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Renzi, le assemblee e il manganello mediatico

Per il circo mediatico, i diritti negati, i salari ridotti, i pensionamenti cancellati, gli esodati, la vita precarizzata, i crimini commessi dalla premiata ditta Monti-Letta-Renzi, sono solo equi strumenti per ridurre il costo del lavoro a livelli «ragionevoli», garantire l’ascesa dei profitti e agevolare gli investimenti che «producono lavoro». A condizioni servili, d’accordo, ma questo non conta niente.
La ricetta autoritaria non l’ha inventata Renzi. Nel corso della storia, prima di volgersi in puntuale tragedia, ha sempre confuso libertà e liberismo, facendo balenare l’Eden degli «imprenditori di se stessi», il mito di chi «si è fatto da sé» e l’età dell’oro, dopo la fine della storia per estinzione del conflitto. Chi non si fa abbagliare dal “latinorum”, conosce gli ingredienti: lo Stato spogliato delle sue attribuzioni economiche, la politica serva dell’iniziativa privata, un sistema fiscale “progressivo alla rovescia”, che affama i poveri e arricchisce i benestanti, le banche che privatizzano i profitti e socializzano le perdite, la compressione dei salari, le assemblee legislative elettive svuotate di attribuzioni e minate nella reputazione, le classi sociali sottoposte a una gerarchizzazione feroce, l’Esecutivo rafforzato. Questo però non è ancora fascismo. Perché una crisi finanziaria, gestita con comanda la Bibbia liberista, conduca al crollo della democrazia e sfoci in quello che Pietro Grifone definì acutamente «regime del capitale finanziario», occorre aggiungere alla ricetta almeno due ingredienti: la trasformazione del sindacato in associazione corporativa e la conseguente cancellazione del conflitto.
In questa direzione va da tempo l’ala reazionaria della borghesia italiana, di cui Renzi è la più compiuta espressione dai tempi del fascismo. Lo dimostrano Marchionne santificato, il ruolo di trasformisti come Ichino, passato a destra, sulle orme di Rossoni, dopo aver utilizzato la Cgil come trampolino di lancio, e per finire eventi apparentemente marginali, come l’assemblea sindacale al Colosseo. Mentana e soci si guardano bene dal dirlo, ma l’assemblea, regolarmente autorizzata, era del tutto legale e l’uscita di Renzi è stata vigliaccamente premeditata, com’è nello stile di un golpista.
Cos’è accaduto realmente a Roma? Ordinaria amministrazione. Franceschini chiede ai lavoratori lavoro straordinario, perché gli organici sono insufficienti, poi però non li paga, come prescrive il contratto sottoscritto dal suo Ministero. Di fronte all’ostinato silenzio della controparte, i lavoratori si sono riuniti in assemblea per difendere i loro diritti nei modi che la legge consente. A questo punto entra in gioco Renzi, che da tempo intende ridurre pesantemente le libertà sindacali e ha in mano un decreto scritto apposta da Ichino. Renzi sa che non sarà facile, perciò traccheggia e spedisce Franceschini da Mattarella, per sondare il terreno con il sosia silente del ciarliero Napolitano.
A questo punto, imprevista e miracolosa come manna dal cielo, ecco l’assemblea al Colosseo, che offre l’occasione per una risolutiva manganellata mediatica. Renzi si butta a pesce e, impugnato il decreto dell’ineffabile Ichino, mena giù fendenti micidiali. Il ducetto lo sa: stampa e televisione ormai non servono più a informare la popolazione, la democrazia muore di morte violenta e basta creare consenso per usare impunemente la forza coi lavoratori. Non a caso, perciò, Mentana e soci intonano il ritornello sui musei e i siti archeologici, che solo in Italia chiuderebbero per assemblee sindacali, e sulle nefandezze dei sindacati.
Le cose, in realtà, stanno in maniera ben diversa, ma chi lo racconta? Giornali e televisioni servono solo come “manganello” virtuale contro i lavoratori. Se facessero ancora il loro mestiere, Renzi cadrebbe misericordia. Basterebbe qualche notizia vera sulle prime pagine, un corrisponde estero pronto a rivelare che nel 2015 la National Gallery di Londra – 6 milioni di biglietti staccati in un anno – ha chiuso cinquanta volte per ragioni sindacali e a Parigi, nell’aprile scorso è toccato alla Torre Eiffel chiudere per uno sciopero generale. Basterebbe ricordare che Il 22 maggio scorso, gli agenti della sicurezza, impiegati nel monumento-simbolo della “Ville Lumiere, prima si sono riuniti in assemblea sindacale, poi, poco prima dall’apertura, sono scesi in sciopero per protestare contro gli aggressivi borseggiatori che infestano le file dei turisti. Basterebbe superare il muro di omertà e la vergognosa verità verrebbe fuori prepotente. Il 14 novembre 2012, ha chiuso la celeberrima Alhambra di Granada, che in Spagna è il luogo più visitato dai turisti. Si è trattato di uno sciopero generale che ha mobilitato i lavoratori di tutti i siti d’arte, non esclusi quelli dei teatri di Madrid. In quanto al Louvre, nel 1999 uno sciopero lo tenne chiuso per una settimana assieme al celebre Musée d’Orsay e a tutt’oggi, senza scandalizzare nessuno, l’ingresso chiude frequentemente al pubblico a causa degli scioper e non si troppo per il sottile coi preavvisi.
In un Paese democratico, nessuno impone ai lavoratori di rinunziare ai propri diritti e si fa in modo che si rispettino. In Italia, dove la crisi finanziaria è ormai crisi delle Istituzioni democratiche, si fanno largo invece gli imbrogli di Renzi e Franceschini e un progetto di sindacato corporativo che subordina i diritti a un non meglio identificato “bene della nazione”. Non a caso, del resto abbiamo avuto Crispi, gli spettri del ’98, la guerra imposta con la forza al Parlamento, il fascismo, Scelba, la Fiat di Valletta e quel nobiluomo di Marchionne.
Svegliamoci. Se lavoratori disoccupati e precari non vanno in piazza ora, uniti e decisi, buon ultimo, all’elenco delle tragedie italiane aggiungeremo Renzi e sarà vero ciò che scrisse Gobetti prima di esser ammazzato dagli squadristi: il fascismo è l’autobiografia degli italiani.

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