La Grecia si configura sempre di più come un laboratorio a cielo aperto, il luogo di una “sperimentazione globale”, politica economica e sociale, destinata a incidere sugli svolgimenti futuri del processo di costruzione dell’Unione Europea.
Pochi mesi di vita di un governo sostenuto da una coalizione politica degnamente riformista, Siryza, con un programma anti-austerity, sono stati sufficienti ad alimentare le contraddizioni tra aspettative del popolo greco e governance europea ad un livello tale da prefigurare lo sconfinamento, secondo le parole del capo della BCE, in territori sconosciuti, ossia esiti sotto più profili, a partire da quello economico, dirompenti.
La scelta totalmente inaspettata del referendum sui contenuti del memorandum con le condizioni capestro per accedere ai finanziamenti da parte della BCE, e il voto inequivocabilmente contrario all’imposizione del piano dell’unione europea hanno, come effetto immediato, smontato la campagna contro il governo greco additato a responsabile del disastro per la mancata accettazione del diktat europeo. Il governo Tsipras, non solo è il legittimo rappresentante del popolo greco ma il risultato elettorale aggiunge al suo governo la qualifica di popolare sia per l’entità del successo referendario del no, sia per la capacità dimostrata di essere in sintonia con il sentimento e l’orgoglio popolare espresso con il rigetto del ricatto della Troika.
L’accresciuta forza politica del governo dovrebbe, a questo punto, riversarsi nella trattativa a dimostrazione che un’accettazione supina delle condizioni umilianti del piano è impedita da un pronunciamento popolare che non può essere aggirato. Si impone allora in modo ancora più evidente la natura del contenzioso: da una parte, le aspirazioni popolari, dall’altra, i meccanismi ciechi dell’accumulazione finanziaria globalizzata, di cui la troika è garante. Lo scontro non si limita allora ai confini della Grecia, ma assume una precisa fisionomia sociale e di classe generale: gli interessi popolari sottoposti al massacro dagli insostenibili piani di rientro dal debito, ossia al trasferimento di risorse verso le banche continentali titolari dei titoli del debito, nelle mani della dominante borghesia finanziaria europea.
Il debito pubblico dei paesi cosiddetti PIGS, presentato come risultato di paesi vissuti al di sopra delle proprie possibilità, è, in realtà, l’esito di una modello di relazioni economiche imposte all’interno dell’eurozona, che muove la continua richiesta di interventi strutturali la cui unica finalità è il trasferimento di valore reale, privatizzazioni, tagli salariali diretti e indiretti, ecc, verso i centri di accumulazione finanziaria per le successive immissione sui mercati di nuove ondate di titoli speculativi, in un vortice di interessi tra banche d’affari e istituti sovranazionali FMI e BCE.
Il tutto in un quadro di relazioni gerarchizzate tra i paesi dell’Eurozona, con il primato degli interessi dell’economia esportatrice tedesca e dei paesi interni alle sue filiere produttive, con connotati neocoloniali.
L’orizzonte riformista del governo greco la cui azione è rivolta a lenire gli effetti del debito sulla vita delle masse popolari greche, si pone in aperto conflitto con il debito quale strumento dell’oppressione di classe e di sostegno ai meccanismi di accumulazione. Poco importa evidentemente che il debito per le sue dimensioni è inesigibile, mettere nero su bianco questa realtà implicherebbe il corto circuito dell’intero sistema bancario e finanziario, proprio come avvenuto con la crisi dei sub-prime statunitensi, e lo shock si trasferirebbe all’intera economia europea, con esiti, come già ricordato, imprevedibili per l’inevitabile effetto domino sulle politiche di gestione del debito nell’intera eurozona.
Allora il cuore della questione è la possibilità concreta di modificare i connotati della costruzione classista europea attraverso un’azione riformatrice sovvertitrice del sistema di regole poste a fondamento della stessa Unione. Infatti recuperare lo spazio per una seria politica di rilancio economico e produttivo della Grecia comporta inevitabilmente la violazione dei trattati e delle regole che sono parte costituente del sistema di dominazione aggregatosi intorno all’euro.
L’uscita dal ricatto del debito implica la disponibilità a trasformare un sistema di relazioni gerarchizzato in un sistema di relazioni quantomeno cooperativo e di conseguenza l’accettazione delle modifiche delle ragioni di scambio commerciali, in altri termini la fine dell’eurozona come mercato privilegiato per le merci tedesche, ovvero, la fine delle ragioni che hanno portato alla nascita della stessa Unione Europea.
In questi giorni molti commentatori si sono affannati nella ricostruzione storica del processo di edificazione europea individuandone le origine economiche nella Ceca, la comunità del carbone e dell’acciaio, dimenticando che la vera data di nascita di questa Unione Europea e l’annessione dei territori della ex Germania Democratica e nella politica di saccheggio di risorse e predazione industriale a cui è stata sottoposta.
Ipotizzare una politica di riforme capace di modificare il segno classista della U.E. si scontra frontalmente non solo con le sue ragioni costitutive ma con l’assenza di un quadro di regole in cui l’azione riformatrice dovrebbe inserirsi: l’Unione Europea è irriformabile per sua stessa implicita condizione e teorizzare la sostituzione delle regole esistenti vuol dire oggettivamente operare la rottura dell’U.E.
Al pari le proposte di moratoria del debito sono possibili non sul piano della concertazione ma come atto di rottura unilaterale, come atto di sovranità delle classe subalterne.
Debito pubblico e trattati europei sono i due aspetti che la vicenda greca ci consegna, ovviamente non in termini teorico- conoscitivi, ma come contraddizioni irrisolvibili terreno su cui far crescere il conflitto sociale e la consapevolezza della rottura necessaria dell’Unione Europea.
* Ross@ Roma
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