non trovando né spazi di ricezione né terreno di sapere acquisito collettivamente, viene confusa con il “complottismo”, e a sua volta screditata con la diffidenza di chi non ha gli strumenti per leggerla.

Questa semplificazione in realtà è stato un elemento sempre presente nella Storia della propaganda e dei media mainstream. Quello che accade nell’era dei social network è la perdita del controllo e della memoria proprio dei fili di quella complessità storica che sempre è stata ricercata al di fuori delle versioni ufficiali. La frammentazione di notizie e dettagli enfatizzati per dimostrare teoremi e indirizzare correnti di pensiero (strategia da sempre adottata proprio dai media mainstream), la diffidenza crescente verso le versioni ufficiali, la confusione generata tra giornalismo investigativo e “complottismo” impediscono di distinguere questi fili e di intravedere quella verità “al di là dei fatti” di cui ci parlava Tiziano Terzani. 

Non abbiamo molti mezzi per difenderci da questo mostro che è diventata l’Information Guerrilla. Si può boicottare il mondo dei media mainstream, si possono coltivare dubbi e ragionamenti, si può acquisire esperienza nell’individuare punti di riferimento indipendenti affidabili, studiando la complessità degli eventi passati e presenti, ma non tutti hanno gli strumenti, l’esperienza, il tempo o la volontà per farlo. Finché l’informazione resterà in mano alle grandi lobby della comunicazione e in quella dello tsunami dei social network (anch’esso sotto il controllo delle stesse lobby), il diritto a un’informazione indipendente e affidabile per la maggior parte della collettività sarà sempre più un miraggio.

In questo contesto è necessario restituire la dignità sottratta al giornalismo e ai freelance, e  all’idea stessa di Informazione, restituendo ad essa quel controllo che una volta produceva consenso attraverso linee editoriali ben congegnate e strutturate *anche* grazie alla competenza, una competenza quasi sempre servile ma pure attenta e talvolta ribelle, mentre oggi non sta producendo altro che “junk information”, terreno di conflitto e perdita di lucidità collettiva.

E’ necessaria più che mai una battaglia per consentire a freelance e giornalisti precari e non di svolgere il loro lavoro, sviluppando e restituendo professionalità a chi opera nell’informazione, i primi che dovrebbero assolutamente trovare la forza di ribellarsi. 

* Eva Milan, musicista, mediattivista


[1] “L’Information Guerrilla 1.0” nel mio personale immaginario è stata combattuta (e perduta) dalle reti del mediattivismo nei primi anni 2000 versus i media mainstream.  

[2] cit. Guy Debord

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1 Commento


  • Mik

    Articolo con spunti interessanti, e con un errore fondamentale: il non contemplare l’ipotesi che il rumore, e “il mostro che è diventata l’Information Guerrilla”, siano anche essi, molto spesso, NON un prodotto di una popolazione che priva di informazioni affidabili, spaesata, si rifugia in teorie inverosimili, ma cosciente creazione dei veri complottisti (quelli che i complotti li organizzano), utile a gettare fango su tutti quelli che non si accontentano delle spesso ridicole spiegazioni ufficiali.

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