Che l’elezione di Jeremy Corbyn a segretario del Labour avrebbe provocato la rabbiosa reazione dell’establishment blairiano era scontato. Meno scontata l’intensità della campagna di denigrazione partita subito dopo l’elezione. Vecchio, conservatore, nostalgico, votato alla sconfitta elettorale e palesemente inadatto a governare: queste le accuse più ricorrenti.
Peccato che i sondaggi rivelino come a sostenere il vecchio nostalgico siano, in maggioranza, giovani cittadini inglesi infuriati per la sistematica svendita dei loro interessi da parte di un Labour convertito al credo liberista. Quanto all’impossibilità di vincere le elezioni e governare, la sensazione è che, a ispirare tale profezia, sia il terrore che possa essere smentita, come è avvenuto in Grecia (anche se i diktat europei hanno subito rimesso le cose a posto) e come potrebbe succedere fra poco in Spagna.
Su un punto i laburisti di regime però hanno ragione: Corbyn non è un segretario adatto per un partito che da tempo non era più espressione degli interessi delle classi lavoratrici, radicato nelle fabbriche, negli uffici e nei territori, ma un partito di centro che, assieme ai socialdemocratici tedeschi, ai socialisti francesi e spagnoli e ai democratici italiani, ha celebrato i funerali della socialdemocrazia. Ma se Corbyn vincerà la sua scommessa non sarà perché avrà resuscitato la socialdemocrazia, bensì perché avrà dato vita a una nuova forza politica antiliberista, della quale si intravedono tracce anche negli altri “populismi di sinistra” che turbano i sogni degli oligarchi europei.
Al coro di media mainstream, economisti, politologi, esponenti di partiti di destra, centro e sinistra (ad eccezione delle sinistre radicali) si sono aggiunte le voci delle “femministe di regime”. Non mutuo questa definizione da maschietti nostalgici del bel tempo andato, ma da intellettuali femministe come Silvia Federici, Nancy Fraser, Cristina Morini e Anna Simone – per citarne solo alcune – critiche di quel femminismo mainstream che – concentrandosi sui diritti individuali, sull’emancipazione e sui temi del riconoscimento e dell’identità di genere – ha rimosso la lotta per i diritti sociali e per l’uguaglianza politica ed economica. Una svolta che consente al neoliberismo di integrare il discorso femminista sul terreno di una “modernizzazione” culturale giocata a suon di chiacchiere politically correct e quote rosa (non c’è leader di destra che, maschilista fino a pochi anni fa, manchi oggi di esaltare i diritti delle donne). Così i giornali hanno attaccato Corbyn: prima perché non sembrava intenzionato a inserire un congruo numero di donne nel governo ombra, poi perché ne aveva messe più della metà ma in ruoli “secondari”.
Ancorché speciosa, la polemica è interessante perché mette in luce alcuni effetti della svolta appena accennata. Prendiamo, per esempio, l’articolo di Maria Laura Rodotà sul Corriere di martedì 15 settembre. Dopo avere ironizzato sui maschi di sinistra – i quali sarebbero più intolleranti nei confronti del politicamente corretto “perché a loro è stato vietato troppo a lungo di fare i cretini” – l’autrice fa le pulci, oltre che a Corbyn, a Tsipras e al candidato alla nomination democratica Bernie Sanders (tutti colpevoli di circondarsi soprattutto di uomini).
In particolare, ricorda che i sostenitori di Sanders sono soprattutto uomini bianchi di tutte le età (in realtà c’è una consistente quota di giovani di ambio i sessi) mentre le donne (anche le liberal) preferiscono la Clinton perché convinte che il solo fatto di mandare una donna alla Casa Bianca cambierebbe il mondo (anche se le illusioni alimentate dall’elezione del nero Obama insegnano che il potere ignora razza e genere). Poco importa che la Clinton sia notoriamente sponsorizzata da Wall Street, il che rende risibile la sua pretesa di ergersi a paladina della lotta contro la disuguaglianza.
Conta più il genere o il programma? La Rodotà sembra indecisa: da un lato, ammette che il programma di Corbyn “è uno dei più femministi che ci siano”, ma dall’altro sottolinea che “viene proposto da una leadership di cinque uomini”. Meglio la oligarca Clinton del socialista Sanders solo perché è donna? Se qualcuna/o (oddio come sono politicamente corretto!) mi dicesse: meglio la senatrice Warren, perché è donna e schierata su posizioni vicine a quelle di Sanders, potrebbe convincermi ma io, da irriducibile “vecchietto”, continuo a pensare che sia meglio giudicare un leader in base al suo programma e alla coerenza tra il dire e il fare e non alla sua età, razza, genere o gusti sessuali.
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