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Lo sviluppo capitalista come distruzione di capitale, umano

Analizzando e adeguando l’analisi dell’imperialismo alle condizioni del XXI Secolo, il forum di Bologna del 7 marzo si è misurato anche con i fattori differenzianti tra la situazione del mondo e dello sviluppo capitalistico dell’epoca leniniana e quello attuale. La relazione svolta da Francesco Piccioni, fortemente complementare a quella di Guglielmo Crachedi, ha affrontato l’impatto delle tecnologie sul lavoro e sul capitale. In particolare la tendenza a sostituire – sicuramente nei centri imperialisti – il lavoro umano con quello delle macchine. Ne emerge uno scenario reale ma inquietante. Il capitalismo distrugge sempre le capacità produttive in eccesso, ma quando esse corrispondono al capitale “umano” (la forza lavoro variabile dal quale si ricava il plusvalore), quali prospettive vengono indicate per il futuro di una umanità fatta da uomini e donne in carne ed ossa? Pubblichiamo qui di seguito uno stralcio della relazione di Francesco Piccioni, ricordando che il testo integrale verrà pubblicato sulla rivista Contropiano di prossima uscita.

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L’intervento in video di Francesco Piccioni

Dalla relazione di Francesco Piccioni

(….) La seconda differenza (con l’epoca leniniana, ndr) è ancora più evidente, ma non molto inquadrata a livello teorico – se non per apodittiche “svolte epocali” sempre fumose e molto malleabili – per quanto riguarda l’impatto che ha lo sviluppo tecnologico sul piano concreto, ovvero su come la tecnologia incide sulla situazione materiale, sui profitti, sulla composizione e l’autopercezione delle classi (e soprattutto del lavoro dipendente), sulla dimensione delle figure sociali che ne risultano, sulla dinamica stessa del conflitto di classe. Eppure bastano poche notizie spot per cogliere la portata di un rovesciamento – questo sì “epocale” – di prospettiva.

Non è semplice addentrarsi nell’analisi globale di questa dinamica, visto che i dati sono spesso dispersi o aggregati su base nazionale oppure ancora per singoli settori; comunque a distanza temporale considerevole dall’inizio dei processi. Le note che seguono sono dunque alquanto “impressionistiche”, con poche cifre. Ma mi sembrano sufficienti ad aprire un filone di ricerca senza il quale è difficile procedere alla costruzione di un blocco sociale adeguato alla visione e alla dimensione dell’avversario.

Sul piano della tecnologia produttiva, appunto, 100 anni fa Henry Ford aveva da pochissimo (1908) ingegnerizzato la sua prima catena di montaggio, rendendo finalmente tangibile per tutti il concetto marxiano di “sussunzione del lavoro al capitale”. Era il lavoro manuale, l’unico serializzabile ai tempi, quando le concentrazioni umane con a disposizione energia elettrica e caldaie a vapore erano alquanto rare sul pianeta, la rivoluzione industriale fondata sul petrolio metteva appena le sue basi, la produzione di beni durevoli di consumo per un pubblico di massa era limitata a ben poca roba, ancora grande il ruolo della produzione artigianale, delle “cose fatte a mano”.

Ford aveva però messo a punto il concetto fondamentale del capitalismo novecentesco, nonché il meccanismo produttivo capace di renderlo realtà quotidiana “normale”: produrre merci che potevano essere acquistate dall’operaio che le produceva. Non solo per il rapporto tra prezzo e quantità di reddito, ma anche come rafforzamento del legame reciproco tra impresa e classe operaia all’interno di un determinato territorio chiamato nazione. Lo sviluppo tecnologico era dunque strettamente legato all’immagine di un paese particolare, era un suo elemento propulsivo, il collante di una popolazione, la giustificazione delle sue pretese egemoniche.

L’immagine delle prime catene “fordiste” sono però rimaste nella storia, per esempio del cinema, anche per altre ragioni: introducevano per la prima volta la possibilità di dare al processo di produzione un ritmo totalmente inumano, tale da distruggere fisicamente la forza lavoro degli uomini messi alla catena. Diventavano esempi di dove poteva arrivare lo sfruttamento capitalistico, andavano a costituire pezzi di immaginario anticapitalista, ma erano tutto sommato indicativi di settori particolari, di “pezzi di mondo” da cui si poteva restar lontani oppure tentare di infilarvisi per scatenare conflitto. Il “fuori” da quei mondi era comunque infinitamente più grande. Quasi confortevole.

Oggi abbiamo – già da alcuni anni, peraltro – catene di montaggio che prescindono quasi completamente dal lavoro umano, ridotto a mera funzione di controllo a monte e a valle, o di eventuali blocchi e guasti. Proprio nel settore automobilistico – merce-pivot dello sviluppo industriale del ‘900 – questo sviluppo appare quasi una precondizione perché i produttori possano “competere”. Come spiegava Sergio Marchionne nel 2009, ancora prima di adottare il modello Pomigliano, “il costo del lavoro rappresenta ormai il 5-6% dei costi industriali”. Come dire che non incideva già quasi per nulla sul fatturato, che comprimerlo era in fondo questione marginale. Come si è visto, ciò non significava escludere che si potessero adottare strategie industriali miranti a ridurlo ancora, magari solo per ottenere una manodopera più “addomesticata”.

Diciamo che oggi si possono produrre un numero infinitamente superiore di automobili, ma gli operai necessari sono infinitamente meno. Il limite assoluto di questa tendenza – produrre merci senza operai, destinate a un pubblico generico e senza alcuna connotazione, né sociale né nazionale, anonimo – è già realtà in alcuni segmenti della filiera produttiva (nel caso dell’automobile: in carrozzeria, verniciatura, presse). Il legame circolare produttore-lavoratore-consumatore è definitivamente rotto con riferimento a un territorio comunque esteso.

Girano molte immagini, ormai, di queste catene di montaggio totalmente automatizzate (le foto sono state scattate nella Kia Motors di Zelina, in Slovacchia). Ma forse è ancora più indicativa la dichiarazione fatta nello scorso ottobre dal capo del personale della Volkswagen, Horst Neumann: “Nei prossimi 15 anni andranno in pensione 32mila persone; non verranno rimpiazzate“. Un robot fa lo stesso lavoro, con maggiore precisione, a velocità superiore, non si stanca, non protesta, non sciopera. Al massimo si rompe, ma questo accade assai più spesso all’essere umano. Soprattutto costa meno. “Nell’industria automobilistica tedesca il costo del lavoro è superiore ai 40 euro all’ora, nell’Europa dell’est sono 11, in Cina 10”, scrive Neumann. “Oggi il costo di un sostituto meccanico per lavori di routine in fabbrica si aggira intorno ai cinque euro. E con la nuova generazione di robot diventerà presumibilmente ancora più economico. Dobbiamo essere in grado di sfruttare questo vantaggio economico”.

Altro esempio: alla Elektronikwerke Siemens di Amberg, in Boemia, le catene di montaggio scorrono all’interno di teche di vetro, al riparo da polvere e altri “accidenti” fortuiti, per stampare centraline di controllo utilizzate poi per guidare altri processi produttivi automatizzati, compreso quello della stessa Elektronikwerke. Dalle linee escono 50.000 pezzi al giorno, 12 milioni l’anno, grazie a pochissimi lavoratori in camice, quasi tutti ingegneri, che lavorano usando AutoCad al computer. Le centraline, infatti, possono essere personalizzate sulle necessità del cliente e sul tipo di processo produttivo, agendo su un numero non infinito di parametri già previsti e programmati. E va tenuto nel debito conto il fatto che questi milioni di pezzi sono il cuore del controllo automatico su altrettante linee di montaggio, impacchettamento, trasporto. L’indice di errore, con questo tipo di linea produttiva, è stato ridotto da 500 a 11 casi per milione di operazioni. Il lavoro umano è qui ristretto alle funzioni di progettazione e controllo, oppure amministrazione e marketing.

I tecnici elettronici di 50 anni fa, nello stesso tipo di fabbriche, maneggiavano transistor delle dimensioni di un ragno, ne saldavano le “zampe” a circuiti stampati dal disegno visibile ed elementare. Oggi se ne stampano alcune decine di milioni su chip delle dimensioni di un centimetro o anche meno. A ogni salto in avanti dimensionale – di transistor per millimetro – basta cambiare la macchina.

Potremmo andare avanti a lungo, ma questi casi bastano a tracciare le linee fondamentali: il “vantaggio economico” spinge l’automazione dei processi produttivi, l’aumento della capacità di output quotidiana, l’eliminazione di lavoro umano. Si possono produrre miliardi di pezzi di qualsiasi tipo con poco o nulla personale. Ma la riduzione generalizzata e universale del personale riduce al contempo anche la massa dei candidati acquirenti di quelle merci. È inutile però chiedere conto al singolo imprenditore di questa contraddizione sistemica: per lui “il mercato” sono tutti gli altri fuori dalla sua linea produttiva. È insomma un presupposto dato, non il risultato di una evoluzione che dipende anche da lui. È il punto di vista del singolo capitale, non del capitale.

Il limite teorico si vede già qui: si possono produrre merci senza la forza lavoro umana, ma le merci vanno vendute su un mercato fatto di esseri umani.

Henry Ford aveva risolto il problema di standardizzare la prestazione lavorativa individuale su una media dettata dalla velocità della macchina (quasi mai tirata oltre il limite costituito dalla fragilità della forza lavoro umana, peraltro).

Il passo avanti epocale è stato fatto: l’uomo non serve più in molte fasi della produzione fisica e ora anche intellettuale. E’ ancora indispensabile, invece, ma in misura proporzionalmente sempre più ridotta, per tutte le fasi a monte (progettazione, ingegnerizzazione, scrittura di un software dedicato, ecc) e a valle (stoccaggio, packaging, distribuzione, vendita, manutenzione, pubblicità). La velocità del ciclo produttivo, al tempo del just in time, risente quasi soltanto dai tempi tecnici di lavorazione semiautomatizzata di merci fisiche. Pesano di più, insomma, i saliscendi della domanda, i tempi e le modalità di trasporto, che non i limiti fisiologici dell’essere umano (compresa la sua residua capacità conflittuale)……

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