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Il Mezzogiorno tra crisi e illusioni riformiste

Il rapporto Svimez 2015 è la descrizione dettagliata di come, all’interno di una questione meridionale ormai cronica, la crisi del 2007 e la crisi dell’euro a questa correlata abbiano dato luogo ad una drammatica accelerazione.

Lo sfondo da cui dobbiamo partire è quello proprio della tradizione politica comunista imperniato sul concetto di sviluppo economico capitalistico fondato sulla crisi (e sulle soluzioni imperialistiche della crisi) e non sull’equilibrio. All’interno di questo sfondo si articola il concetto di sottosviluppo di intere aree geoeconomiche più o meno correlato allo sviluppo capitalistico stesso. Questo sottosviluppo può essere un rapporto tra diversi modi di produzione, tra diverse fasi di uno stesso modo di produzione (in questo caso quello capitalistico) ma anche tra diversi livelli all’interno di una stessa fase.

L’andamento di tale rapporto è soggetto a squilibri di natura cumulativa già prefigurati dalla teoria dello sviluppo ineguale, dal ruolo del moltiplicatore nelle teorie keynesiane dello sviluppo squilibrato, dalla teoria della causazione cumulativa (teorizzata da Myrdal e formalizzata da Kaldor), dall’uso metaforicamente estensivo del termine mezzogiornificazione da parte di Paul Krugman.

Dunque ci sono già strumenti teorici raffinati che spiegano come l’assenza di dinamiche redistributive generi sul territorio fenomeni caotici e difficilmente reversibili con l’utilizzo degli strumenti ordinari di politica economica.

Per quanto riguarda il nostro paese, è stato notato da Luciano Vasapollo che i vari periodi dello sviluppo economico hanno creato una crescente differenziazione territoriale e sociale con aumento della disoccupazione e della marginalità sociale che ha colpito in particolar modo le aree più deboli della penisola (innanzitutto il Meridione). Il modello di sviluppo neoliberista, già prima della crisi, ha trasformato il Meridione nel laboratorio dell’economia marginale e sommersa, del lavoro nero e sottopagato funzionale al più generale processo di globalizzazione dell’economia.

Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo hanno poi, sulla base delle intuizioni di Augusto Graziani, riutilizzato il concetto di mezzogiornificazione per descrivere l’evoluzione dei rapporti tra i paesi centrali e quelli periferici dell’Unione Europea: essendosi l’UE formata su basi competitive tutto è stato affidato ai meccanismi di mercato e l’adozione della moneta unica più l’impossibilità di usare le tradizionali leve della politica economica da parte dei governi dei paesi membri hanno favorito la divergenza economica tra questi ultimi, accentuando i divari economici già sussistenti prima della nascita stessa dell’euro. Si riproduce su scala continentale il tradizionale dualismo tra Nord e Sud dell’Italia: emerge una nuova questione meridionale che travalica i confini italiani e incide sui destini dell’intera Europa.

Questo processo si collega, secondo Brancaccio, al concetto marxiano di centralizzazione dei capitali per il quale accanto alla contrapposizione competitiva tra capitali e come effetto di quest’ultima vi è un processo di concentrazione di capitali già formati mediante liquidazioni, acquisizioni, fusioni. Tale processo può essere stimolato dalle autorità di politica economica le quali fissando condizioni di solvibilità più restrittive per i capitali in conflitto aggravano la posizione dei capitali più deboli e accelerano il processo stesso di centralizzazione. Si sono così create le condizioni per una resa dei conti definitiva tra i capitali più fragili dell’Europa periferica e i capitali più forti dell’Europa nord-continentale.

Ovviamente (come in ogni dinamica sistemica) la questione meridionale su scala estesa (europea) retroagisce sulla questione del Meridione d’Italia e il rapporto Svimez fotografa l’andamento di quest’ultimo processo.

L’introduzione di Riccardo Padovani evidenzia come si presentino due grandi emergenze, tra loro strettamente collegate, il crollo occupazionale e la desertificazione industriale. Mentre il centro nord dopo aver partecipato ad una ripresina nel 2010-2011 si avvia verso una lenta e fragile inversione di trend, il sud vede una recessione senza tregua: diminuzione di investimenti, dello stock di capitale, dell’occupazione, dei redditi, della domanda interna con un progressivo avvitamento a cascata. La conseguenza ultima è una crisi demografica per cui entro il prossimo cinquantennio il Mezzogiorno perderà più di un quinto della popolazione.

All’interno di un quadro in cui l’economia internazionale non è riuscita a riprendere il passo di crescita di prima della crisi (con le tradizionali locomotive, quali la Cina, che devono riprendere fiato), in cui l’economia europea ha una dinamica del Pil ancora negativa (-0,4% nel 2013), in cui l’economia italiana nel suo complesso segna ancora il passo (-1,9% nel 2013), l’economia meridionale vede il Pil scendere del 3,5% a livello annuale e del 13,3% dal 2007. Il meccanismo di aggiustamento demografico costituito dall’emigrazione, se contabilmente attenua la disoccupazione, toglie all’economia anche le energie necessarie per uscire dalla crisi. il divario di sviluppo tra Nord e Sud del paese ha ripreso ad allargarsi tornando ai livelli del 2003, con prospettive future di ulteriore allargamento, viste le previsioni comparate dell’andamento del Pil.

Dal 2007 al 2013 il settore manifatturiero meridionale ha ridotto il proprio prodotto del 25% ( del 15% nel Centro nord), i proprio addetti del 24,8% (del 14% nel Centro nord) del 53,4% gli investimenti ( del 24,6% nel Centro nord), del 12,7% i consumi ( del 5,7% nel Centro nord) del 14,6% i consumi alimentari (del 10,7% nel Centro nord) del 16,2% i consumi legati alla cura della persona e dell’istruzione ( del 5,4% nel Centro nord).

La riduzione degli investimenti ha aggravato la scarsa competitività dell’area e ridimensionato le dimensioni dell’apparato produttivo favorendo un processo di desertificazione industriale. L’integrazione esistente tra regioni settentrionali e meridionali però farà sì che una domanda meridionale così depressa avrà ripercussioni negative anche sull’economia del resto del paese.

A tal proposito è interessante notare che, mentre in Italia, sia prima che durante la crisi, l’andamento comparato delle diverse aree del paese è stato differenziato a svantaggio di quelle più povere, in Germania negli stessi periodi l’Est sta progredendo avvicinandosi ai livelli di sviluppo delle regioni tedesche occidentali. Ovviamente questa eccezione virtuosa è pagata dal resto d’Europa che subisce la politica commerciale aggressiva di quello che sulla carta è un paese fratello.

Anche le previsioni per il 2015 vedono i destini delle diverse aree geografiche del paese divaricarsi: a fronte di una modesta ripresa del Centro nord, il Meridione conoscerà un’ulteriore variazione di segno negativo, sia per quanto riguarda il Pil, sia per quanto riguarda consumi ed investimenti sia per quanto riguarda l’occupazione. Per ciò che concerne quest’ultimo aspetto si sta ridisegnando la geografia del lavoro del nostro paese con una esclusione strutturale del Mezzogiorno, dove a livello giovanile si verificano forti perdite di posti di lavoro non compensate da flussi in entrata sempre più esigui. Sul mercato del lavoro si è abbattuta una crisi che nell’area non ha conosciuto tregua e che, con il crollo della domanda determina un avvitamento recessivo. Il tasso di occupazione scende al 42% (dal 50% degli anni Settanta) mentre nel centro nord sale al 63% (dal 56% degli anni Settanta). Se a livello complessivo l’occupazione femminile dal 2007 non registra sostanziali variazioni, nel contesto meridionale la variazione è -2,7% contro un +0,7% al centro nord.

Tuttavia la soddisfazione circa la tenuta dell’occupazione femminile non è giustificabile del tutto: essa è spiegata in termini di segregazione settoriale di genere, ovvero all’incremento delle occupazioni precarie e delle professioni non qualificate mentre gli uomini sono tradizionalmente concentrati nei settori più colpiti dalla crisi (bancario/assicurativo, manifatturiero, edilizio). Infatti si riscontra una flessione dell’11,7% dell’occupazione femminile delle professioni qualificate e un incremento del 15% delle professioni non qualificate.

A questo contribuisce la segregazione lavorativa in particolare delle donne immigrate, le quali, pur essendo in percentuale più istruite delle donne italiane, sono coinvolte per più del 50% nelle sole professioni di assistente domiciliare e collaboratrice domestica.

Al dualismo territoriale nell’ambito occupazionale si collega il marcato dualismo generazionale per cui tra il 2008 e il 2013 l’occupazione giovanile si riduce di circa il 25,4% (nel Mezzogiorno del 29,3% contro il 23,8% del centro nord). L’occupazione giovanile del Meridione è in una situazione peggiore di Spagna e Grecia. Le difficoltà maggiori a livello territoriale complessivo riguardano i diplomati (tasso di occupazione 2013 del 40,8% contro il 56,9% dei laureati). Il progresso tecnico non ha favorito la domanda di lavoro istruito, soprattutto se questo si accompagna a carenza di esperienza di lavoro, con il rischio di innescare un altro effetto cumulativo (chi non ha già avuto esperienza di lavoro tenderà a non averne anche in futuro).

Il problema occupazionale retroagisce sul settore formativo dove il depauperamento di capitale umano determinato da inoccupazione persistente genera una crisi di fiducia che, associata alle difficoltà economiche delle famiglie, contribuisce a ridurre gli incentivi all’investimento da parte delle famiglie in formazione e conoscenza. La progressiva emarginazione dei giovani pure istruiti dai processi produttivi è confermata dalla dinamica crescente di giovani che non sono coinvolti né in attività lavorative né formative: il 56,2% sono donne mentre il 54,6% è meridionale. Si verifica poi un calo delle immatricolazioni all’università che rispecchia il peggioramento delle condizioni finanziarie delle famiglie e la percezione diffusa della scarso vantaggio (in termini di occupazione e reddito) dell’investimento nella formazione più avanzata.

Non aiuta il sistema di finanziamento delle università che sta, all’interno di una complessiva riduzione di risorse, determinando una vera e propria penalizzazione delle Università meridionali.

Il nuovo e crescente meccanismo di premialità, determinando un altro processo cumulativo (per cui i vincitori di oggi sono meglio posizionati per essere anche i vincitori di domani) ha determinato dal 2011 al 2013 uno spostamento di circa 160 milioni di euro dalle università del sud a quelle del centro nord. Per effetto di questo spostamento annuo di risorse, per rispondere alla domanda di formazione degli studenti meridionali, la già alta migrazione studentesca del sud dovrebbe crescere al ritmo di circa 30.000 studenti all’anno, determinando il circolo vizioso di perdita del capitale umano per il Mezzogiorno.

Il Mezzogiorno così invecchia: i giovani emigrano, le nascite diminuiscono. Il numero dei nuovi nati al sud nel 2013 ha toccato il minimo storico. La fecondità femminile è di 1,36 figli per donna lontano dal livello di sostituzione (necessario per la stabilità demografica) che è di 2,1. Le ondate migratorie dall’estero che potrebbe riequilibrare la situazione sono drenate verso il centro nord (di 5 milioni di immigrati, 4,2 milioni stanno al centro nord). La minore capacità di attrarre immigrati dall’estero da parte delle regioni meridionali rispecchia la persistenza del gap in termini di sviluppo economico tra le due macro aree.

In base alle previsioni Istat in un cinquantennio il Mezzogiorno perderebbe quasi 5 milioni di abitanti prevalentemente giovani mentre il resto del paese ne guadagnerà altrettanti.

La distribuzione del reddito pure ha effetti aggravanti. La recessione, infatti, ha prodotto effetti differenziati sul livello e la distribuzione del reddito disponibile. Nei paesi dell’UE dove il reddito è distribuito in modo più egualitario (con misure specifiche e universali di contrasto a povertà e disuguaglianza) vi sono più elevati tassi di crescita. Mentre in quelli dove la maggioranza del reddito è detenuta da una minoranza di percettori, il Pil procapite è andato diminuendo.

La cattiva distribuzione del reddito diventa cioè una forza destabilizzante dell’intero sistema economico con ricadute sullo stesso processo di accumulazione. Il divario di sviluppo tra centro nord e Mezzogiorno si riflette sia sul livello dei redditi che sulla sua distribuzione. Ciò in quanto la crisi nel Mezzogiorno ha comportato un drastico ridimensionamento dell’occupazione e un conseguente innalzamento del livello di povertà assoluta contro cui non si sono adottati efficaci provvedimenti: il numero delle famiglie assolutamente povere dal 2007 al 2013 è aumentato nel Meridione di quasi due volte e mezzo. Nel 2012 appena il 5% delle famiglie del centro nord è risultato incluso nella classe a più basso reddito contro il 13,4% del Mezzogiorno. All’estremo opposto il 44,1% delle famiglie del centro nord ha più di 3000 euro al mese contro il 25,4% di quelle meridionali. Ciò implica che al centro nord la distribuzione del reddito viene ad essere migliore che al Sud (questo era vero anche prima della crisi come si desume da un rapporto Istat del 2005 dove il centro nord vedeva il 6,9% delle famiglie nel quintile più povero e il 25,4% nel quintile più ricco, mentre per il Mezzogiorno le percentuali sono rispettivamente il 38,1% e il 9,7%) e questo ha ed avrà effetti anche sulle prospettive economiche future delle due differenti aree.

Questa situazione si concretizza anche in divari ampi per quanto riguarda gli indici di benessere con una notevole eterogeneità (tra Meridione e resto del paese) per quanto riguarda la salute, l’istruzione, la ricerca e la qualità dei servizi pubblici. Questa eterogeneità è minore di quella riguardante il livello del Pil in quanto c’è ancora una inerzia nella capacità del servizio pubblico di affrontare in maniera territorialmente relativamente uniforme i problemi sociali del paese. Gli effetti catastrofici combinati della crisi e della regionalizzazione del finanziamento del Welfare non hanno ancora dispiegato compiutamente i loro effetti.

Quanto alla situazione industriale nel 2013 la dinamica del valore aggiunto dell’industria italiana è stata -3,2%. Questo dato complessivo riflette una forte divaricazione tra gli andamenti territoriali (centro nord -2,6% e Meridione -6,7%). Il prolungarsi della crisi economica rende più estesi e profondi i fenomeni di desertificazione industriale, fa assumere alla caduta del prodotto una intensità e una persistenza che prescindono dal ciclo europeo (a cui invece il centro nord sembra più allineato) e fa temere che l’industria del Sud non riesca successivamente ad agganciare il treno di un’eventuale ripresa continentale.

Osservando gli andamenti del valore aggiunto dell’industria nei diversi aggregati europei emergono chiaramente le difficoltà specifiche del Mezzogiorno non solo nel recuperare il ritardo strutturale nei confronti delle regioni del centro nord, ma più in generale nel competere con le altre regioni europee meno avanzate ed in particolare con quelle dell’Europa dell’Est non ancora aderenti all’euro che hanno un più basso costo del lavoro ma anche una maggiore libertà nell’usare la leva fiscale e monetaria (proprio grazie al fatto che non aderiscono ancora all’euro).

La maggiore debolezza dell’industria del Sud rispecchia sia un’evoluzione più sfavorevole nella componente interna della domanda sia nella componente estera. Con la crisi economica si è accentuato il calo della quota delle esportazioni di beni del Mezzogiorno anche rispetto ad una quota già declinante dell’export nazionale. Nell’area meridionale la capacità di operare sui mercati internazionali, collegata com’è ad una capacità di investimento propria di imprese di medie e grandi dimensioni, è circoscritta ad un numero esiguo di imprese, essendo la dimensione media delle imprese meridionali minore che nel resto d’Italia.

Le difficoltà delle imprese manifatturiere meridionali ad adeguarsi ai cambiamenti dello scenario competitivo internazionale alla fine hanno colpito anche una parte rilevante della grandi imprese a controllo esterno (ossia con un capitale ed un cervello non a livello locale) tanto da far ipotizzare il loro abbandono dell’area in cerca di localizzazioni più competitive e profittevoli. L’aumento del numero degli esportatori del Mezzogiorno più che una tendenza strutturata può essere vista come una risposta un po’ disperata al crollo della domanda interna, risposta che potrebbe perdere slancio se mancassero i capitali per consolidarla e renderla competitiva.

L’analisi parla di progetto incompiuto di integrazione europea dove l’allargamento del mercato unico e l’introduzione dell’euro non hanno garantito né una crescita media paragonabile ad altri blocchi continentali né una distribuzione omogenea di benefici del processo di integrazione economica e finanziaria. Anzi i divari strutturali tra economie nazionali, a seguito delle politiche di svalutazione reale si sono inaspriti determinando una situazione di asimmetrie sistematiche tra centro e periferia. L’Unione resta strutturalmente votata a tale divergenza, si sottovalutano i costi sociali associati alle politiche di moderazione salariale associate a quelle di svalutazione reale e si affida la ripresa ai tempi lunghi, costellati da lacrime e sangue, del dispiegarsi degli effetti delle riforme strutturali.

L’effetto è che l’economia italiana che ha i suoi competitors nelle economie maggiori si trova al proprio interno un Mezzogiorno che compete invece con le aree marginali dell’Unione ed il risultato complessivo è una economia all’intersezione tra centro e periferia con il rischio di scivolare unitariamente ai margini dell’Unione.

La Svimez però articola anche una strategia di ripresa, strategia che deve essere nazionale per riavviare una dinamica di convergenza che consenta al Mezzogiorno di avere tassi di crescita più elevati rispetto a quelli del centro nord, abbandonando nei fatti un approccio di austerità fine a se stessa. Il filo conduttore di tale strategia sarebbe una politica attiva di sviluppo di cui lo Stato diventi regista e non solo regolatore dei mercati con il ripristino su scala nazionale del ruolo degli investimenti pubblici per la crescita e con forme di fiscalità compensativa europea per investimenti al Sud (visto che i fondi strutturali sono per circa il 50% appannaggio di paesi non aderenti all’euro). La Svimez parla anche di politiche attive del lavoro e di indifferibili politiche di Welfare che abbiano effetti redistributivi ed anticiclici all’interno di una unica strategia di sistema.

Non stiamo qui ad entrare nei dettagli delle proposte della Svimez.

L’impressione che se ne ha però è paradossale: parte della borghesia illuminata di impostazione prevalentemente meridionalistica, priva di adeguata base sociale e conseguentemente di sostegno politico, svolge una analisi e propone una strategia che non hanno corrispondenti in nessuno dei partiti politici all’interno del Parlamento, ma che sarebbe condivisa da partiti di sinistra cosiddetta radicale che non hanno attualmente rappresentanza parlamentare. La stessa classe imprenditoriale meridionale, ormai perdente all’interno del processo di divaricazione delle economie nazionali europee, non saprebbe effettivamente se adottare o meno questa prospettiva, lucida quanto impotente.

Non è un caso che, alla presentazione del rapporto Svimez, Claudio Velardi, uno dei più inquietanti e pittoreschi consiglieri del Principe che si siano mai affacciati in questi ultimi anni, si è retoricamente chiesto perché mai la Svimez continuasse ad esistere. In questo modo (al di là delle proposte che rimasticano il peggio del mainstream) la classe politica meridionale, lungi dal voler curare la febbre e di conseguenza la malattia, ha dichiarato che il problema della febbre è il termometro. Il punto è che essa vuole, pur confliggendo al suo interno, solo garantirsi un atterraggio il più possibile morbido all’interno del peggioramento complessivo della situazione economica generale.

Quanto a noi, è necessario essere consapevoli che, contrariamente alla sfondo europeista delle proposte riformiste ed impotenti della Svimez, in questa Europa è impossibile ogni riforma e chiunque a sinistra sostenga ancora il modello dell’altra Europa tende solo a differire nei fatti una ripresa del protagonismo delle classi subalterne.

Perciò, se da un lato, a livello locale, noi ci battiamo per un reddito minimo che abbia funzioni redistributive ed anticicliche (oltre ad essere associato ad una lotta più generale per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario), al tempo stesso pensiamo ad una rete solidale dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo e dunque ad una coalizione internazionalista che sia alternativa all’Europa del grande capitale finanziario.

Questo processo passa per una fuoriuscita dalla zona euro che non sia solo angustamente nazionalistica, ma che sia progettata ed effettuata di concerto da tutti i paesi PIIGS in modo da essere qualificata in termini di classe e di prospettiva possibile per il futuro.

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