di Christian Raimo
(con un commento/didascalia di Wu Ming)
Due giorni fa è stato annullato l’incontro che Matteo Renzi doveva tenere alla festa dell’Unità di Roma. Sul sito della festa dal pomeriggio si poteva leggere questo comunicato:
«Matteo Renzi ieri sera ha visitato a sorpresa la Festa dell’Unità di Roma, intrattenendosi a lungo con i volontari e i militanti tra gli stand.
Il previsto appuntamento di questa sera con il Segretario del PD, dunque, non si terrà.»
Il comunicato dava così per espletato il senso dell’incontro pubblico. Il 27 luglio Renzi aveva fatto un’improvvisata tra gli stand: ha detto un po’ di ciao, ha lanciato qualche battuta, ha giocato una partita a biliardino con il presidente del Pd Matteo Orfini e il sottosegretario Luca Lotti – come mostrato da varie foto ufficiali e meno. E la visita era andata.
Non c’era dunque bisogno – sottolinea il comunicato – che affrontasse anche il dibattito il giorno stabilito.
Così dal programma ufficiale della festa il suo incontro è stato subito eliminato, come se non fosse stato nemmeno calendarizzato e quindi non fosse stato cancellato.
Le motivazioni appena meno elusive di questo forfait le dava qualche agenzia: il timore delle contestazioni. Era probabile che i movimenti romani per la casa, i precari delusi dal Jobs Act, i docenti ancora arrabbiati per la Buona scuola, si presentassero a fischiare sotto il palco di Renzi. I dirigenti del Partito democratico hanno preferito non rischiare: “motivi di ordine pubblico” come si dice in questi casi.
L’episodio della buca di Renzi alla festa del suo stesso partito sarebbe significativo già in sé, se non fosse che il presidente del consiglio spesso non partecipa a manifestazioni pubbliche: annulla, non si presenta, disdice all’ultimo, al massimo preferisce un’improvvisata e una foto a un dibattito vero. E ora svicola anche dalle feste del suo stesso partito.
Questa pervicacia nel sottrarsi al confronto era stata analizzata nell’autunno scorso qui su Giap. Si era addirittura disegnata la mappa dei luoghi dove Renzi avrebbe dovuto presentarsi e all’ultimo aveva disdetto: ne erano venuti fuori a decine.
Le ragioni di questa allergia al confronto sono diverse.
Le file dei contestatori nell’ultimo anno di governo si sono ingrossate: ai militanti dei Cinque stelle o dei movimenti per la casa, si sono aggiunti dagli insegnanti arrabbiati per la Buona scuola ai precari scontenti del Jobs act.
Ci sono poi molti militanti del Pd che si trovano sempre più in imbarazzo e spaesati nel partito renziano che somiglia, più che a un partito liquido, a un movimento di opinione molto gassoso. Questo si mostra dal calo consistente degli iscritti – nel 2009 gli iscritti erano 831.042, nel 2014 sono scesi a 376.849 – ma anche da un semplice giro tra gli stand della Festa dell’Unità di Roma a via Conca d’oro, che sono esattamente gli stessi che si trovano tutto l’anno nel mercatino che si svolge lì la domenica: vestitini a poco prezzo, bigiotteria, chincaglieria etnica.
La debolezza strutturale di Renzi è quella di aver “scalato” un partito neonato e già in crisi e non essere riuscito a dargli né una nuova identità, né una maggiore coesione e democraticità.
Una doppia fragilità che si manifesta per esempio nella difficoltà di un dibattito efficace e trasparente nella questione Crocetta e in quella Marino, ma anche – per dire – nel fatto che il Pd non fa un congresso dal 2013 o che l’indagine di Fabrizio Barca sui circoli romani ne abbia evidenziato la corruzione endemica.
Se l’aura del vecchio partito, con i suoi rituali gerarchici, è stata rottamata, anche la narrazione nuova, diretta, e “popolare” non è già più convincente.
Del resto Renzi anche quando simula un dibattito aperto, alla pari – come nel caso del famoso video della lezione alla lavagna in difesa della Buona scuola – l’effetto è un autogol: critiche e contestazioni nel merito, a cui però non si sente di dover essere tenuto a rispondere.
La sua comunicazione è sempre unidirezionale. Il dissenso, il confronto, l’attrito non sono evidentemente contemplati. E quando si infila da sé in un’impasse, prova a uscirne con le “visite improvvisate”.
Prima dell’altroieri, era successo anche il primo giugno scorso, all’indomani delle elezioni amministrative.
La tornata elettorale non era stata felice per il Partito democratico, e Matteo Renzi piuttosto che presenziare ai dibattiti il giorno dopo, discutere le ragioni dell’insuccesso, era volato in Afghanistan: si era infilato una mimetica e aveva fatto un’improvvisata ai soldati italiani.
Non si capisce se sia una strategia comunicativa o l’assecondare un lato caratteriale allergico al conflitto. Quel che è certo però che c’è molto di antidemocratico in tutto questo. Oltre a mostrare una debolezza che non riguarda più la sua persona soltanto ma anche il suo ruolo.
Un leader deve rispondere del suo operato, deve sapere affrontare le contestazioni, deve saper rispondere alle critiche, e deve saperlo fare anche in piazza. Non solo in modo unidirezionale, attraverso twitter, le newsletter e la stampa a lui favorevole.
da http://www.wumingfoundation.com/
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